IL SOLDATACCIO NAPOLETANO - di Angelo De Angelis

IL SOLDATACCIO NAPOLETANO
 
- di Angelo De Angelis -
 
 
“Un soldataccio napoletano”. Zio Ugo sussurra velocemente quelle poche parole. Non sa nulla di più, è la sola parte che si è consevata nella sua mente di un racconto che è stato tramandato di generazione in generazione. Nessun altro particolare, nessun’altra spiegazione.
Siamo seduti davanti al camino scoppiettante della cucina della casa “deji Ministri”. Il fumo si incanala lungo una stretta canna fumaria alta tre piani che a mia memoria non è mai riuscita a smaltire ciò che resta dei raggi di sole imprigionati nella legna e che illuminano e riscaldano l’ambiente circostante.
Alcuni riccioli di fumo si diffondono nell’aria tingendo di scuro il soffitto dalla elegante volta a crociera, arrossando gli occhi e riempiendo i polmoni del profumo di legna bruciata.
Che bello l’inverno in campagna! Il lavoro è regolato dalle ore di luce e l'uomo riposa insieme alla natura: si dorme un po’ più la mattina; le attività si riducono alla semplice cura degli animali ed a qualche piccola opera di manutenzione: il dente del rastrello di legno rotto da togliere per metterne uno novo, il manico dell’accetta o del forcone da sostituire; la trasformazione di un lungo tronco di pioppo tagliato a primavera in scala a pioli, la cura maniacale dei pesanti scarponi di cuoio chiodati che potranno essere ancora utilizzati dopo tanti anni, solo ungendoli con abbondante grasso animale.
E soprattutto la magia serale, quando le stelle impreziosiscono la volta celeste, la luna sorride a chi alza gli occhi al cielo e lo sguardo corre lungo il profilo delle montagne che circondano il piccolo mondo che fa da scena al borgo, mentre una gelida e frizzante aria taglia le guance. La parte più intrigante di quella magia si compie all’interno della casa, in cucina, davanti al camino: le lingue di fiamma che si sprigionano dai legni secchi illuminano come raggi di sole l’ambiente ed arrossano le guance e la fronte di chi siede a semicerchio intorno ad esso; le ombre tremolanti riempiono le pareti e in quell’atmosfera irreale prendono corpo i racconti di vite passate che i vecchi trasmettono ai ragazzi che ascoltano incantati ed io, poco più che bambino, arricchisco i miei ricordi.
Quella sera d’inverno zio Ugo era in vena di raccontare: la sua fanciullezza, segnata da una polmonite che stava per divorarlo, la sorella adolescente morta a causa di una puntura d’ago, il servizio militare a Firenze, il suo tormentato ritorno al paese, trattenuto da una donna e dal mestiere di fornaio, appreso durante la naja; e poi la partenza per la guerra di mio padre, dell’altro suo fratello Elia e di tanti suoi cugini; i racconti della sorella Nunziata e della sua dedizione nella cura della casa, ricordi del padre che aveva il mio stesso nome, del mitico nonno Luigi “Ju Ministru”, morto alcuni anni prima della sua nascita; la mia curiosità di ragazzo cresceva ascoltando i sui racconti; volevo sapere di più, volevo viaggiare indietro nel tempo, raccogliere brandelli di vite passate che hanno trasmesso a me parte del loro patrimonio genetico.
Il suo racconto si interruppe con un laconico: discendiamo da un soldataccio napoletato.
Un soldataccio napoletano: quando, dove, come, perché, il nome. Di risposte non ne arrivarono. Non sapeva altro. I suoi racconti si interrompevano con la citazione del suo bisnonno Angelo, che portava anche lui il nome che dopo quattro generazioni sarebbe stato il mio: null’altro.
Otto agosto 2020. Leggo sui media che a Santa Rufina di Roio ci sarà la presentazione di un libro dal titolo “Roio - Storia di una terra attraverso i secoli”. Partecipo, ascolto, imparo… acquisto una copia. L’autore, Croce Rotolante, è abitante di Roio, innamorato del suo territorio e con passione, pazienza e meticolosità certosina ha raccolto informazioni, dati, atti notarili, corrispondenza; ha fatto il topo di biblioteca nell’Archivio di Stato, nella Biblioteca Provinciale Tommasi dell’Aquila, in raccolte di documenti private. A volte scorrevole e piacevole nella lettura, a volte ostico e noioso, specie nella parte in cui riporta tal quali vecchie carte tracciate da inchiostro, è però una fonte inesauribile di notizie di vita quotidiana delle persone e delle istituzioni che hanno vissuto il territorio di Roio.
