FLASHES E DEDICHE - di Fernando Acitelli -

FLASHES E DEDICHE

- di Fernando Acitelli -

 

Le Scale della Vecchia erano affascinanti anche per come erano chiamate. Vi era qualcosa di misterioso nel sentire quella sintesi: scale della vecchia.  Qualcosa che aveva a che fare con la magia, con il medioevo: i rimandi potevano essere tanti. Forse si riferivano ad una vecchia donna che poteva essersi distinta in qualcosa. E qual’era lo sguardo di costei? E inoltre: chi poteva dire che quel suo remoto distinguersi non potesse contenere veramente qualcosa di magico? Ogni volta che scendevo quelle scale pensavo proprio a questo. Scendevo le scale, non le salivo perché la bellezza era tutta nel discenderle. Vi era un rischio anche se si era ragazzi, e la pericolosità era a motivo del modo in cui erano stati composti i gradini. La forma irregolare, intendo. A discenderli di corsa si rischiava e dunque era buona cosa prestare attenzione. Era anche un ottimo rifugio in caso d’un acquazzone improvviso. Quell’arco in discesa poteva essere un rifugio alla buona, occasionale, ben diverso dall’arco prima di quello degli Sì Giocond, luogo dove il buio e i cattivi odori disponevano alla fuga.

Invece alle Scale della Vecchia era tutto arioso, e i buoni odori provenivano per lo più dalla casa di zia Silvia. Prima delle scale c’era una porta che in seguito seppi essere d’un certo Silvio, quindi la casa della Finanziera e di fronte l’edificio della famiglia Ippoliti mentre, giù, ovvero dall’altra parte delle Scale della Vecchia, la piazzetta di Pipiale, la casa della Generala e di Pietro di Fantine e poi giù verso l’antica abitazione di Angelo Faccia (Pallottone) e di Quirino Del Sole. E tutto questo prima delle svolte fatali, verso ‘NaPorta a destra e la Pisterola a sinistra.

Alle Scale della Vecchia, proprio lì e non “da quelle parti”, in basso e prima di salire i gradini, ci vidi spesso Giuseppina, la nonna di Ascenso. Se ne stava seduta accanto ad una porta e dunque pensai che quella poteva essere la sua casa. Immaginai come meraviglioso quel luogo ma forse per me che ero ragazzo non certo per Giuseppina che doveva arrampicarsi per quelle scale e, quanto alla fatica, tale azione non doveva essere uno scherzo.

Dunque ho fissato un luogo che, malgrado il tempo, resiste nella memoria. Si procede per frammenti, per scheggiature, per lapilli che ogni tanto emergono dal sottosuolo della mente dispiegando immagini che comprendono anche persone, ovvero figure con le quali mi confrontai anche solo con lo sguardo. Per me le Scale della Vecchia mi comunicheranno sempre la nonna di Ascenso, come Francesco Corrieri mi spunterà davanti sempre con il saluto sorridente. Una volta proprio Francesco dall’alto del pagliaio disse a mia madre nel mentre transitavamo per quei luoghi: «La vita? ‘na affacciata de finestra!». Poco dopo mia madre mi disse che quella frase la pronunciava sempre la madre di Francesco, Giuseppina Napoleone, Ciu Ciu più affettuosamente.

