NON C’E’ LUCE FINO A CHE NON CALA IL BUIO - di Fernando Acitelli

NON C’E’ LUCE FINO A CHE NON CALA IL BUIO

 

 

1.

ITINERARIO LIRICO

Finiti dove i bastoni dei vecchi di Assergi? A rovistare tra sottoscala, cantine, fienili sopraelevati, angoli di pagliaio si deve sospirare ancora una volta quella parola definitiva: nulla! Niente di quanto si cercava, Amen.

Le case ristrutturate, gli oggetti “inutili” portati via, i tramezzi alterati,  nuovi spazi in cui celebrarsi, l’odore originario sparito in quegli ambienti, soppiantato dall’efficienza, da un architetto/designer tutto attillato d’abito.

Ci si sarà liberati anche di quei bastoni, autentici gioielli per la vecchiaia, oppure si sarà pensato ad un piccolo spazio dedicato all’antico, allestendo così una mostra perenne con tutta la “chincaglieria” del primo Novecento.

Impensabile che si sia deciso di sottrarre spazio alla casa, il museo da allestire con tutti gli oggetti lo si terrà nella mente, impossibile privarsi anche d’un ripostiglio dove allestire tutti l’armamentario degli affetti.

Vi furono esempi sublimi tra i bastoni, esemplari sostegni che puntellarono e accompagnarono quei vecchi da casa al pagliaio perche erano quelli i due luoghi veri d’una intimità, certamente anche la chiesa ma lì faceva freddo.

C’era da soffrire se la casa prevedeva anche le scale esterne, e in questo caso la ringhiera assurgeva già da lontano a ristoro visivo, dunque giunti nei pressi dell’abitazione, ecco la ringhiera alla vista e giù la benedizione.

La ringhiera d’accordo, ma si trattava comunque d’impegnarsi in una “scalata” e, malgrado quell’appoggio, le gambe dovevano esibirsi in un residuo di forze, ma essendo habitué del bastone, il vigore non c’era più.

Naturalmente poteva esservi anche un altro sostegno, quello rappresentato da un familiare e in questo caso quel soccorso aveva la doppia funzione  per il corpo del vecchio e per lo spirito, ed il rincasare era meno faticoso.

Quale felicità passare dalla strada fin dentro casa senza che vi fossero le scale! Per un figlio sensibile l’arrampicarsi sulle scale avrebbe significato un affaticamento del cuore del genitore e questo gli addolorava l’animo.

Fissare lo sguardo del vecchio che rincasava trovando tutto in piano non dovendo esibirsi in scalate, l’arrampicarsi per giungere nel letto che poteva apparire come un luogo fantastico, il riposo eterno bene in anticipo.

Quello sguardo sereno mi rappresentavo e, imbattendomi nel vecchio rincasante con l’abitazione senza scale, mi figuravo i suoi tratti che mutavano in meglio sentendo nuovamente il calore di quelle mura amiche.

C’era da pensarle tutte, pre-vedere quanto si sarebbe poi svolto nel cuore della casa ma non sempre la stanza era sul piano stesso della cucina (beato chi l’aveva!) ed i gradini verso la stanza della casa antica davano pensiero.

Poteva accadere di tutto aggredendo quella scala interna per salire in alto, ad esempio il riproporsi dell’angina pectoris, un affanno fattosi ormai famigliare e poi il mettere a dura prova le gambe che non andavano più.

All’atto di guadagnare l’entrata, il bastone lo si lasciava, ritto, tra la porta d’accesso della cucina ed il lavandino, ma un’altra postazione esemplare era quella accanto all’arca, là dove si sentiva sempre la fragranza del pane.

Il vecchio mai lasciava il suo bastone e anche una volta che s’era seduto in poltrona dinanzi al focolare, un occhio lo gettava sempre verso il suo amico di legno, non poteva che essere così vista la fedeltà che manifestava.

