IL RICORDO È UN FIORE DAL GAMBO ESILE

IL RICORDO È UN FIORE DAL GAMBO ESILE

 

- di Fernando Acitelli -

 

L’allontanarsi terreno d’una persona induce a riflessioni impegnative. Naturalmente possono definirsi “impegnative” per colui che non è uso rammentare come attività o attitudine quotidiana, vale a dire confrontarsi di continuo con quella enorme schiera di individui che ha incontrato nel corso della vita. Invidiabile chi è riuscito ad esentarsi da un simile dolore. Ha vissuto meglio, s’è mostrato sempre sereno con lo sguardo anche se può essersi trattato d’una maschera, d’una ben studiata finzione.

Non si sceglie il mestiere del ricordare, semplicemente lo si possiede dall’inizio: in certuni è lieve, in altri di discreta entità mentre, ancora in altri, è ossessivo. In quest’ultimo caso, come si saprà, basteranno pochi frammenti di ricordo e qualche immagine esemplare per formare l’ovale d’una esistenza. E comunque quest’opera dovrà sempre distinguersi per sobrietà e ad onore del vero.

Venendo alla famiglia di Angela Mosca, da pochi giorni salita in cielo, è doveroso ricordare la sua casa e così inquadrare quel distretto che la riguardò. Esso parte dalla Casa di Carmine Giusti (Mantella) e che ha al suo apice la casa di Faustina. Nel mezzo – nel cuore della questione – c’è uno slargo molto bello che in passato veniva chiamato, come riferimento, “Scale della Giganta”. Ecco, diciamo che in tale piazzetta, di fronte alle scale di cui s’è appena detto, c’era la casa di Angela e dei suoi genitori, Peppe e Cesarina.

Accade sempre che per fortificare ancora di più quell’esistenza che non è più tra noi si desidera nominare tutti coloro che vicino a quella casa vissero. Se Angela stazionava fuori la sua porta, poteva risolversi con lo sguardo alla casa di Concetta de Bacocca, alla famiglia Sabatini, a Paolina e Peppe (all’odierna casa di Jean Paul, per intenderci). Queste esistenze sembrano (per me) fortificare chi ci ha lasciati. È come se le costruissimo attorno un sistema difensivo di modo che possa sentirsi più sicura: qualcuno che parla di lei. Angela era una donna riservata con un bel viso e con degli occhi grandi, generosi. Lo sguardo, nel complesso, era macchiato da una lieve malinconia ma tale attitudine finiva con l’essere un valore, una distinzione. Non scambiai mai una parola con lei ma incrociandoci, ci salutavamo. È anche vero che io venivo ad Assergi soltanto in estate e alle feste principali quindi, considerandomi lei (giustamente) un “forestiero”, poteva provare un minimo di soggezione. Ma, visto che mi salutava, ero contento. La stessa cosa posso dire della figlia Maria Cristina, con la quale non andai mai oltre il saluto d’occasione: era carina, dolcissima, e l’ultima volta che la vidi fu vicino l’ara di mio nonno Lorenzo, di fronte alla casa di suo zio Gino.

Ho sempre timore nel rappresentare quanto la mia memoria manda in onda: ricordo di giovani militari di leva, tute mimetiche, campi estivi per esercitazioni. Ho paura che il sovrapporsi d’immagini mi faccia finire “fuori tema” ma credo che uno di questi giovani, sconfinando un giorno in paese per la giusta libera uscita, abbia conosciuto Maria Cristina. Lo ripeto: non vorrei sbagliarmi ma tali immagini premono e finisco col credere che un simile scenario sia esistito sul serio. La coreografia, dunque, dovrebbe essere questa. Non posso giurare che le modalità furono queste che espongo, vero è che si trattò d’un fidanzamento lampo ed un matrimonio che si compose in tempi brevissimi. Lo ripeto, ancora confido nella mia memoria ma non vorrei che, essendo finito in tantissime situazioni ad Assergi, mi sia un poco allontanato dal vero.

I genitori di Angela li conoscevo bene, Cesarina più del marito perché lei tenne per diverso tempo il forno alla piazzetta e dunque la vedevo spesso, silenziosa ed operosa. Io stavo nella casa di fronte al forno. Mi pare che una volta ritornato quell’ambiente in possesso del proprietario – Cesare Massimi e famiglia – Cesarina operò ancora per diverso tempo nel forno alla Piazza ed io lì ci finii una volta con mia zia Letizia e mia sorella: si dovevano informare i biscotti.

Nel forno alla piazzetta operano in ordine d’apparizione Teresa, la moglie di Giuseppe Corrieri, Maria Pia e Arcangiulina cognata di Maria Pia, moglie di Antonio d’Abramo, e quindi Cesarina.

