LA VECCHIA BICICLETTA, ALTRO IMPROBABILE MEZZO DI TRASPORTO - di Angelo De Angelis

LA VECCHIA BICICLETTA, ALTRO IMPROBABILE MEZZO DI TRASPORTO.

- di Angelo De Angelis -

 


Entro nella cantina della casa dei nonni di Santa Maria: è simile ad un sagrario dove giacciono oggetti una volta di uso comune. La polvere del tempo e le ragnatele li hanno ricoperti; sono oggetti poveri che ricordano gesti e lavori ormai desueti e che testimoniano un mondo antico che vive ormai solo nei ricordi dei pochi superstiti che hanno vissuto quel tempo.
Sono oggetti quasi tutti realizzati a mano; una tecnologia semplice, fatta soprattutto di legno, vecchia di cento secoli, tanti quanti ne sono passati da quando l’uomo si è trasformato da cacciatore a contadino; rastrelli, forcine, zappe con lunghi manici di legno, un grande treppedi dove si appendeva il corvello, grosso setaccio per la concia del grano…
Nascosto in un angolo emerge dalla penombra il frutto di una invenzione recente, di soli due secoli fa: una vecchia bici.
Certo nulla a che vedere con la vecchia “Draisina” la prima bicicletta inventata nel lontano 1817 dal tedesto Karl von Drais: aveva due ruote di legno, era senza pedali ed aveva una unica barra, a mo’ di timone di una barca, per voltare a destra o a sinistra. L’oggetto del desiderio di ottant’anni che mi trovo davanti ha il telaio di robusti tubi di ferro, due pedali che tirano una catena completamente racchiusa dentro un carter di lamiera, un più o meno comodo sellino, due ruote da 28 pollici in ferro sostenute da esili raggi metallici e, meraviglia delle meraviglie, freni a bacchetta che dai manici longitudinali del manubrio serrano dei tacchetti in gomma nella parte interna dei cerchioni. Di cambio nemmeno l’ombra, solo un rapporto fisso che demanda alla forza muscolare delle gambe la potenza necessaria per superare salite, e correre in pianura o in discesa.
E’ nera e si intravedono ancore sottili, vezzosi decori color oro, ormai mangiati dalla ruggine che ricopre gran parte del telaio e dei parafango. Ha anche parti cromate: il manubrio, i cerchi, le parti in vista del sellino, le bacchette ed i rinvii che servono per azionare i freni: una cromatura che sa di vecchio. Ne è saltata molta parte, mangiata dall’interno dalla ruggine.
In un angolo c’è un accessorio, di poco più recente della bicicletta: un seggiolino di ferro con la seduta in legno che si aggancia al manubrio e che consente il trasporto “sicuro” di un bambino.
Guardo il seggiolino e mi commuovo: è uno dei ricordi più antichi che la mia mente riesce a scavare nella memoria; torno indietro nel tempo come fanno gli astronomi che cercano le prime, lontane, galassie formatesi miliardi di anni fa, la cui luce sta ora arrivando sulla terra. Ho forse due anni e sto seduto su quel seggiolino. Mio padre pedala lungo una strada imbrecciata che conduce alle “Quattro Strade” di Rieti, in casa di amici ed il mio piede si infila tra i raggi della ruota anteriore: rischiamo di cadere, mio padre ha i riflessi pronti, si appoggia ad un grosso masso di pietra squadrata posto al margine della strada. Non mi sgrida come m’aspetto, mostra la sua contentezza per aver evitato il peggio!
Quando cominciai a guardare quella bici mostrando la volontà di cavalcarla, mio padre raccontò di quando con quel mezzo percorse la strada da Santa Maria a Roma: la linea Gustav si era dissolta e la guerra si stava svolgendo lungo la linea Gotica, che attraversava l’appennino tosco-emiliano. Lo Stato era allo sbando ed i servizi pubblici stentavano a ripartire. Così quella bici spinta dalla forza delle gambe, dalla necessità e da una ferrea volontà fu per lui l’unico improbabile mezzo di trasporto per varcare il valico di Sella di Corno e raggiungere la capitale.