Perché tanto interesse per borghi di un contado che non mi appartiene? Il mio bisnonno paterno, Luigi, detto “Ju Ministru”, per una serie di casi fortuiti, si trasferì da Colle di Roio a Santa Maria. La sua vita, le sue opere fanno parte del mito fondante della mia famiglia e anche di lui ho raccolto e narrato la storia.
Dunque comincio a sfogliare il voluminoso tomo; parla delle famiglie illusti, degli abati e dei preti che governarono le anime ed i terreni di proprietà della chiesa, dei baroni e delle Università, istituzioni che gestivano i beni collettivi. Parla dei possidenti terrieri e degli armentari che fecero la loro fortuna con greggi transumanti. Dei miei antenati nulla.
Ma come oggi avviene, niente e nessuno sfugge al fisco e, nella parte forse più noiosa della documentazione raccolta e nei resoconti contabili del fisco, sono finalmente comparsi nomi e dati.
CATASTO ONCIARIO DELL’UNIVERSITA’ DI ROIO DELL’ANNO 1773
“Francesco de Angelis, bracciale d’anni 48, Angiolantonio, fratello, bifolco d’anni 45, Croce, figlio, bracciale di anni 18, Paolo, figlio, pastore d’anni 15, Grazia Micantonio, moglie di Angiolantonio, d’anni 45, Maria, figlia in capily d’anni 19”.
Ecco dunque una labile traccia da seguire alla ricerca degli antenati. È solo un indizio; altro indizio i nomi: Francesco, Paolo, Angelo, Antonio: nomi ricorrenti che hanno attraversato secoli e generazioni, giungendo fino a me ed ai miei cugini. Un indizio però non costituisce prova, ma le prove sono infine arrivate.
Archivio di Stato dell’Aquila. Sezione “antenati” del sito istituzionale. Si trovano digitalizzati i registri comunali con le nascite, le morti ed i matrimoni a partire dalla data di istituzione dell’anagrafe napoleonica del 1806.
Marco, mio figlio, si è appassionato nella ricerca delle radici ed ha cominciato a spulciare ogni singolo atto a partire dai nonni i cui nomi e date di nascita e morte sono noti e certi. Così ha fatto un viaggio indietro nel tempo rintracciando il mio bisnonno Luigi, detto Ju Ministru, nato l’11 aprile 1838 a Colle di Roio; il padre, Angelo Maria, nato nel 1798 a Colle di Roio, il cui padre aveva nome Paolo, nato a Colle di Roio il 24 dicembre 1759. Il padre di Paolo aveva nome Francesco: il Francesco de Angelis del Catasto onciario del 1773. Di lui si è rintracciato il certificato di morte, avvenuta il giorno 11 dicembre 1810 alla incredibile età di 94 anni. Non c’è certificazione della sua nascita, antecedente all’anagrafe napoleonica che comunque, con semplice sottrazione, risale al 1716. Nessun documento o atto noto riporta la presenza del padre di Francesco, la cui data di nascita va collocata intorno all’anno 1670. Dunque Francesco è l’antenato più antico che si rintraccia dai documenti; dei suoi discendenti nessuno è identificabile nel soldataccio napoletano di cui zio Ugo conservava memoria.
Corre l’anno 1702. Una interminabile seguenza sismica interessa la città di Aquila ed il suo contado. Aquila è una pallida immagine della “magnifica cittade” che era stata tre secoli prima: la seconda città del regno di Napoli che contava, col suo contado, circa sessantamila abitanti. Floridi commerci delle sue mercanzie, lana, panni, zafferano, che percorrendo la via degli Abruzzi, raggiungevano Perugia, Firenze Milano e, oltralpe, importanti città Alemanne. Una stamperia a caratteri mobili, la prima nel regno di Napoli e la terza in Italia dopo quelle di Venezia e Foligno, fondata da Adamo di Rottweill, allievo dell’inventore Gutenberg. Aquila batteva moneta propria e teneva testa al Re di Napoli ed al Papa profittando della sua posizione strategica al confine dei due stati, lungo una delle vie di comunicazione più importanti per il commercio e per muovere gli eserciti in guerra.