Provava affetto per quel bastone, era ormai una parte di sé, l’oggetto che gli consentiva ancora di camminare, raggiungere il pagliaio, parlare con gli animali, e anche sui gradini del fienile lo stringeva, e quasi ci parlava.

Che un giorno l’avrebbe lasciato era in preventivo, nulla da fare, il cuore ancora andava, le varie insufficienze davano delle tregue ma il corpo andava ad esaurirsi e proprio per questo pensava all’addio a quel bastone.

Poteva esservi anche una solennità, un’eleganza nel portare il bastone e in questo s’ha da ricordare certamente Ercolino, fratello di Ginetta, e lo si vedeva discendere fuori l’ara di mio nonno e quel bastone lo portava da re.

Non si trattava d’un bastone “da damerino”, quello che, nato per la città, s’era poi tramutato in oggetto di puntello per colui che viveva in montagna, no, era nato ad Assergi, ed era lungo, grosso di spessore, unico.

A volte pensavo che neppure occorresse ad Ercolino e che fosse un mezzo da lui usato per dare maggior riguardo alla sua persona, per farlo sentire “più a posto”, più suntuosamente calato nel paesaggio, io credo fosse così.

Il bastone era lo scettro di chi aveva lavorato duramente, ed il corpo prima o poi presentava il conto e dunque poco da fare, si poteva avere anche un bell’aspetto, aver mangiato sano, ma il tagliando arrivava inesorabilmente.

Su questo “dettaglio”, ovvero che il corpo con gli anni presentasse il conto, se n’era reso conto anche l’homo sapiens, ed anche prima, poi, lentamente, procedendo nei millenni, la riflessione s’era fatta analitica e pure dolorosa.

Che lo avessero detto i primi filosofi, addirittura nel tempo che precedeva i presocratici, era un’evidenza, e tutto quanto era venuto dopo era soltanto un’elaborazione, un commento a questi primi ragionatori della natura.

Anche in quell’epoche remotissime s’era visto il divenire, lo si era per quanto possibile contrastato e la metafisica nasceva là, con Platone, il quale aveva creato il “mondo delle idee” per la paura del nulla dei Greci.

Quasi un’anticipazione del paradiso, l’Iperuranio platonico (ed era il 5° secolo avanti Cristo), e così la verità si spostava oltre il cielo, in un altrove di idee perfette, immutabili, e qui era soltanto imperfezione, mutevolezza.

Da lì i commenti a questo “mondo delle idee”, cui avevano partecipato tutti, religioni comprese, e allora mi veniva da dire che erano veramente beati i vecchi col bastone che procedevano in maniera lineare, con la fede.

Ripenso ad Ercolino che faceva ritorno a casa tenendo il bastone e, sfilando davanti all’ara, salutava mio nonno o mio zio e, senza metafisica, s’avviava sereno a casa, le ulteriori parole sulla vita l’avrebbero stordito.

Ad Assergi i vecchi erano da ammirare e da seguire come figure distanti dalla metafisica ed il loro mondo era chiaro, c’era un inizio, una fine e una salvazione, spiegato tutto con pochi passaggi, e non serviva filosofeggiare.

2.

QUESTIONI DELL’ALTRO MONDO

 

Eppure lo si doveva trattare il sottile argomento dell’oltre la vita, naturalmente lo facevo in silenzio appena soffermandomi su quei volti aggrediti dagli anni, in sospiro, a volte in affanno, stanchi anche del riposo.

Quella idea di salvezza era semplice e dunque “a portata di mano” e in loro presenza sentivo il tepore degli indumenti, e allora s’innalzava il fustagno, la flanella, il velluto, e a casa avrei stazionato anch’io davanti al focolare.

L’idea di una casa, di quegli indumenti ad intenso rilascio di tepore e poi un focolare, ecco, tutto questo mi riempiva lo spirito e allora l’esistenza poteva anche essere vissuta senza porsi troppe domande, con “leggerezza”.