La vecchia bici si trasferì presto a Rieti insieme ad una novissima bicicletta da donna con ruote da ventisei pollici, col cambio a tre rapporti; aveva la levetta di azionamento posta sulla canna obliqua del telaio. Mia madre potè usarla per le pianeggianti strade di Rieti; la sua larga gonna a fiori ancora svolazza nella mia mente nentre pedala a fianco a mio padre che mi trasporta sul seggiolino ancorato al suo manubrio; li guardo entrambi, sento l’aria che sferza il mio viso di bimbo e sono felice.
Le due bici trovarono pochi anni dopo il loro posticino sul camion che trasportò oggetti, sogni ed emozioni da Rieti a L’Aquila, dove iniziò per noi una nuova vita a due passi dalla nostra tana, Santa Maria.
Sul camion c’era di tutto: tavolo e credenza di colore azzurro lavanda e celeste, il primo provvisto di tre insostituibili accessori:  il mattarello, il battilardo e la spianatora che consentivano meravigliose metamorfosi come quella della farina che diveniva prelibata pasta ammassata con una tecnica che le nostre madri e le nostre nonne padroneggiavano sin dall’infanzia. La credenza, con sportelli alti e bassi, ripiani interni di tutte le altezze ed una vezzosa vetrinetta dove si esponevano bicchierini di vetro, e liquori fatti in casa con noci, limoni, radici o erbe aromatiche dell’orto, pronti per essere messi sul tavolo quando arrivavano ospiti di riguardo. La stufa economica, una intramontabile ZOPPAS pesantissima, alimentata a legna, che consentiva di cucinare, avere disponibile acqua calda in ogni momento, che scaldava l’ambiente nelle fredde giornate d’inverno e consentiva di asciugare veolocemente i panni, faticosamente lavati a mano. E poi il letto dei miei genitori, armadio, comò, toeletta, un po’ di sedie. Il solo, piccolo armadio conteneva tutti i vestiti della famiglia. Il comò aveva spazio sufficiente per lenzuola, coperte ed asciugamani.
Un sentimento di tenerezza mi viene al pensiero dei metri e metri cubi di armadi che hanno invaso ogni angolo della mia grande casa, mai sufficienti a contenere i guardaroba estivo, invernale, primaverile, autunnale, con capi eleganti, informali, per lo jogging, per il tempo libero, per il lavoro… decine e centinaia di capi che a quei tempi avrebbero vestito la comunità intera del borgo.
Fu proprio con la bici di mia madre che ad appena cinque anni imparai faticosamente a tenermi in equilibrio;  c’è un breve tratto di rettilineo sotto l’orto dove un giorno un lupo affamato fece strage di pecore di mio nonno e dove veniva ricoverato il carro a traino animale con grandi ruote dai raggi di legno. Quella fu la mia palestra lungo la quale imparai ad andare in bicicletta, alternandomi nell’impresa con mio cugino Paolo. Una cinquantina di metri dove ancora oggi vedo spalmati per terra lembi della pelle strappati dalle ginocchia, dai gomiti e dalle cosce, che furono il prezzo da pagare per reggermi in equilibrio stabile sui pedali. Già, proprio sui pedali, perché passarono anni prima di raggiunge l’altezza giusta per pedalare stando seduto sul sellino.
Ben più arduo fu imparare a pedalare usando la vecchia bici da uomo di mio padre: la canna orizzontale che univa il sellino al manubrio era un ostacolo alla pedalata che dovevamo superare passando la gamba al di sotto. Veniva fuori una postura innaturale, con la bici inclinata all’esterno e noi quasi appesi dal lato opposto.
I mie nipoti hanno biciclette di ogni misura e dimensione, che si passano l’uno all’altro ed è con grade premura che li osserviamo mentre crescono, pronti a cambiare dimensione della bicicletta appena i pedali si avvicinano troppo al sellino! Per me e Paolo, ma anche per tutti i bambini della mia generazione, il sogno di pedalare stando seduti fu una conquista dell’adolescenza, quando, alle soglie della maturità, raggiungemmo l’altezza giusta per poter pedalare, non senza una certa scompostezza, stando seduti sul sellino spinto spasmodicamente verso il basso.