Mi sposto da un punto ad un altro e sono i luoghi a far riapparire le persone: Assunta de Dragone veniva spesso a casa di mia nonna. Era d’estate e lei partiva dalla sua casa, alle spalle di quella di Cristina Longa, e risalendo la costa giungeva alla Piazzetta del Forno. Il bello era che portava con sé una macchinetta con il caffè ancora caldo e così, sedendosi nella cucina, iniziava a raccontare con mia nonna che la ringraziava per il pensiero del caffè pure dicendole che non si sarebbe dovuta disturbare. Ebbene, prima di sedersi, stanca del percorso anche in salita e pure per gli anni, soleva dire: «Marì, vede sole la sedia…». E così s’accomodava proprio davanti al camino che, a quell’ora (era il tardo pomeriggio), stava a riposo. Quella frase: «Marì, vede sole la sedia» incominciai ad interpretarla in seguito e ogni volta che incrociavo Assunta, magari seduta sui gradini della sua casa, me la ripetevo. In quella frase era raccolta buona parte della filosofia. Essa conteneva tanto (non tutto): c’era l’insensatezza della vita, la fragilità, i conti che il corpo ad un certo punto presentava e poi anche le lacrime perché spesso, quando Assunta veniva a trovare mia nonna, incominciava a sfogarsi per tante (e giustissime) cose. Chissà cosa la sua coscienza faceva riemergere… E così assistevo anche alle lacrime e mia nonna che subito interveniva dicendole che aveva fatto tutto bene, anzi, pure troppo bene, e proprio non capiva perché dovesse commuoversi a quel modo. E infatti subito dopo si vedeva Assunta risollevarsi d’animo e con mia nonna riprendevano a parlare cercando di non infastidire neppure l’aria. Rimaneva lì da mia nonna per un buon tempo e quando riteneva fosse giunta l’ora di far ritorno a casa, ecco che mia nonna le raccomandava di stare attenta alle scale e poi anche alla costa: «Sta attenta, Assù…». E così si chiudeva il giorno.

Tempo addietro parlai dei sandali di Paolina e ne sottolineai la distinzione. Ella doveva calzarli già con il primo caldo e dunque maggio doveva essere il mese perfetto per esordire con quella novità. D’estate, comunque, non era la sola che cercava sollievo con simili calzature. Ricordo i piccoli (allora) Jean Claude, Silvie e Marie France, nipoti della comare della Foletta (non so come si chiamasse la madre che era figlia della comare) che dalla Francia venuti nel mese di agosto ad Assergi calzavano sandali simili a quelli di Paolina ma questi erano colorati e di plastica. In particolare mi ricordo di come quelli di Jean Claude fossero azzurri mentre quelli delle sorelline rossi e anche bianchi (flash su cui non giurerei). I tre fanciulli non si muovevano mai dal loro vicinato, del resto avevano tutto lì, la casa e, di fronte, quello spazio grande che poteva essere un’aia ma anche un luogo di quiete. Silvie, capelli neri con un taglio alla maschietta (mora, mora, mora), scura di carnagione e con occhi espressivi. Marie France castana come il fratello e molto carina proprio come Silvie.

Jean Claude non era un tipo facile (non lo vidi mai ridere), e aveva sempre l’aria di prenderti in giro – forse era una sua difesa - e muoveva spesso la mano destra davanti agli occhi come a dire «Ma che sei stupido?». Le sorelline erano riservate, poco propense ad allontanarsi da casa, felici in quel loro luogo tra l’abitazione e l’aia. A Ferragosto potevano vedersi nella piazza ma non si staccavano mai dalla giostra rassicurante dei parenti.

S’è detto d’una storia di Assergi per immagini, per frammenti, per frasi colte al volo qua e là mentre si stava pensando ad altre cose o s’era di passaggio in un luogo. E d’improvviso ecco una frase che rimaneva impressa come una minibiografia per chi l’aveva pronunciata: Vincenzo Acitelli che dinanzi alla porta del suo pagliaio chiamava il suo cagnolino: «Nik! Nik! volpetta!».

La Piazzetta del Forno consentiva d’orientarsi. Sia Giulianett che la comare Peppina Rapiti e anche Sarinella provenendo dall’alto – diciamo da Ciu Ciu – giunte nel bel mezzo della piazzetta s’arrestavano gettando uno sguardo alla Costa. Poi guardavano davanti ed era quello uno snodo esistenziale, il luogo della decisione per quel giorno: non potevano sbagliare. Li vedevo titubanti come se quella scelta potesse risultare decisiva per la loro vita. Quasi sempre la scelta cadeva  sull’Arco Rutelone, perché già l’avvistamento della Costa disponeva psicologicamente ad una fatica visto che poi, anche cambiando percorso, si sarebbe trattato comunque di strade in salita.

E oggi si chiude con una frase che è bene salvare e che recita così: «Ma que è tutt so magnà? E che tenete i segatori?».



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