SOTTOVOCE (QUASI UN CARTEGGIO TRA FERNANDO ACITELLI E GIUSEPPE LALLI)

SOTTOVOCE

(QUASI UN CARTEGGIO TRA FERNANDO ACITELLI E GIUSEPPE LALLI)

- di Fernando Acitelli -

 

Caro Peppino, innanzitutto grazie per il tuo commento al mio scritto. Il tuo intervento puntella un animo già transennato.  Ormai si cerca un amico con la speranza che costui sia un reduce che ha visto (anche lui) l’incominciamento delle macerie ma che non s’adduce alla strada di casa perché anche in quel distretto riceverebbe cannonate di luoghi comuni, oltraggi lessicali, raffiche d’un falso buonsenso. Due reduci possono almeno rammemorare visto che non si può fare altro anche se il ricordo equivale ad una debolezza, proprio come l’educazione. Quando infatti ci si mostra troppo gentili, ecco che questa sublime coordinazione di gesti e parole viene vista con diffidenza. Quando questo dannunzianesimo lieve, da passeggiata al Pincio con i levrieri viene scambiato per fragilità, cioè per una poetica dell’inconsistenza pratica, del non affidamento riguardo ai progetti che altri hanno in mente, allora si viene scansati. E chi può dire che non sia un bene?

Dinanzi agli scenari contemporanei dove pigliare coraggio? E si tratta di luoghi che già a narrarli promuovono nausea: che fine hanno fatto il bambino ed il vecchio, cioè le stagioni estreme quando entrambi si facevano coraggio già con il semplice osservarsi negli occhi? E il prete odierno tutto microfonato può indurre ad una sia pur flebile speranza? Non sono più ammissibili crepe su un muro ed il purismo invade anche il linguaggio: tra ministro, ministra, può partire un colpo e così s’arriva alla minestra. Il filosofo Emile Cioran spiega come un poeta che inizia a porsi il problema del linguaggio, è un poeta finito. Vero, ma almeno un poeta non dà fastidio e se è uno autentico, non briga, non aspira a premi, se ne sta in disparte se vuole cogliere veramente delle “schegge di sublime”. Si iniziano a fare queste distinzioni sul linguaggio quando non vi sono argomenti seri, utili da proporre. A quel punto c’è l’irruzione della musica e della moda, cioè i veri modelli alternativi per non far pensare ad un’idea di futuro. Mai sentito dire da un homo fashion o da uno strimpellatore qualcosa sulle disuguaglianze sociali eppure le moltitudini continuano a battere le mani, del resto conta chi sta sul palco e non nella piazza o nella cavea. Cosa dire, allora? Soltanto che hanno fatto un ottimo lavoro: sono partiti da lontano ed eccoci alla resa dei conti. 

La scuola è stata lesionata e con l’introduzione dei cosiddetti crediti e debiti c’è stata l’apoteosi. Scimmiottando perfettamente (ancora una volta) l’esempio americano hanno portato l’idea di libertà tra noi. Non la libertà ma la sua idea e c’è chi crede sia la stessa cosa ed invece tra la libertà e l’idea di libertà vi sono, nel mezzo, degli universi. L’idea contiene in sé una lunga attesa – un’utopia! - che è una distanza incommensurabile, qualcosa di escatologico proprio come promette la religione. Altro che il 6 politico degli anni Settanta, ora ci sono i crediti ed i debiti! E così l’idea di libertà è salva… Le moltitudine l’ascoltano e così ci si sente pacificati.

S’è arrivati ad ascoltare individui che ignorano dove sia la città di Lecce (oh, ma non gli è stato chiesto qualcosa sul XII libro della Metafisica di Aristotele!), ebbene, di fronte a simili paesaggi si può concludere che internet abbia fatto un ottimo lavoro quanto alla condivisione d’un pensiero piatto, uniformato, inoffensivo. Del resto, come pensano le elite, meno sanno le moltitudini e meglio è.

Lo smantellamento della scuola, professori sottopagati rispetto alla media europea (e questo quando va bene) se non addirittura diminuiti come numero, ebbene, tutto questo è quasi uno slogan per la scuola privata.

Dopo l’attacco allo stato sociale – quanti anni per andare in pensione? Quali possibilità si hanno di non morire prima? – vi sarà quello alla sanità e dunque, sempre ascoltando i continui richiami ai valori della democrazia e all’idea di libertà, vedremo gli ultimi ed i penultimi retrocedere ulteriormente. Mi pare proprio di poter avvistare un futuro roseo.

