Le farfalle di Assergi - di Marco Ippoliti -

Le farfalle di Assergi

- di Marco Ippoliti -

Le farfalle di Assergi, (che ho letto hanno colpito la fantasia di molti compaesani), in uno spettacolo della natura di altri tempi, che hanno coinvolto la vista

Si era detto...

Dopo il “silenzio” del rumore della neve ovattata, o il “chiavistello di Olimpia” che hanno sollecitato il senso dell’udito, nell’attesa di far viaggiare quel sentimento che si chiama ricordo, verso la nostalgia dei sapori che solleticano il “gusto” in un futuro componimento, ora è il momento della vista, il “senso” sovrano, che per quanto riguarda noi umani,  primati, sovrasta sugli altri per il percepimento della realtà.

Con l’attitudine di portare tutto alla bocca per saggiare tutto, per un bambino sono poi gli occhi forse la sensazione principale con cui “esplorare” il mondo che lo circonda e segnare “l’imprinting” che lo accompagnerà per tutta la vita.

Ed ecco quel fanciullo libero dalle costrizioni  di una città per forza di cose un po’ ostile e magari pericolosa che vaga per le vie del paese e nel suo misterioso circondario, senza vincoli restrittivi e si ritrova a girare da solo, pronto ad essere stupito da ogni cosa che incontra e osserva ciò che non conosce, che dovrebbe fare paura, ma che affascina.

E negli occhi viene impressa ogni cosa che prenderà posto in un preciso cassetto della memoria.

Il difetto di Assergi (ma Assergi ha un difetto?...) è rappresentato, per chi abitava  in alto, dalla discesa, schiavi e quasi obbligati della potente forza di gravità, ingannevole complice.

Scendere era facile, invitante, spontaneo, a piedi e soprattutto in bici.

Si scendeva sempre, pur sapendo che poi si sarebbe dovuto risalire con quel pizzico di fatica non proprio tanto amata.

Forti di una colazione contadina, col passar delle ore e il caldo di mezzodì la risalita era una gogna alla quale si sarebbe fatto volentieri a meno.

Voglio dire che senza una meta precisa, senza un saper dove e cosa fare, obbedendo solo alla pigrizia della facilità del proseguire, appunto in discesa, ci si trovava in un attimo da basso magari vicino al fiumicello e al suo ponticello, (che sarà poi rinforzato dalla azzurra acqua uscita forzatamente dalle viscere del Gran Sasso) e rimanere abbagliati dal candore delle lenzuola stese ad asciugare al forte sole di agosto.

Le vicende della cura della casa e delle cose, portava in quell’angolo della valle, le famose “pie donnine vestite di scuro”,  a lavare i panni al fiume, ritrovo sociale dove, seppur con la schiena china, ci si apprestava, finito il dovere, a cantare e chiacchierare in quel conciliabolo comunitario della società contadina del secolo scorso.

Si era fatto il sapone in casa con perizia chimica e in modo del tutto naturale o ci si affidava alla cenere. Magari si usava quello della comare amica, pronte a restituire il favore al prossimo incontro.
Quanti piccoli pettegolezzi, ma anche quanta storia raccontata, quanti amori rimpianti o vicende sopportate, quanto di vero o quanto di inventato, quanto peso dare o quanto a cui non fare caso.
Mariti sgobboni nei campi, figli da crescere e animali da accudire. Acciacchi da sopire e sogni da conservare.

Il verde del prato, che in montagna in piena estate è ancora rigoglioso di fresca erba, il bucato lavato tra le pietre e i sassi e, spettacolo nello spettacolo, una miriade di piccoline farfalle azzurre che con elevata timidezza e curiosità si poggiavano sul lino profumato per asciugarsi, dopo aver subito la rugiada mattutina, leggere e senza minimamente intaccare il candore dell’opera delle lavandaie di paese.

Tutto quel corredo era momentaneamente sopraffatto dallo spiegare delle celestiali ali che con musicale movimento indugiavano in quel caldo sole mattutino e attratte dal  quel “bianco” immacolato.

Tre o quattro lenti scatti, come lancetta di orologio in un senso, poi altri uguali in senso opposto, e i minuti passavano a asciugare dalla brina che appesantiva le protuberanze alari, sotto lo sguardo sornione del gigante padre di  Campo Imperatore.

Un dispettoso colpo di mani e una nuvola gioiosa si levava in cielo per fuggire via, infastidite, ma neanche poi tanto, andandosi a posare lontano da quei disturbatori bipedi quali potevamo essere noi.
Su quel bianco manto non rimaneva la benché minima traccia di niente e il sole poteva compiere il suo dovere.

Non c’era Superquark, e nemmeno la televisione ad Assergi, potevamo stare qualche mese senza? Si !
E avevo visto uno stupendo “documentario” testimone dal vivo.





 



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