Presto la nostra palestra si spostò: la via dell’Orto era diventata troppo corta e troppo pianeggiante. Volevamo misurare la nostra forza e ci spostammo sulla via della Croce: una ripida salita di cento metri dove i carri trainati dalle mucche difficilmente passavano se carichi, troppo faticoso era il percorso. Iniziammo a tentare la cronoscalata prendendo una lunga rincorsa dalla discesa che collega la frazione di Casale a Santa Maria. I primi effetti furono catastrofici: il nostro equilibrio instabile ed il fondo stradale imbrecciato ci faveva precipitare a terra alla prima buca o al primo accumulo di brecciolino, prima ancora di terminare la discesa. Ci volle qualche anno, tante cadute ed una manciata di centimetri d’altezza in più prima di riuscire a percorrere quei faticosissimi cento metri di ripida salita: era finita la fanciullezza ed anche per noi quel puledrino d’acciaio divenne un improbabile mezzo di trasporto.
Il giro di Preturo divenne il nosro primo grande viaggio in bicicletta: inizio della primavera, la scuola stava per terminare e le prime tappe del giro d’Italia appassionavano grandi e piccoli che si accalcavano davanti al televisore di quell’unica famiglia che, nel palazzo di via Santa Croce, all’Aquila, l’aveva collocato al posto d’onore della sala da pranzo.
Fino all’anno prima il Giro d’Italia si celebrava nel cortile. Con il coccio di una vecchia tegola rotta si tracciava sul pavimento di cemento una lunga pista ad anello larga una spanna e con i tappi della gazzosa decorati all’interno in maniera variopinta e personalizzata si dava un colpo facendo scattare il pollice inizialmente trattenuto dall’indice. Il tappo doveva seguire i tortuosi tornanti della pista senza uscire fuori di essa; ogni giorno una tappa, ogni giorno il vincitore veniva acclamato col nome del vincitore della tappa. Era l’epoca di Coppi, di Baldini, Nencini, Moser, Fantini, e le squadre si chiamavano Atala, Ignis, Legnano, Carpano, San Pellegrino…
Il sei giugno del 1965 partì da San Marino il quarantottesimo giro d’Italia. I miei amici del palazzo ed io ci guardammo in faccia: avevamo le tasche piene di tappi della gazzosa preparati per la prima tappa, ma l’idea che ci colse era diversa dal solito gioco pomeridiano. Prendemmo le nostre bici sgangherate e senza nemmeno avvisare i genitori partimmo per il Giro di Preturo. Venticinque chilometri: appena partiti già i chilometri divennero esagerati, ed il giro di Preturo divenne il più modesto giro di Coppito, la metà dei chilometri… Comunque fu un’impresa.
Passano gli anni, e ci ritroviamo diciottenni a sognare la nostra grande impresa in bicicletta: Italia? Troppo poco esotica. Svizzera? Troppe montagne. Germania? Troppo lontana. E allora? Allora che sia Jugoslavia. Una lunga linea di costa da Zara a Fiume e poi, se le gambe ancora ci assistono, Postumia, con le sue favolose grotte, Trieste, Venezia e poi giù per la statale adriatica, fino a Giulianova. Tanto, ci diciamo, arrivati a Trieste poi la strada è tutta in discesa!
Abbiamo appena terminato gli esami di stato: partiamo in sei: Giorgio, Domenico, Gedeone, Enrico, Antonio ed io…
Ma questa è un’altra storia!

Paolo de Angelis
Eccomi, Paolo, l’altro “ciclista”…. Io ero piu alto di Angelo e arrivai per primo sulla sella della bicicletta di zia Cristina, che era piu bassa, quindi presi possesso della bici da donna. Il fatto era, comunque, che Angelo ormai era diventato esperto della pedalata sgemba con la bici inclinata a 45 gradi rispetto al terreno, quindi non c’era altra scelta che lui continuasse a pedalare con la bici di zio Nello. Peraltro ho i miei dubbi che se fosse salito su una bici pedalando normalmente, sarebbe stato in grado di stare in equilibrio visto che il suo cervello si era abituato ad una statica tutta sua !!!! Un giorno scendevano da Scoppito, in discesa, a rotta di collo sulla strada che a quel tempo non era asfaltata, quando alla prima curva, appena dopo “ju mulinu” andai dritto fuori strada e finii su un rovo di spini. Mi tosi le spine da sotto pelle per due mesi…



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