ASSERGI E AMERICA - IDENTITÀ E OBLIO - di Fernando Acitelli

 

ASSERGI E AMERICA

IDENTITÀ E OBLIO

           - di Fernando Acitelli -

 

Amavo soprattutto le case che erano state abbandonate per la ragione seria dell’emigrazione. Non si aprivano da gran tempo e rimanevo dinanzi all’uscio con una lunga sequenza di domande. Una casa su tutte ricordo esemplarmente. Si trattava di quella di fronte all’abitazione di Battista Pace ed era pitturata di azzurro. Si salivano le scale per arrivare alla porta. Mai vista entrare una persona lì dentro e così l’avevo promossa a simbolo dello sradicamento: tante volte pensai a dove fossero finiti i legittimi proprietari. Emigrati dove? Il desiderio inconscio era quello di forzare quella porta con l’intento di rintracciare gli ultimi passi di chi era partito, il suo modo d’aver composto le valigie, controllati i passaporti, messe nel bagaglio le fotografie ed anche la famosa mutata, ovvero più della calzamaglia d’ordinanza. E poi l’ultima recita di preghiere con quel lungo sospiro: «San Franc mi care care care…», e via di questo passo. L’Assoluto da cogliere, insomma, in forma di lamento/preghiera.

Magari non si era conosciuto colui che aveva abbandonato Assergi ma non faceva nulla, l’uscio chiuso parlava, mandava a dire che quelle esistenze non avrebbero potuto più condividere la vita in quel borgo e s’erano imbarcate per un altrove che sapevano sicuramente più favorevole. Oh, come entrava in gioco a quel punto il cinematografo!... Tutto diveniva sogno, fantasmagoria, una salvezza, un modo per avvistare buona parte di tutti gli anonimi, gli sconosciuti della storia. Il cinematografo ne dava involontariamente notizia, “ce li faceva vedere”, non tutti beninteso, ma una parte che assurgeva a forma simbolica. Appena in quelli avvistati nei film noi potevano vedere tutto. Dalla Molteplicità all’Uno e viceversa.

Se si era visto ad esempio il film Preferisco l’ascensore con il grande attore americano Harold Lloyd, uno dei pionieri della pellicola, colui che rimaneva sospesa sul vuoto aggrappandosi ad un grande orologio a precipizio da un grattacielo, ebbene, in quelle sequenze oltre che ammirare l’eleganza e la grandezza di Harold Lloyd come attore, così indimenticabile con i suoi occhialini tondi da intellettuale e sognatore, ci si poteva confrontare con tutte le persone in basso che osservavano quella scena. Ebbene, di tali persone non si sarebbe mai saputo nulla, nominativi, abitazioni, professione, e soltanto il filmato poteva farci sognare la loro identità. Era anche probabile, forse, che tra tutte quelle persone che nel film guardavano Harold Lloyd sospeso nel vuoto vi fossero degli italiani. E chi potrebbe affermare il contrario? Ecco, ritornando ad Assergi e imbattendomi in quelle abitazioni chiuse il mio pensiero andava proprio a quel film, Preferisco l’ascensore. Soltanto in quel modo potevo pensare a coloro che da Assergi erano salpati con destinazione l’America. Cosa facevano? Erano stati inquadrati in quel film oppure in qualche altro? Avrei voluto vederli! Andavo a pensare che il loro grido all’Universo – grido che voleva dichiarare il loro passaggio sulla Terra salvandosi dall’eterno oblio – poteva esistere in una di quelle inquadrature. Eh, ma si sarebbe dovuto fare un lungo lavoro, ricostruire il periodo di quando quel film era stato girato e dunque porre degli avvisi, creare delle pubblicità, sollecitare la solita amorfa sensibilità per rintracciare se non quegli individui (dovevano ormai essere morti) che guardavano Harold Lloyd sospeso, almeno i loro discendenti, i quali avrebbero potuto affermare che quelle persone proprio lì sotto quel grattacielo con Harold Lloyd sospeso nel vuoto erano loro famigliari o anche conoscenti.

Quel film era passato in televisione sotto Natale ed io ero piccolo. Avevo amato così tanto quella pellicola che proprio in quel pomeriggio si formarono questi miei pensieri su identità e oblio. Col tempo avrei naturalmente affinato tali riflessioni fino a farle diventare materia esistenziale, poetica. Oggi quel film è reperibile ovunque ma io sono rimasto a quel sublime unicum trasmesso durante remotissime vacanze natalizie. Mi pareva che le lettere degli emigranti ai propri cari rimasti ad Assergi non mi bastavano più, erano testimonianze esili, private, al contrario d’un filmato dove certi volti si vedevano e l’animazione li avrebbe resi sempre vivi.

Ma sarà finito anche un solo individuo di Assergi in una pellicola oppure in un documentario? A Philadelphia come a New York… Ad esempio mio nonno Alfonso Acitelli fu a Philadelphia mentre mio zio Ascanio Acitelli (fratello minore di Alfonso) fu a Detroit, entrambi prima del 1920 e la pellicola Preferisco l’ascensore è del 1923.

Ma torniamo alle case di Assergi abbandonate per le giuste ragioni dell’oltrepassare l’Oceano Atlantico: su quegli usci nascevano ciuffi d’erba che con il tempo diventano copiosi e che avrebbero colonizzato soglie e finestre. Mi pareva che quel verde dovesse assolvere al compito di lenire le ferite di quelle porte che non si sarebbero più aperte. Erano come cornici di natura e quel verde già da lontano dichiarava un’assenza, parlava d’una famiglia che già da anni non partecipava più ai rituali di Assergi. Ed era tutto un rimandare perché dagli usci piacevolmente aggrediti dal verde si finiva ai genitori di coloro che erano partiti. E proprio i genitori avevano resistito alla lontananza dei loro figli ma, anni dopo anni, anch’essi alla fine s’erano dovuti arrendere e così dal verde in ciuffi dinanzi alla porta di casa mi sarei subito comunicato con quel verde pettinato del cimitero: dunque il verde era il colore dell’oblio ed era per questo, forse, che fanciullescamente sognavo di vedere qualche volto conosciuto o che avevano conosciuto i miei genitori in un film, come comparse o figure sullo sfondo. Contro la dimenticanza, l’oblio, c’era soltanto da finire nei fotogrammi perché le lettere e le fotografie, passando di mano tra gli eredi, si sarebbero disperse fino a scomparire. Chi seppe riconoscere in quel film con Harold Lloyd qualche parente tra le comparse che s’osservavano sotto quell’attore arrampicato e sospeso nel vuoto? Mi sarei contentato anche di persone americane che riconoscevano, anni dopo, qualche parente finito suo malgrado in quel film. Sarebbero andate in televisione a raccontare, grazie a prove inconfutabili, che tra quelle persone c’era un suo parente.

Al tramonto quei ciuffi d’erba che incontravo e che ricamavano gli usci delle case abbandonate erano motivo di riflessione. Si trattava di voci lontane, l’eco di esse, e tutto questo sollecitava poi una ricognizione sui propri cari. Ma il focolare non scaldava, non poteva nulla con il convincimento dell’esilità della vita, sull’insensatezza. Qualche parola bella di mia nonna, il sigaro che s’accendeva sul balcone mio nonno ma ognuno a custodire dentro di sé quanto aveva pensato durante il giorno e che doveva rimanere un segreto per tenere a distanza disperazione e lacrime.



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