Il mondo liquido e inconsistente è figlio del capitalismo - si tratta dell’ultimo segmento di esso, quello che ci riguarda da vicino - ed è interessante a tale proposito ricordare quanto scrisse nel 1921 Walter Benjamin in Capitalismo come religione. Il capitalismo, in verità, non si spezza con un NO isolato. Non esiste un luogo al riparo da questa “malattia dello spirito”. Le nostre inquietudini nascono  proprio dalla constatazione che non vi sono vie di uscita concrete per la comunità. I monaci in cammino non possono far altro  che osare una testimonianza di disperazione ma nulla più. Un fuoriuscito dal mondo che trovi rifugio in un eremo con dei compagni di erranza non riuscirà a mutare di un centimetro l’universo capitalista. Riportare il tutto ad un piano umano? Spetterà alle nuove generazioni se avranno la forza d’affrancarsi dagli idoli planetari. Ma si possiede tanta fantasia per immaginare il modo?

Un testo del 1951 di Ernest Jünger, Trattato del ribelle, “consigliava” l’anarca di passare al bosco. Il singolo, braccato da un ordine che esige un controllo capillare, passa al bosco, dissociandosi  una volta per sempre dalla società. Tutta l’eredità del nichilismo, del più sofferto romanticismo e dell’odio contro la modernità si concentrano nella figura del Ribelle. A più di settant’anni dalla pubblicazione, non possiamo fare Altro che constatare come  il “passare al bosco” non sia che un esperimento letterario e che oggi, veramente, per dirla con Giorgio Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati.

Da dirlo piano tutto questo, sottovoce, ma non per pavidità quanto perché gli urlatori sono altri, coloro che approvano lo status quo e inoltre perché il segreto è incomunicabile: e qui di segreti si parla a ben intendere. Infatti dietro ogni parola vi è un universo di senso. In simili scenari interiori non c’è da fare sfoggio di sapienza ma solamente di lucidità e profondità di vedute rappresentando così, compiutamente, la disperazione.

È una società repressiva che crede sul serio su quanto afferma in merito alla libertà, ai valori…Pensate un po’! Si rischia lo stalking ad ogni passo e se per sbaglio (per curiosità verso l’essere) s’osserva qualcuno, ecco che si può finire sotto una denuncia per stalking visivo, cioè le iridi non sono state abbastanza guardinghe, sobrie, in verità discrete, sono andate oltre, oltre la staccionata… Ma chi ha più piacere a vivere in un mondo simile, eh Peppino? Ragguagliami, c’è qualcosa da opporre alle menzogne di politicanti e pennivendoli?

Ma c’è dell’altro: il lavoro sta diventando un privilegio per pochi, la flessibilità ormai non è più contestata ma acquisita come una obbligata fatalità. Gli indici di natalità fanno accapponare la pelle in compenso si è liberi, si possono inseguire social e followers ma questo fino a che non si sbatta il muso sulla realtà di stato sociale e pensioni. «La realtà è testarda», – disse Lenin. Come non dargli ragione? Lasciamo che si continui a giocare.

In Italia non ci sono più i bordelli (ed è un fatto meraviglioso l’aver abolito una sudditanza, una ignominia), in compenso ci sono inserzioni planetarie dove si promette veramente la felicità quaggiù per qualsiasi avventura o capriccio. Dunque la mercificazione del corpo sulla rete è approvata. Nessuno a tale riguardo obietta nulla. La rete non vuole ostacoli e ciò che vale è il mercato aperto, alla faccia della dignità umana. Ma uno dovrebbe addirittura condividere la propria disperazione con quella d’un’altra persona che, mettendo l’annuncio, è di certo una figura disperata. Il massimo dell’autolesionismo! Non basta l’angoscia individuale con la quale s’attraversano i giorni? Addirittura allestire un derby per osservare chi dei due ha più sconforto? Cos’altro sarebbero quegli incontri ravvicinati? Quali parole si comporrebbero in quei frangenti?

Una volta in un bordello si potevano osservare per lo più disperazioni e qualche artista ci andava per impossessarsi di immagini, per disperdersi in sensazioni e tutto questo, alla fine, era più importante del sesso: era la sublimazione d’una mancanza. I primi artisti a venirmi in mente sono Toulouse Lautrec e Picasso. Al di là di tutte le interpretazioni su Les demoiselles de Avignon pare che Picasso possa aver concepito quel quadro grazie alle immagini che egli colse in un bordello a Roma, in via degli Avignonesi. E noi siamo felici perché quel quadro è il manifesto del cubismo. Si tratta d’una delle tante ipotesi ma che egli fosse un’amante dei postriboli ce lo dice espressamente lui nei suoi diari.

Caro Peppino, ti considero un ottimo compagno di viaggio. Tu dici d’avere, a volte, le palpebre umide, per mio conto ho passato tutti i giorni della mia vita a confidarmi con le lacrime

Ti ringrazio ancora per il tuo intervento e teniamoci stretta (soffrendo) la nostra sensibilità o, se preferisci, il nostro dolore.

 



Condividi

    



Commenta L'Articolo