DOMENICO, UN FANCIULLO CON L’ANIMO GENTILE - di Fernando Acitelli

DOMENICO, UN FANCIULLO CON L’ANIMO GENTILE

- di Fernando Acitelli -

 

Non posso definire come “lavoro” quello dell’archeologo. Inoltre, parlare di “professione” è ancora peggio. Dunque, come per il poeta, si può argomentare in modo più profondo, metafisico, e dire che per entrambi si tratta d’uno stato d’animo che assorbe totalmente chi s’inoltra in tali, impervi sentieri. È un problema di assoluti, il tentativo di chiudere l’Universo con quanto si riporta alla luce e, nel versante poetico, con quanto si crea versificando. Per questo faccio fatica a considerarle “professioni”: in entrambi i casi c’è il dolore per lo scavo, quello d’un sito antico e quello in se stesso per il poeta. A dire più precisamente: c’è un momento in cui queste due “professioni” coincidono ed è quando restituiscono alla luce dei reperti nel caso dell’archeologo, oppure, per il poeta, quando riesce a far riemergere dei ricordi sui quali comporrà. Ma un archeologo è impegnato con la mente anche quando ha finito di scavare ed è tornato tra i suoi affetti. In verità già pensa alla prossima missione e, nel frattempo, osserva le fotografie scattate. Allo stesso modo, il poeta non si riposa neanche dopo aver terminato una poesia; gioisce lievemente per la composizione ma in verità non ha finito nulla perché dove si posa il suo sguardo, là c’è altro dolore, ennesima investigazione lirica.

Tutta questa premessa mi pare importante per poter parlare dei ricordi che, in questa sede, riguardano il mio amico Domenico Rapiti, figlio di Anna e di Mario, fratello di Luciano e di Loredana, allontanatosi da noi decenni e decenni fa. Mentre tempo addietro pensavo a lui, riflettevo veramente sull’opera di scavo – archeologo e poeta insieme - che serviva per restituirgli l’identità. Almeno per rivederlo tra noi con qualche immagine. Per quello che mi riguardava di stringerlo nuovamente come avevo fatto durante una partita al campo della Cogefar in un Assergi-Roma fantastico. Un suo gol scatenò una scena da calciatori veri. Parlo delle nostra fanciullezza e poi adolescenza in stagioni estive memorabili. Come me, egli giungeva ad Assergi ad agosto ed il suo luogo era la casa dei nonni, quella dimora che donava serenità anche grazie a quella piccola ara di fronte l’entrata di casa, decorato quell’accesso con un mosaico in cima e, su di esso, l’anno di fondazione 1909. Tutti i nipoti lì radunati, una sorta di convegno fanciullesco mai chiassoso con i vari Jean Claude (lui sì, intento a volte in precisazioni ad alta voce), Silvie, Marie France, Paulette, Giuseppe e Mario, Patrizia e Annamaria e quindi Mauro Corrieri assieme al fratello Franco. Gianfranco e Maria Giuseppina vivevano altrove, poco distante da quel gioioso ritrovo, ma pur sempre presenti perché l’affetto si consolida anche grazie alla presenza.

Dunque Domenico, piccolo Alain Delon, sempre sorridente e d’animo gentile, anche elegante proprio come piaceva a me. Si può essere eleganti anche con l’animo. Quando una persona possiede un animo elegante ha dalla sua una grande qualità ma è pur vero che la stessa può rappresentare un rischio per lui e infatti sono pochi coloro che comprendono una simile disposizione esistenziale. Anche lui era contento di rivedermi dopo un anno e la prima cosa che mi diceva: «La facciamo la partita contro Assergi?». E alla mia risposta affermativa mi chiedeva di formare subito la squadra. Il suo volto esprimeva entusiasmo e così la felicità decollava. In quello sguardo s’ammirava una bontà come vera eruzione dell’animo. Era una di quelle situazioni in cui si sente di voler bene ad una persona e in certi momenti – lo ricordo ancora – avrei voluto fare chissà cosa per lui, per renderlo più felice. A volte me lo mettevo a guardare – s’era in Piazza e lui v’era arrivato in compagnia di suo cugino Mauro – e gli notavo anche una lieve tristezza (e anche questa emergeva dal profondo), soprattutto quando tra quegli amici lì convenuti i discorsi s’interrompevano, magari per cercare delle spiegazioni ulteriori, per affinare delle battute. Ecco, in quei momenti, pur mantenendo egli il sorriso, un velo di malinconia lo investiva: era forse a riflettere su chi aveva accanto in quei momenti ma era anche probabile che stesse pensando ad altri fatti, magari a questioni famigliari. Sono immagini, eruzioni della mia coscienza, flash non sempre a ricaduta favorevole per me.

