MAURIZIO CIALFI, LA SOLITUDINE COME CONFESSIONE INTERIORE

MAURIZIO CIALFI, LA SOLITUDINE

COME CONFESSIONE INTERIORE

 - di Fernando Acitelli -

 

Maurizio Cialfi ha custodito la sua ombra. È stata la sua più fedele compagna, la presenza cui rivolgersi con lo sguardo nei momenti di più intensa tristezza. L’ombra di Maurizio appariva in terra nel sole della Porta del Colle: era lì, con quella luminosità, che Maurizio e la sua ombra si riconoscevano, e pareva che lui le chiedesse dove era stata fino ad allora. «Mi sono riposata, sempre a venirti dietro è una gran fatica…».

 

Le strade deserte, la bellezza delle case con le pietre lucidate dalla strina ed un operoso viandante che, di passo, era a chiedersi a che punto si fosse giunti con la ricognizione sulla propria esistenza. Temprato al gelo (anche quello della vita), Maurizio avanzava e la prima tappa era verso Franchino, un luogo sicuro per lui, una sorta di campo base esistenziale, ma non era soltanto perché avevano gli stessi anni, in verità il piccolo Scarcia lo incitava.

 

Oltre alla sua ombra, Maurizio aveva scelto Franchino come interlocutore privilegiato e, lì giunto, in quella bottega delle origini dove Marietta era sempre stata un’autorità bonaria, il suo sguardo migliorava, si componevano addirittura dei sorrisi e in quei momenti una sigaretta era la rappresentazione viva della spensieratezza: una MS da un pacchetto da dieci ed eccola la serenità. Una gioia lieve, “a tempo” ma  importante per attenuare l’oppressione del giorno. E così anche all’animo spuntava il sorriso. 

 

Quei passi di cui nessuno s’accorse, che non vennero archiviati nella mente, quei passi nel gelo d’un ottimo inverno dalla sua abitazione fino alla bottega di Franchino, quel sublime “sciarpellare” così perfetto nella figura longilinea. Forse vi fu qualche sguardo da dietro gli scuri senza che vi fosse un minimo di riflessione su quell’andatura: nessuno a chiedersi dove quella figura stesse dirigendosi. Oh, il sublime del silenzio! Lo stesso di quelle case abbandonate dove, superstiti d’un’altra epoca, s’avvistavano lettere a grafia larga e lasciate in un cassetto…

 

In molti avrebbero potuto appuntare quegli spostamenti da casa fino a Franchino. Tali traiettorie davano da pensare maggiormente di pomeriggio  perché l’illusione d’un eterno mattino era svanita. E poi il pomeriggio preparava alla sera, cioè al buio. Ogni giorno una frase da appuntare su quel viandante e così nel giro d’un anno si sarebbe potuta comporre una minibiografia. Certo, ma si doveva essere particolarmente sensibili, esposti fortemente con l’animo e dunque non mostrare attrazione soltanto per la concretezza. Eh, mica facile…

 

La capacità di Franchino d’inserirsi nell’universo di Maurizio, quel suo brontolare affettuoso che intendeva chiarire molte cose, “fare luce” su alcune situazioni esposte dall’amico. Era quell’ora meridiana di diffusa quiete quando la bottega, rimodellata a trattoria, era aperta, e lì si poteva cogliere l’atmosfera da “pasto caldo”, da salvezza a portata di mano, da confraternita come rifugio. E già il parlare, l’espettorare tutto, ecco, se non era un rimettersi a nuovo, certamente donava ossigeno all’animo.

 

Non si può dire che Maurizio non avesse amici ma si può affermare che il suo puntello autentico fosse Franchino, ecco, lui era la persona di riferimento, colui che lo ascoltava senza provare fatica. Era proprio questo il compito del giocoliere Scarcia, il quale sapeva anche un po’ frenarsi, decelerare, tenere per un po’ a bada la sua proverbiale sveltezza e iperattività. Le loro figure e i loro modi erano diversi: alto, magro e silenzioso Maurizio, piccolo, muscoloso e pestifero di lingua Franchino, vero moto perpetuo nei luoghi denominati “Ara de Sii Cavalline”, o, a chiarire, “Ara di Zio Cavallino”.

 

Di quei dialoghi tra i due amici non sappiamo nulla, ma la Poesia ci offre l’elemento della possibilità, ovvero sognare, fantasticare su quella lunga sequenza di parole, di frasi che scaldavano più d’una caldaia a pieno regime. Cosa si saranno detti durante quegli incontri che non avvenivano soltanto d’inverno? Infatti essi accadevano come evento anche nelle altre stagioni ma durante il gelo si vedevano meno persone in strada e così quelle confessioni, quelle drammaturgie private erano più custodite. Sembrava che anche quelle narrazioni indossassero maglie di lana, giubbe e guanti.

 

Fuoriuscendo dalla “Buscia”, s’avvistava subito Maurizio, era sufficiente gettare lo sguardo oltre gli “arboretti”, in basso, ed egli stava lì, in quella penombra custodita e Franchino gli stava accanto: si sentiva qualcosa, appena un bisbigliare pettinato. Era come una scena teatrale spoglia e dunque essenziale, un palcoscenico con botta e risposta come nei testi asciutti di Samuel Beckett. Si procedeva con frasi brevi e i dialoghi, a volte, si sostenevano con una sola parola. In quella risposta fatta d’un solo vocabolo si chiariva tutto. Sembrava d’assistere ad un Aspettando Godot in versione assergese.

