COLOMBA E L’ARCO DI TRABAND - di Fernando Acitelli

COLOMBA

E L’ARCO DI TRABAND

 

- di Fernando Acitelli -

L’arco di Traband  era accanto alla casa della Marchigiana (Marchisciana). Finire lì dentro solamente per osservare il luogo e le persone era rischioso perché se si fosse incontrato qualcuno, ad esempio Giovannina o il marito Giovanni o ancora le loro figliole, Apollonia e Mimmuccia, per non parlare del nonno di queste vale a dire Franciscone, non si sarebbe potuto dire, semplicemente: «Sto dando un’occhiata...». Una risposta che non li avrebbe soddisfatti visto che si doveva superare un arco e poi guardare tutt’intorno e già quel buio, a quei tempi, comunicava qualcosa di misterioso. Inoltre si potevano incontrare anche Traband in persona e poi Colomba e la loro figlia, Rita, riservatissima. Colomba, appunto. Si trattava d’una donnetta, piccola con grazia, ma un tipo risoluto e poi fantastica quando si caricava sopra la testa il secchio per il mangiare del maiale. La sua forza, combinata anche al suo equilibrio, era straordinaria. La vedevo sfilare sotto la casa di mia nonna con quella sparra formata a cerchio, in modo che essa “attutisse” un poco la pesantezza del secchio sulla testa. Strategia esemplare che vedevo anche in altre donne ad Assergi che neanche più facevano caso a cosa s’erano messe sulla testa.  La loro maestria era ormai proverbiale ed esse si fermavano anche durante il percorso verso il pagliaio e iniziavano a parlare con le persone incontrate come se fossero libere e non dovessero fare attenzione su quanto avevano poggiato sulla testa.

A dirla in breve la loro laboriosità era grande e, oltre alla loro famiglia, si dovevano occupare anche delle faccende dei loro quieti animali. Ed io ero spettatore involontario delle fatiche di Colomba che passando per la Piazzetta del Forno s’incamminava verso l’Arco Rutelone, scendeva quell’insidioso gradino, e proseguiva per NaPorta perché, almeno dai miei ricordi, doveva avere il pagliaio ai Frati, vicino le scuole. E vedendola ne ammiravo come detto la forza, la resistenza, la stessa che aveva sicuramente messo con le conche per cogliere l’acqua quando quest’ultima non era ancora arrivata nelle case. Altra fatica era quella delle conche, e si poteva cercare d’alleviare un poco la fatica magari prendendo quella conca in due persone così almeno gli spostamenti sarebbero stati meno faticosi e, soprattutto, non avrebbero inciso negativamente sulla testa e sul collo. Esattamente questo pensavo imbattendomi in Colomba che, sfilando sotto casa, s’avviava verso il pagliaio. Dunque passava anche per il belvedere subito dopo l’arco dell’orologio e così via, giù verso i Frati. Ma non che il procedere in discesa fosse affare lieve, più tranquillo, e anzi si doveva prestare molta attenzione perché la strada lì era più liscia e si poteva scivolare (se potea sciufelà...). Vedevo Colomba per lo più d’estate e così i vestiti erano leggeri, abitini a fantasie lievi, e con la cintina in vita. Anche le scarpe osservavo, spesso nere e con i lacci. E al ritorno quel secchio era portato a mano ed era pieno di lena e la giornata così si chiudeva e la quiete non poteva che avvenire a casa. Colomba è vissuta ben oltre i novant’anni e dunque, malgrado le fatiche in cui s’era distinta, aveva avuto la meglio sulla vita, aveva visto innumerevoli giorni e di questo non poteva che essere soddisfatta. Era stata un’ottima madre ed una brava moglie.

Suo marito, dico Traband perché non ricordo il nome (mi pare Peppe, ma non ci giurerei), era morto molto tempo prima e lo ricordavo rincasare nella sera prossima al buio con la pelle del viso lucente e poi dei pantaloni celestini, di quel magico colore scolorito.  Procedeva verso la Costa e di lì a poco avrebbe imboccato quell’arco che a me piaceva chiamare di Traband. A volte un soprannome può veramente salvare dall’oblio perché un nome è comune ma un soprannome distingue e aiuta a ricordare.

Avevo sentito dire anche del perché quella donnetta laboriosa ed instancabile era stata chiamata Colomba. Il padre era soprannominato La Pica (mi scuso che cito soltanto il soprannome, ma mi è oscuro il nome) e questo perché aveva un tacchino per il quale nutriva veramente affetto, come se si trattasse d’una persona. Ebbene a questo animale lanciava il giusto pasto, quello che evidentemente gradiva il tacchino e, nel fare questo, soleva ripetere: «Pica tè, Pica tè». Queste sue attenzione con quel mangime che gli lanciava: era come se l’imboccasse. Ma lui riferiva anche del modo in cui il tacchino gli rispondeva: «Gli dicea Pica tè, Pica tè e esse me responnea Cro Cro!...».

Inoltre si seppe del perché avesse scelto il nome Colomba e così La Pica giustificò la sua scelta al prete, il quale gli aveva chiesto: «Che nome abbiamo scelto per questa bimba?». E lesta fu la risposta de La Pica: «Colomba! Voje rallevà la bonanima de mamma, la moglie tata».

Anche da questo si potrà notare come la semplicità delle persone ma anche i sentimenti fossero, a quei tempi, qualcosa di diverso da oggi, non voglio dire migliori ma è anche in virtù di questa bonarietà che molte di quelle esistenze sono, ancora oggi, ricordate. Sono ancora tra noi.

 



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