Sentii parlare della bellezza di Cesarina quand’era giovane. Ascoltai addirittura che il medico Pompeo Spennati aveva perso la testa per lei. È con tali piccole/grandi storie che si ricompongono le esistenze, d’altra parte non c’è modo migliore per attenuare il fragore della vita del fantasticare su quanto abbiamo udito e su come si sarebbe potuta comporre diversamente una storia. E questo naturalmente per tutti. E così ognuno immalinconito a bisbigliare: “Se avessi osato quella scelta, la mia vita sarebbe stata diversa…”. Ma la realtà è testarda, come sentii dire una volta.

Nel ricordo Cesarina m’appare sempre con il sole, precisamente nel tardo pomeriggio di fine agosto: la vedo nella carezza degli ultimi raggi che resistono per metà sulla facciata della sua casa. E tutt’intorno voci di saluti da parte di gente che deve ripartire, magari fosse Roma, vicinissima, ma si parla dell’America, dell’Australia, del Venezuela. S’odono pure le lacrime ed anch’esse, dunque, sono un rumore. Qualcuno accarezza una porta già antica, qualche altro sfiora le pietre d’una casa, compresi i ciuffi d’erba che paiono la mano della natura per lenire le ferite dei muri. Tali gesti nascondono un desiderio d’assoluto e dell’attenuare l’idea della transitorietà del tutto.

Gli occhi chiari – se non ricordo male - dovevano essere del padre di Angela, Peppe, il quale, sia detto per inciso, non mi negava mai il saluto, sia che l’incontrassi di mattina e sia poco prima che il giorno si chiudesse. Una volta lo vidi pure sorridere e per me si trattò come d’un evento straordinario: s’era vicino alla fonte all’Acona e lui stava parlando con una persona. Se avessi sentito anche soltanto una sua parola, ora l’avrei qui trascritta.

Una registrazione universale!

Parlare di Angela e dei suoi genitori significa anche spendere qualche parola per gli altri fratelli: Gianbattista, Silvana, Tonino e Gino. Per il primo ricordo le poche parole, il lavoro come architrave per il benessere della famiglia, gli occhi celesti e dei ricci tenuti a bada e che sarebbero stati anche di suo figlio Peppino. A proposito di questo ragazzo buono, un giorno che a Roma attraversavo via del Corso avendo di fronte via Frattina, vidi rasentare la mia persona da una volante…ce l’avevano proprio con me. Non comprendendo cosa volesse la pattuglia, mi voltai, e chi c’era al volante? Peppino! Mi aveva riconosciuto e mi salutò affettuosamente come se stessimo ad Assergi nei giorni della festa. Non si poteva fermare, come mi spiegò, altrimenti saremmo entrati in un bar per un caffè. Potevano essere le cinque del pomeriggio e da quel giorno non lo vidi più.  

Di Silvana ricordo che era una bella donna, effervescente d’animo ma sempre con evidenti/buone ragioni. Una di quelle donne che sanno vedere in anticipo il sorgere dei fatti sapendo perfettamente come sia saggio, a volte, governare le briglie.

Con Tonino le immagini sono tante: spesso seduto ad un tavolo interno del bar con degli amici, accanto al luogo del jukebox. Vedendolo non potevo evitare per lui gli scenari degli anni ’60, Canzonissima e quei volti autentici, puri, che sanno rappresentare perfettamente un’epoca. Con la pelle del viso eternamente abbronzata ma per ragioni ovviamente naturali, i suoi occhi chiari risaltavano a meraviglia. Lineamenti pari, corretti, esemplari, e quando lo vedevo pensavo a lui come ad un attore. Lui ignorava tutti questi miei pensieri. Ammiravo anche il suo modo di camminare, era distinto. Vi fu una stagione che lo vidi su una Vespa blu e sempre elegante di sera. Il giorno naturalmente lavorava non risparmiandosi affatto. L’ultima volta che lo vidi fu sui gradini di Lucia Sacco (Patanella), di sera naturalmente, ed il suo meritato riposo era tra qualche amico fidato. Indossava una camicia scura con degli ornamenti verticali chiari e dei pantaloni neri. Sia la camicia che i pantaloni erano perfettamente stirati. È incredibile come mi ricordi del nitore della stiratura. Da quella sera non lo vidi più.

Di Gino so poco per parlarne, qualche occasione di vederlo al posto ‘NaPorta, la chioma bionda, gli occhi chiari che mai misi a fuoco perfettamente ma che trionfavano anche al buio. Inoltre una sua riservatezza di fondo com’era di tutta quella famiglia.

Cosa dire inoltre? Sarebbe opportuno che ogni vecchia casa fosse custodita come un museo di modo che, ancora per un po’ di tempo sfilando là davanti, si possa noi ricordare chi l’aveva abitava e che adesso di loro si possa pensare che “sono momentaneamente assenti”, o che “al momento non sono raggiungibili”.



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