Cosa avrei dato per ammirare (non visto) il vis à vis dove i vecchi conservavano i loro indumenti! Quelle uniche giacche per tutte le stagioni, le maglie di lana vera, poi la mutata, la flanella a oltranza, un santino a lato

Sarebbe stato meraviglioso imbattersi nelle camicie quadrettate, quelle per l’inverno e le altre, di cotone, per l’estate, e poi le maglie, belle ancora di più con qualche rammendo, per non parlare dell’anta del vis à vis cigolante

Da perdere la testa di fronte ad un vis à vis, detto normalmente armadio, e quegli indumenti sollevano odori di campagna ma svelavano altresì un momento etico, che colsi respirando l’interno del cappello di mio nonno.

In quel cerchio venato di sudore all’interno del cappello poteva riassumersi l’itinerario della laboriosità, lo vedevo, lo respiravo ed era per me come un reperto antico, quasi da custodire in una vetrinetta di plexiglas con faretto.

Fino all’ultimo, mio nonno fu esente da bastone, dunque fino ad ottantasette anni si mostrò perfettamente in asse, ma un giorno d’aprile, alla “Bucia”, si ripeté che qualcosa non andava, tornò indietro fino a casa.

Aveva sentito l’agguato alle spalle, qualcosa non andava al petto, e in pochi giorni una broncopolmonite ce lo portò via, rimanemmo noi come affetti, e poi il vis à vis, il cappello e quindi tutti gli indumenti composti.

Quale fortuna che i vecchi non avessero scartabellato tra i libri! Nemmeno mio nonno conosceva i filosofi ma questo non gli aveva impedito di crearsi una sua “idea di mondo”, ma a porgli domande su quell’argomento taceva.

Già nel suo darsi, il bastone spiegava esemplarmente il divenire, il tempo che modificava i tratti delle persone e ne rendeva più fragile l’animo, e l’oggetto/bastone scansava ogni parola ma chiariva l’essenza della vita.

Ricordo che il bastone fu oggetto importante in CiufelAntonio, il marito di Mariuccia la Falalana e gli era utile perché per la discesa della costa fino alla casa il tragitto era impervio ed i gradini da scendere più che perigliosi.

Antonio Scarcia (de Sì Antunine) se ne serviva ed in lui il bastone era un oggetto utile per le fatiche di quaggiù, ma come contraltare lui aveva in bella mostra, sul petto, il Paradiso, una sequenza di medagliette coi santi.

Era tutto puro in lui, il bastone, certamente, ma ciò che valeva era quanto s’ammirava sul cappotto o, d’estate sulla giacca, e se ne stava tranquillo, con quel concistoro di santi sul petto i conti si sarebbero fatti poi, in cielo.

Di fronte alla casa di Antonio c’era Giovanni (Giannatt) e anche costui si servì del bastone e fu proprio grazie ad esso che si poté muovere, raggiungere la Porta del Colle, commuoversi ancora per l’evento della vita.

Il bastone l’avrebbe meritato un museo ed il cartiglio, accanto, avrebbe permesso di risalire a colui che se ne servì e adesso avremmo anche una storia di Assergi composta con l’oggetto più esatto per puntellare gli anni.

Un’occasioni perduta quel museo che non ci fu e credo che dei bastoni non ve ne sia più traccia perché, a dirla chiara, ciò che interessa è solamente l’efficienza e già imbattersi in quel sostegno evoca, a dirla chiara, la fine.

Come se proprio il lasciare questa vita non ci riguardasse! Esorcizzare l’ultimo segmento esistenziale non serve a nulla e con un museo del bastone si sarebbero sempre avuti accanto i nomi che adesso sono essenza.

Si dirà, ma ci sono le fotografie! Certo, ma esse sono un “corpo estraneo”, una diavoleria della Tecnica mentre il bastone può recare ancora l’impronta del de cuius, altro fatto a ben intendere, e solo l’animo conforta.



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