CAPOLAVORI DEL DORMIVEGLIA - di Fernando Acitelli

CAPOLAVORI DEL DORMIVEGLIA

 

- di Fernando Acitelli -

Capitava di questo: mi distendevo sul letto dopo aver risolto diverse faccende fastidiose o piacevoli e, una volta che m’ero distaccato dal mondo, finestra accostata ed io sonnecchiante, ecco che un brivido di gelo m’assaliva colonizzando tutto il mio corpo e recando con sé un riemergere di eventi lontani, i quali, stando in piedi e operoso non avrei potuto vedere in faccia, e si trattava d’un sogno dai contorni leggeri che poteva arrecare anche un certo benessere abbandonandomi ad un oblio esile, controllato.

I ricordi riguardavano per lo più fatti accaduti nella mia città, lieti sopralluoghi su marmi e rovine sia al Foro romano che in altri luoghi dell’Urbe dove iscrizioni spezzate e ricamate di muschio e trifoglio avevano il dono di farmi distaccare dalla vita, e inoltre incontri piacevoli,  liete conversazioni in una sala da tè, il rivedermi con amici scrittori, quanto all’inesausto sole su Roma le riflessioni erano continue, e poi lambire i bar di letterati del primo Novecento, il “Caffè Aragno” al Corso.

Tutti questi scenari riemergevano all’improvviso ed era soprattutto nel dormiveglia che, da archeologo privato e lirico, riportavo alla luce frammenti d’ogni tipo, e accadde dunque di impossessarmi nuovamente d’un fatto (non proprio lieto) accadutomi ad Assergi nel quale ero stato il protagonista negativo, un accadimento che era finito nel ripostiglio della mente ma che riemerse per incredibili accostamenti di luoghi e persone che in un sogno anche lieve, sanno innalzarsi come in una sceneggiatura.

La brocca si frantumò al suolo ad un passo dal tavolo e mia madre, assistendo a quell’evento, si piegò su se stessa per il dolore e fu, in famiglia, un’angoscia come se fosse morto un congiunto, quello il tempo, quello il dolore, quello l’amore che si provava per una brocca che per decenni aveva avuto il suo posto a tavola, ed era stava osservata (e amata) anche dai miei nonni che erano usi custodirla nello stipo centrale della cucina, e fu un’ora di pranzo che non avremmo mai potuto dimenticare.

 Quel fragore si sentì nella Piazzetta del Forno e forse qualcuno, lì sfilando, lo sentì ma l’immaginarsi il nome di quella persona lì transitante era un affresco fantastico né noi, a casa, pensammo di raggiungere la finestra a vedere se qualcuno, per caso, potesse essere un testimone di cuore per quanto appena accaduto e rimanemmo rintanati pensando “al dopo” di quell’evento, a come comporre i giorni e inoltre – punto dolentissimo – su chi avrebbe preso il posto di quella brocca veterana, e sostituirla con chi?

In un attimo si dissolsero tutti gli appuntamenti gioiosi che avevo nel pomeriggio – il fiume, il bar – e pensai ad una strategia difensiva qualora i miei amici fossero venuti a casa per cercarmi: avrei lasciato detto che ero uscito per una commissione e che sarei ricomparso nel tardo pomeriggio lasciando tutto sul vago, questo pensai e inoltre convenni con me stesso che la persona indicata per quel compito fosse mia madre che sapeva bene imbastire simili faccende ed anche rintuzzare possibili e indiscreti quesiti.

Si voleva dimenticare tutto in fretta, ma questo non poteva essere attuabile dal momento che la brocca era considerata ormai come un familiare, in altri termini gli volevamo bene, e sulle prime si voleva dimenticare tutto, scansare quell’immagine della caraffa frantumata con schegge di vetro a disperdersi per tutta la cucina ma l’essere già in avanti con altre stagioni e dunque avere quel fatto alle spalle era impossibile, avremmo dovuto attraversare quel dramma, superare ogni fase di quel rituale definitivo.

I frantumi in terra – la brocca era di vetro – furono osservati lungamente prima di venire recuperati, d’essere composti per l’estremo saluto, ed io in particolare, ovvero l’autore di quel disastro, rimasi per diverso tempo accanto a quel cumulo di macerie, impossibilitato anche all’azione del raccogliere tutto quanto era uscito dalla forma e divenuto materia indistinta, proprio così, e se mia nonna era la più risoluta nel prendere atto dell’accaduto, mia madre era sì sulla stessa linea ma interiorizzava tutto.

 Il fatto accadde tra il lavandino ed il tavolo centrale della cucina, in un ambiente dove non era previsto il mangiare, risolvendoci noi per quell’officio nella saletta attigua, ma non si trattò d’un mio incespicare con i piedi quanto una non idonea presa al manico e così, prima di riempire la brocca, essa mi scivolò e lo schianto lo sentii prima intimamente e poi lo vidi rappresentato in terra, era chiaro che stessi pensando ad altro e ritenessi quell’azione la solita “formalità”, e invece estinsi quell’oggetto.

La cucina divenne dunque il luogo della disfatta e s’innalzò un dipinto riguardante una “natura morta”, e ogni via di fuga m’era preclusa e soltanto con la fantasia avrei potuto sentirmi in salvo e ripensai ai lieti giorni al fiume in cui non era accaduto nulla e ogni minuto era stato  accarezzato, e tra Gianni che saltava da sponda a sponda finendo, a volte, con un piede nel fiume, suo fratello Giulio era un po’ la coscienza critica su cosa si poteva fare, e asini col fieno addosso erano ad affrontare la salita

Il pranzare passò in secondo piano e mentre vedevo mia madre raggruppare tutti quei frammenti e poi confinarli prima nella paletta e poi in una busta che li avrebbe tenuti stretti, gli uni con gli altri, uniti verso l’ultimo viaggio, io me la filai in alto affacciandomi all’ultimo balcone dove potevo stare da solo e spaziare ovunque, da Pizzo Cifalone a Montecristo, e considerare l’epoca di quella brocca ormai tramontata e se  fosse sfilato qualcuno nella Piazzetta del Forno mi sarei rifugiato dentro.

 

 



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