I SANDALI DI PAOLINA - di Fernando Acitelli

I SANDALI DI PAOLINA

 

- di Fernando Acitelli -

 

Ci ricordiamo delle persone per il loro sguardo, per l’affettuoso saluto quando ci si incontrava, per la battuta facile, per un capo d’abbigliamento, per un affaticato rientro a casa, per il loro pagliaio che si sarebbe potuto mutare anche in abitazione con i coppi ricamati di muschio e quell’odore di fieno tutt’intorno. Ogni persona m’è rimasta dentro per qualche sublime dettaglio: quando Colonneje incontrava mio padre, subito s’arrestava, guardava il viso del mio genitore e subito diceva: «Tu ci degli Si Giocond!». L’ultima volta che questo fatto accadde fu poco prima della casa della comare della Foletta e Colonneje con i pantaloni a fior di caviglia e una camiciola pesante ben stretta in vita con un nodo s’inoltrava verso il pagliaio e l’andatura era fantastica perché assomigliava a quella d’un vecchietto del West tra l’ufficio dello sceriffo ed il saloon. Un altro rituale meraviglioso era quando, all’imbrunire, percorrendo la Strada Ritta, salutavo le marchette e Maria subito che rispondeva: «Bonasera Fernà!». Naturalmente subito dopo ecco che s’univa a quel saluto la sorella Francesca che essendo ormai nell’universo della cecità non poteva far altro che ripetere quanto appena detto da Maria.

Di Franca Alloggia, amorevolmente chiamata Pitturina, ricordo gli scarponcini sui quali finivo con lo sguardo per lo più quando lei era “rencriccata” sul gradino del suo orto poco dopo la Porta del Colle. E mia nonna Maria che sfilandole davanti la salutava: erano state in classe insieme alle elementari.

Di Angela Maria Pace, la madre di Giulio, ricordo che, incontrandomi, mi sorrideva e accompagnava tale moto dell’animo con un sempre affettuoso: «Saluta mammà!». Se m’imbattevo in Daniele Massimi, magari alle scale di fronte a Carmine e Vincenzina, non dovevo evocare il Ventennio e se per caso, scherzando, avessi esordito con un: «A noi!», ecco che lui subito avrebbe risposto: «La pastasciutta! Quella ci!». E se raggiungevo la casa di Gianni, potevo dividermi tra Maria che mi chiedeva: «Quissu che dice?». E Arcangelo, tranquillo e in disparte che poneva la perenne domanda filosofica: «Come si va?». Che poi, a ben pensarci, riassumeva tutte le altre domande sull’esistenza. Quella semplice frase racchiudeva tutto: intendeva sincerarsi su corpo e animo. «Come si va?», nel senso di come si stava attraversando la vita con tutte le sue implicazioni.

Gli esempi potrebbero continuare per molte altre persone di Assergi ma voglio adesso soffermarmi sui saldali di Paolina Faccia (de Cotone), la madre di Gino. La incontravo per lo più d’estate, la stagione in cui lei si liberava delle scarpe massicce che proteggevano dal freddo e compariva con i sandali. Dunque i sandali erano una sua caratteristica e se anche le altre donne cambiavano scarpe vista la bella stagione, nessuna che optava per i sandali scegliendo calzature indubbiamente più leggere non risolvendosi mai, però, a quella scelta arieggiata, estetica.

Dunque gli occhi intensamente a mandorla di Paolina, la sua chioma sempre protetta da un fazzoletto, i polpacci bene in evidenza, da mezzofondista, la battuta pronta, il sorriso difficile a sorgere, il passo ben disteso dalla Bucia alla Pistervela alla Porta del Colle in un via vai operoso: vederla ferma era impossibile ed era spesso esposta ad un borbottio che pareva scaldare l’aria, o rinfrescarla a seconda delle stagioni. In certi inverni con il paese deserto proprio quelle sue puntualizzazioni in solitaria rendevano meno triste la strada.  I suoi occhi guizzanti, indagatori, affamati di vita, contrastavano fortemente con chi procedeva a stento ed aveva lo sguardo appannato e poca voglia d’osare anche una sola parola. Quelle persone, insomma, che s’attestavano sulla frase: «Zitte ca ne me ne te…». Oppure: «A te te ne te e a me pignente…». E se lei era istintiva - se inascoltata subito rumoreggiava con la voce - suo figlio Gino era l’esatto contrario, un tipo meditativo, con un’andatura quieta nell’esporre le sue riflessioni ed esse cadevano come in certi film di Fellini quando si sentono delle voci ma non si vede la persona che le ha composte. Voci accompagnate dal sibilare del vento.

Quelle voci spesso rappresentano la coscienza e se vengono dal profondo non hanno bisogno dell’approvazione dei più, valgono già soltanto perché sono sbocciate. È come quella sintesi che suona più o meno così: chi vuol capir capisca. E anche quando Paolina era lontana, si poteva benissimo dire che fosse presente. Gino aveva ormai interiorizzato il credo materno e da esso mai si spostava e dunque le sue riflessioni non prevedevano mai un cambiamento di rotta. Certamente, egli modellava tutto a suo modo con un comportamento quieto, conciliante, che conteneva sempre, comunque, l’eco materno. Chissà perché immaginavo che sarebbe stata sempre Paolina il muro difensivo di Gino.

Se finiva al posto NaPorta, vero salotto all’aria aperta, si vedeva Gino ascoltare i dialoghi dei presenti, mantenere un rigoroso silenzio fino a quando tutte le cose dette potevano essere da lui accettate. Ma quando aveva sentito qualcosa che secondo lui non era proprio il massimo della lucentezza, subito interveniva argomentando. E lo faceva con profondità risalendo alle origini d’un certo fatto e in quei momenti lo ammiravo proprio perché in minoranza e, in un certo senso, facevo il tifo per lui. Non che fossero tutti contro di lui ma quell’esporre il suo punto di vista non faceva proseliti e neanche lo si interrompeva come se quel suo intervento non avesse peso in quello scontro tra generazioni. Era solennemente solo, e dunque anche su quel muretto valevano le regole vigenti altrove: più si stava da soli e più non s’aveva credito. Ma per me era vero esattamente il contrario e l’elaborazione acuta s’aveva riflettendo di continuo in solitaria con tanto tempo a disposizione per farlo. In un certo senso, il tempo dei poeti.

Ma se fosse lì giunta Paolina con i suoi sandali marroni, avrebbe forse invitato suo figlio ad argomentare con la luna, molto più sensibile.

 



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