Devo dire che una malinconia, l’ennesimo sbandamento circa l’esilità della vita mi prese quando seppi (doveva essere l’estate del 1974) che Mario, il padre di Domenico, aveva qualcosa che non andava con la salute. Mi giunsero voci d’un malanno ai nervi, riferisco quanto sentii dire ma la diagnosi precisa non la seppi mai. Pure capitava di vederlo perché veniva alla Piazzetta del Forno: lì, d’estate, arrivavano i suoi parenti che proprio alla Piazzetta avevano la casa: Mario e Peppe, Maria e Dina, con i rispettivi coniugi e figli: di Mario s’è detto; per Peppe la moglie Emilia con i figli Luciano, Rossana e Filippo; quindi Maria (mi scuso se non ricordo il nome del marito) con i figli Enrico e Lucia; e poi Dina con il marito Franco Palma ed i figli Lino e Peppino. 

Il ricordo va ad una sera dei primi giorni d’agosto con Mario che è all’inizio del suo malanno e sta fuori della porta in quella stanza sopra all’antica dimora della Cupella. Lo vidi che salutò i miei di casa: io, come tutti i miei famigliari, non pensavamo che si trattasse d’un malanno grave. Anche quella sera, se la ricordo così nitidamente, divenne per me universale.

Venne quella partita sollecitata da Domenico: ogni volta che spuntava il suo sorriso capivo che gli andava bene tutto quello che proponevo. La partita, appunto: non so ricordare con precisione in che estate accadde, ma posso ricordare alcuni nomi: Massimo Binanti (Mambo in porta), suo fratello Lello, quindi Mauro Corrieri, Domenico, Mario il nipote di Teresa, Luciano, ovvero il cognato di Ascenzo ed il sottoscritto. Di fronte avevamo una squadra consolidata con Franco Sabatini, Franco Scarcia (proverbiali i suoi rinvii a campanile e le sue entrate più che perigliose, da vero killer delle retrovie), Renzo Giusti, Gianni Sansoni, ovvero un’ala irascibile, incontenibile, tutta presa da acrobatici esperimenti con gambe in aria e a compasso, quindi Ascenzo da pilastro difensivo. Il risultato non lo ricordo – come nemmeno quelli delle sfide negli anni precedenti – ma non è importante. Ciò che ricordo, anche se può essere ormai sul confine del sogno, è quella mia intesa con Domenico in attacco, quella sua sveltezza nello smarcare avversari e nel successivo appoggiare il pallone: ci sapeva fare e a me sembrò anche quella – chissà perché - una sua sublime fragilità. Come il suo sorriso, spesso velato di malinconia. Chi vide quelle sue azioni e poi anche il suo sorriso? Uno sguardo del genere doveva necessariamente tradursi, nel gioco del calcio, proprio in quelle geometrie liriche.

Una sera della festa: l’ansia d’incontrare qualcuno che ci ha preso interiormente, la ricognizione nella Piazza quindi accorta fuga verso il fiume. Di questo si trattava parlando in generale. L’immagine che riemerge è di Domenico insieme a suo cugino e poi delle ragazze. È perfettamente pettinato, come al solito, è sorridente e indossa una camicia chiara forse con una tenue fantasia, questo almeno riemerge nella mente. Mi saluta ma si vede che è impegnato e dunque lo lascio all’intimità di quella serata. Interiormente desidero per lui tutto il meglio, del resto in quei momenti cos’altro si può augurare se non un buon allestimento dei sentimenti?

L’odore della giovinezza dilaga nella Piazza ma la spensieratezza sembra essere sempre “a tempo” e questo sentire è più forte se dall’area del palco ci si sposta e si raggiunge quello spiazzo lateralmente alla chiesa e di fronte alla casa di Cesare Cipicchia. Si sta aspettando qualcuno, forse tarderà, ma in quell’attesa non si deve finire lì; si deve evitare quel luogo perché in quel punto s’acuisce la riflessione e non sempre è un bene. Da quel belvedere lo spettacolo notturno è intenso e complici sono le costellazioni ed il condominio delle stelle. Dunque siamo negli affari celesti. Dalla valle risale un freddo sottile che giunge favorevole soprattutto alle iridi. I nostri affetti a casa staranno raccontando fatti degli anni ’40. Siamo divisi tra tutte queste cose e tanto vorremmo che qualcuno si prendesse cura di noi.

Ho iniziato con l’archeologia e con essa termino: un fortunato gruppo di archeologi riporta alla luce un muro di fondazione, alcune statue, resti di colonne, mentre dei colleghi in un altro sito, recuperano reperti “minori” come qualche moneta romana, delle corniole, uno strigile, una statuetta votiva. Per quello che mi riguarda faccio parte di questo secondo gruppo: ovvero ho rinvenuto piccoli ricordi ma sono felice comunque, con essi lo sguardo di Domenico è ancora tra noi.

FERNANDO ACITELLI



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