 

Era come se mi dovessi prendere cura di quel luogo perché, osservandolo, l’idea d’una piccola e commovente scena teatrale m’assaliva. A volte capitava che Maurizio, seduto in quello spazio e osservante la strada che era meglio definire in discesa,  si voltava verso l’alto e con lo sguardo mi raggiungeva. Dunque la collisione con gli sguardi c’era stata e tutto era allineato alla serenità. Per il modo in cui ogni ritaglio di quel mondo era al suo posto, si sarebbe dovuto festeggiare. Certo, sarei dovuto finire anch’io da Franchino e sentirlo dire: «Assettate che quistu me sta a fà arrabbià!».

 

A dire il vero, se vedevo Maurizio in quella sorta di confessionale laico, di quella locanda umana, ero contento. La sensazione era che lo sentissi al sicuro e dunque, per un buon tempo, egli se ne sarebbe rimasto in pace esponendo tutto il suo mondo, il suo universo interiore a Franchino che in quei momenti assurgeva al ruolo di scrutatore d’anime, di teorico dell’ascolto in fatto d’affanni dell’esistenza. E se io procedevo oltre, sapevo Maurizio in buone mani: si sarebbe chiuso anche quel giorno, certo, ma s’erano concretizzate nuove possibilità di quiete interiore.

 

A mio avviso le feste di San Franco e del Ferragosto non che migliorassero lo stato d’animo di Maurizio. Egli, semplicemente, si lasciava vivere, respirava l’atmosfera di quelle ricorrenze ma credo che per lui la festa significasse soprattutto stringersi ancora più fortemente a sua madre. Un lungo lavoro iniziato sin da bambino. S’elevava dunque il suo pensiero e dentro di esso v’era una conflagrazione di sentimenti. Le sensazioni possono anche essere ingannevoli ma a me è stato sempre bene (eventualmente) “sbagliare in proprio”.

 

Era quello che pensavo a quel tempo e ancora oggi sono convinto di quelle mie sensazioni. Maurizio non provava meraviglia dinanzi al sopraggiungere della festa ed il suo assistervi era per rispettare un rituale consolidato. Rimaneva comunque ad una buona distanza come se una completa immersione nella festa potesse diminuire le sue riflessioni, distrarlo dunque dalle accortezze di bene che doveva riservare a sua madre. La processione, le bancarelle, l’odore di noccioline, gli spari, tutto bello ma non bastevole per il suo animo. Santi e rituali come possibilità d’attenuare quella lacerazione ma alla fine erano solo le sue meditazioni a sollevarlo un poco.

 

Oggi anche la sua abitazione è chiusa. Lui è altrove. Non è evento facile, nel silenzio del centro storico di Assergi, allestire la giostra dei ricordi. E così si può contare soltanto su un allestimento di figure evanescenti, trasfigurate, delle quali resiste una parola, forse un sorriso. E il tratto di Assergi è quello compreso tra la  Piazzetta del Forno e la madonnina alla “Buscia”. Un museo d’ombre, insomma, e se non fosse per l’archivio della mente, ogni persona, ogni suo gesto sarebbero irreparabilmente dissolti. Se dovessi tirare fuori tutto quanto ho catalogato, avrei lavoro per decenni.

 

La camminata di Maurizio si richiama a quella di suo padre Angelo, ne è il prolungamento, una riproposizione più longilinea. Ma il padre poteva contare su un bonario cinismo che al figlio manca, dunque il genitore aveva un affilato apparato difensivo che Maurizio non ha e in lui tutto si risolve nella scelta d’una distanza, come se s’osservasse il mondo da un Belvedere con i rischi di non mettere a fuoco tutto ma con la salvezza di rimanere lontano dal chiacchiericcio che spesso contiene tutti i sentimenti negativi degli umani.

 

Fino a questo momento non si hanno fotografie di Maurizio ad Assergi con lui a dare un significato più intenso a se stesso magari in uno scorcio del borgo o nel paesaggio, accanto agli amici magari in una gita. Resistono di sicuro delle foto di lui alla scuola e un giorno si potranno di certo recuperare. Anche questo non potersi poggiare su testimonianze fotografiche avvalora quel suo volontario “stare di lato alla vita”. E che proprio la vita sia stata per lui, sin dall’inizio, uno scenario incandescente è fin troppo chiaro. Ma questo può significare anche una sua autenticità.

 

Manca nel paesaggio la figura filiforme di Maurizio, quell’esilità che se ne andava per fatti suoi, anche a zonzo, come no, allestendo immagini che resteranno a noi ignote. Se Maurizio avesse avuto la forma, cioè la capacità – e anche il dono - di portare sulla pagina le sue sensazioni, probabilmente se la sarebbe scritta da solo la sua autobiografia e forse ci sarebbe stata una vicinanza tra la sua vita e quello che io ho intravisto lungo tutta la sua esistenza. Una vita in penombra, specialmente oggi, è l’unico evento autentico da perseguire.

 



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