IL 19 SETTEMBRE L’ORIZZONTE DEGLI EVENTI AL FESTIVAL DEL GRAN SASSO 2022

Nell’ambito del FESTIVAL DEL GRAN SASSO 2022 - 8a edizione, lunedì 19 settembre alle ore 21 all’Auditorium del Parco L’ORIZZONTE DEGLI EVENTI di Daniele Vicari (Italia, 2005, 115 min.) Intervengono Daniele Vicari, regista, Alessandro Palmerini, fonico, Marco Tobia, Laboratori Nazionali del Gran Sasso.

Il Festival del Gran Sasso ricorda l’esperienza del set dell’opera seconda del regista Daniele Vicari girato tra Campo Imperatore, i Laboratori del Gran Sasso e la Città dell’Aquila.
Max è un giovane ricercatore di fisica nucleare. Lavora senza sosta nel laboratorio situato nel ventre del Gran Sasso, per un progetto chiamato Helios, che potrebbe rivoluzionare il mondo della fisica. Davanti a lui ha sicuramente un futuro radioso, costellato di successi; è ambizioso, preparato e molto intelligente. Ma la sua voglia di ritagliarsi un posto nella comunità scientifica lo mette in conflitto prima con gli altri che collaborano al suo progetto, poi con le finalità stesse della ricerca scientifica, fino all’estremo punto di rottura, la sua esclusione dal progetto e dalla comunità. Max improvvisamente si sente senza difese, in balia di un mondo che ha da sempre osservato da dietro a un vetro. E’ il mondo reale, la natura matrigna che non si assoggetta a regole e a dettami della scienza, ma che esplode con la sua violenza, ostacolando il cammino degli uomini...

 

Il bel controverso ritratto di ricercatore, che nel film ha il volto spiritualmente affusolato di Valerio Mastandrea, continua a riportare a galla frammenti di visione del film. Sono grappoli di immagini potenti e arcane. Forse dipende dal fatto che la macchina da presa di Daniele Vicari si esibisce spesso in movimenti non giustificati dal contesto narrativo, ponendosi come presenza spettrale, come quando indugia sul corpo seminudo della scienziata Anais. La regia dilata spazio e tempo dell’azione anche con false soggettive del protagonista, Max, che invece rivelano la presenza perentoria dello stile vigoroso di Vicari, distogliendo e distaccando lo spettatore dall’ipnosi della visione. C’è una dichiarata ascendenza antonioniana in questo film.
 

Valerio Mastandrea e Gwenaelle Simon
Valerio Mastandrea e Gwenaelle Simon

 

Tornano prepotenti le immagini della seconda parte, girata sulle cime del Gran Sasso, terra desolata presidiata dagli albanesi, in cui si avverte un’eco dei pensieri inespressi del protagonista. Quando si posa sugli orizzonti disabitati della montagna, lo sguardo di Vicari comincia a volare alto per tentare di tradurre in immagini l’affanno della mente. Fuori dal laboratorio e dalle truffe del sapere, il fisico continua a cercare il senso smarrito della propria esistenza nel mistero dei fenomeni naturali (il dolore fisico, la notte e il giorno, la scoperta di una sorgente, il temporale). Ma anche da quella nuova prospettiva presumibilmente non continua a vedere altro che neutrini in movimento nell’acqua cristallina. Non riesce a uscire dal suo isolamento.

Quando alla fine del film Vicari abbandona il personaggio dentro una storia che continua a scriversi ma che noi non vediamo, chi è – ci si chiede – quest’uomo intento a interrogare l’universo e al tempo stesso incapace di dare un disegno coerente alla propria esistenza? 
 

Valerio Mastandrea e Lulzim Zeqja
Valerio Mastandrea e Lulzim Zeqja


Altezzoso, scontroso e sopraffatto dal riserbo, Mastandrea carica Max di una forza magnetica profondamente interiorizzata, come se recitasse un sottotesto di cui il testo è andato perduto: ne è rimasta solo un’eco, un’emozione profonda. L’unico gesto veramente violento, in questo film dalla forza trattenuta, coincide con un momento costruito ad arte, una lampada spaventosamente rovesciata nel mezzo del diverbio cruciale. Mastandrea sceglie con massima oculatezza il momento propizio per liberare la tensione accumulata, e così procede all’unisono con le improvvise fughe ottiche di Vicari, come in una complessa partitura più mani. Quando cammina sul Gran Sasso incerto sulle gambe, indossando le scarpe scomode di un morto, sembra ricreare un tempo astratto di guerra, fra la No Man’s Land dei balcani e la Grande Guerra di quando il cinema italiano ai suoi personaggi tragicomici sapeva ancora conferire una statura eroica. Mastandrea e Vicari disegnano invece un uomo estenuato, prosciugato eppure tracotante: sul piano umano il pastore extracomunitario, perseguitato dalla ferinità brutale del clan albanese, si rivela più generoso di lui.

Francesca Inaudi
Francesca Inaudi


Nell’orizzonte di Vicari appaiono eventi cupi, come il rumore di fondo che muove dalle viscere della terra per diffondersi e straripare in correnti di sonorità ossessive, ma anche frammenti di bellezza, come la grandiosa visione dall’interno della sfera Helios inondata di luce. Il laboratorio ricreato negli studi di Papigno è un autentico mostro: l’inconoscibile non è più l’evento impossibile da misurare ma semplicemente l’evento che non si verifica. E’ un nulla che si vuol rendere significativo e di cui invece sfugge il senso. Anche il vecchio professore possiede un sapere difettoso, non conosceva davvero l’allievo prediletto a cui ha affidato l’esperimento  - avrebbe dovuto lasciarlo condurre dalla scienziata francese, altro volto della globalizzazione speculare a quello del pastore: una donna fiera e autentica. Dietro la porta che si chiude, e da cui la cinepresa si allontana, è implicita la sua rivincita.



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