Sulla “via” per Assergi - di Marco Ippoliti

 

Sulla “via” per Assergi

 

di Marco Ippoliti

 

Storia del “viaggio” quasi epico che si faceva agli inizi anni ‘60

Affrontarlo è qualcosa di vissuto cha ha molto di personale, ma ricordandolo, posso pensare che quelle vicende, quegli itinerari, siano stati eguali a molti e non molto dissimili a quelli che sono oggetto del racconto.

 

Tanti nativi di Assergi hanno lasciato o dovuto lasciare il paesello per andare a trovare altrove fortuna.

Chi in maniera drastica come gli amici che hanno varcato gli oceani per raggiungere persino l’Australia (che di più lontano non c’è né), chi magari ha raggiunto “solo” Roma, non propriamente distante, anche se appena ieri il viaggio posizionato temporalmente nella metà del secolo scorso, aveva un suo perché.

 

Intanto per una arteria, l’A/24, tronco autostradale non ancora realizzato, che per quanto si possa ricordare, non è stata solo un cordone di comunicazione tra i due mari, il Tirreno e l’Adriatico ma anche e forse soprattutto, il punto di contatto “fisico” tra due culture e modi di vivere abbastanza diversi e qualche volta anche in storica contrapposizione.

Giovani alle prese con le prime scorribande che, raggiunta la maggiore età, potevano andare a “conquistare” la grande “Lupa”  considerata moderna e irraggiungibile o nuclei familiari che potevano ricongiungersi più facilmente, fisicamente, e non solo tramite il telefono pubblico di Antonietta.

Adè, t’ha chiamato fieta Anna, ha ditte che te richiama fra nu poco.

Ragazzi di “paese” che sognavano il falso mito di una modernità che stava arrivando e ragazzi di “città” che sognavano i ruspanti bucolici coetanei, fruitori di una sana libertà rurale.

 

Valutazioni tipiche da “l’erba del vicino  sempre più verde”, considerazioni più o meno ben motivate.

 

Stava iniziando, con il primo benessere post bellico, la umana transumanza di persone da e verso la grande città e da e verso il paese di origine in una miscela di esperienze e avventure.

 

Zio Aldo, mi dicono, passando per caso a casa nostra e già possessore di una utilitaria, trovò Pino in preda al panico per le convulsioni che stava avendo Roberto, piccolissimo, conseguenza di un improvviso e repentino ingrossamento delle tonsille.

Lo portarono di corsa all’ospedale e tutto andò bene.

Questo spinse Papà ad acquistare, magari era già nell’aria, una 600 usata con le portiere che si aprivano controvento, che ricordo come quanto di più antico e spartano.

 

Si poteva raggiungere Assergi, magari solo per il fine settimana.

 

La gioia di quei primi viaggi, perché di viaggi si parlava, superava la quasi fatica che lo stesso richiedeva all’autista, ma anche ad un bambino e permetteva di superare i disagi di una tecnologia, di un percorso, di un’avventura dal sapore quasi epico, quasi inimmaginabile al giorno d’oggi.

Non ricordo esattamente la durata della percorrenza, ma vien da ridere a pensare alla tempistica a cui siamo abituati adesso.

 

Per chi conosce Roma sa che è la “Salaria” l’arteria maestra che ci accompagna in Abruzzo e sa che Fidene e Monterotondo ormai inglobati quartieri cittadini erano lontani e solitari insediamenti che già raggiungerli davano il sapore dell’avventura. La lunga schiera di alberi costeggiavano la carreggiata e ci accompagnavano fino a Rieti, guai a incontrare torpedoni o camion dal motore ansimante.

 

Nel viaggio di ritorno lungo quel percorso una schiera di donnine offrivano dalle mani callose uova, filari di pane e forme di formaggio per il sapore della genuinità, salvo poi scoprire anni dopo che magari si vendevano decine di uova a fronte di una sola gallina presente nel pollaio.

Numeri che non tornavano per un a magia da miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

 

La sosta al Bar reatino (chissà se c’è ancora), era la prima sosta obbligata, per l’irrompente pipì e il mio famoso panino con la salsiccia che però non mangiavo immediatamente per respirare l’appetitoso profumo con il nasino infilato nella mollica e così sopportare meglio l’aria viziata dell’angusto abitacolo.

Papà e Mamma purtroppo fumavano molto e l’interno di quel angusto mezzo di trasporto non era propriamente vivibile.

 

Superato Antrodoco erano le curve, che in salita portavano Prima al Santuario della Madonna delle Grotte e poi alle Terme di Cotilia, le vere e proprie “forche caudine” del percorso e la seconda sosta per prendere qualche bottiglia di acqua “alle uova marce” era obbligata, per ridare allo stomaco un riassetto migliore, forzatamente svuotato dal movimento tellurico provocato dai tornanti.

 

L’Aquila era sempre lì ad aspettarci e una volta raggiunta, il bivio per proseguire, era passare o per Bazzano o per Tempera.

Erano sempre le temute curve a pilotare la scelta e naturalmente si procedeva per la prima.

 

Ed ecco dopo Paganica la 17/bis e tutto cominciava ad assumere il sapore della gioia superando la minuscola galleria della Madonna di Appari.

Anche lì una freschissima sorgente che non c’è più e i campi che costeggiavano il fiume ci indicavano che stavamo per giungere alla meta.

La carreggiata cominciava ad avere della ghiaia ai suoi bordi, frutto della risulta delle piogge, e i segnali di carri per terra indicavano il passaggio verso le stalle e i poderi. Il Gran Sasso ancora si celava dietro ogni Noce con le basi pitturate di bianco a delineare il tracciato.

Ma ecco finalmente Pizzo Cefalone e Campo imperatore e le loro mura maestose, cime note a chi è cresciuto tra voi (frase presa in prestito) e quel Bar PicNic, punto di congregazione che ci accoglieva e che precedeva la Rustica, trattoria di montagna sogno non proprio realizzato da Nonno Antonio e consolidata poi da Nonna Adele.

 

Certo quando ci si giungeva d’inverno ci si apprestava ad una spericolata manovra.

Papà saliva verso Na Porta andando a marcia indietro per via della strada ghiacciata e pronti a controllare la macchina in caso di particolari problemi di slittamento, per poi varcare la Torre dell’Orologio senza fare la manovra. Suo virtuosismo e vanto.

Per molti anni quelle “entrate” erano momento di curiosità e “impiccio” degli “autoctoni” onnipresenti sul muretto.

Un solenne passaggio sotto il perimetro delle mura per entrare finalmente da La Porta del colle, parcheggiare vicino alla fontana e scendere verso casetta nostra.

Il viaggio era terminato, c’era da andare di corsa a comprare qualcosa da Antonietta, da accendere il fuoco e salutare i vicini.

“Commà cumme stè”, Quando si arrivate?, Quanno remannete? Quanno ve ne riandate?, Quanto si cresciute, come ti si fatto grosso.

 

Marco Ippoliti



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