Con la dominazione spagnola la città aveva subito una rapida decadenza: l’organizzazione politico-amministrativa e gli statuti, che la rendevano simile ai liberi comuni del nord, furono mortificati dal ripristino del regime feudale; ci furono imposizioni fiscali che portarono alla depressione economica; l’allevamento ovino e la transumanza orizzontale tra Abruzzi e Puglia, che erano stati colonna portante dell’economia, languirono. La già precaria situazione fu aggravata dalle pestilenze degli anni 1503, 1505 e 1657-1658, che ridussero di un terzo la popolazione. La piccola economia rurale tornò ad essere prevalente sulla economia derivante dall’allevamento e dagli scambi commerciali a largo raggio.
La città, in quell’anno 1702, contava ormai, insieme al suo contado, non più di diecimila abitanti.
Quando la crisi sismica sembrava superata, a fine gennaio del 1703, gli abitanti tirarono un sospiro di sollievo e iniziarono a riparare i danni dei mesi precedenti. Non dimenticarono di ringraziare sant’Emidio, il cui culto fu importato da Ascoli Piceno dove al santo venne dato il merito di aver protetto la città in occasione del terremoto che sconvolse anche quel territorio.
Il due febbraio, ormai inaspettatamente, la belva nascosta nelle viscere della terra, con un terrificante ruggito, colpì duramente la città ed il contado. Si stavano celebrando riti religiosi di ringraziamento al santo, protettore dai terremoti e gran parte degli abitanti rimasero, inermi, sotto le macerie delle chiese.
“Quella nobil città dell’Aquila è stata quasi del tutto adeguata al suolo, e alcune poche case o pareti, che sono restate in piedi, minacciano imminente rovina”. (Anonimo 1703)
“La città dell’Aquila fu, non è; le case sono unite in mucchi di pietra, li rimasti edifici non caduti stanno cadenti. Non so altro che posso dire di più per accreditare una città rovinata”.
Così si espresse, in una lettera al vicere di Napoli, Marco Garofalo, Marchese della Rocca, inviato come commissario regio per l’organizzazione dei soccorsi alla popolazione.
Solo ad Aquila si contarono 2.500 morti ed almeno 6.000 nel contado e nelle città vicine.
Il Marchese Garofalo emise le prime ordinanze per il recupero dei cadaveri dalle macerie oltre che dei beni dei sopravvissuti. Fece erigere baracche per il ricovero delle persone e chiamò in città un presidio militare per assicurare l'assistenza alla popolazione e l’ordine pubblico.
Emanò infine, a novembre di quel 1703, un decreto che sancì l’esenzione fiscale per 10 anni, al fine di invogliare le persone a restare e per attirare nuovi abitanti per ripopolare la città.
Angiolantonio era un soldato di professione e militava tra le file dell’esercito a servizio del viceré di Napoli che, all’epoca, era Pedro Antonio de Aragon. Soldato era il padre, sodati i suoi avi; conosceva bene la vita militare e l'arte della guerra, i pericoli, i sacrifici, la lontananza dalla propria casa, dai propri affetti.
Aveva viaggiato a lungo, in posti dove lo chiamava la guerra ed anche quella volta rispose si, un po’ per curiosità, un po’ per il soldo, che durante le missioni era più alto. Peraltro quella missione non sembrava dovesse comportare grossi pericoli.
Fu così che partì da Napoli al seguito del Marchese della Rocca per Aquila, appena colpita da un terremoto come da secoli non se ne vedevano. Aveva un progetto preciso: accumulare ancora un po’ di denaro per avviare un’attività propria e passare la maturità e la vecchiaia in santa pace costruendosi finalmente una famiglia. Napoli, la città più bella del regno, offriva grandi opportunità.
Non fu propriamente una passeggiata quella missione. Non fu una guerra, ma alla guerra somigliò molto: rovine dovunque, puzza di morte che si sprigionava da sotto i palazzi e le chiese crollate, fatica, sudore, ferite a causa di pietre che rotolavano addosso mentre si tentava di estrarre cadaveri dalle macerie. E poi disperazione, miseria, follia che serpeggiava tra i sopravvissuti, scosse di terremoto che continuavano imperterrite a seminare terrore tra i vecchi abitanti ed i soccorritori.
Angiolantonio era ormai esausto e contava i giorni per il suo ritorno a Napoli. Poi accadde l’imprevisto: “esenzione decennale dal pagamento delle tasse”. Quella città ai confini del regno, che era sembrata posta alla fine del mondo, tra montagne impervie e dal clima freddo come mai a Napoli aveva provato, poteva rappresentare una opportunità nuova. Aveva ormai accumulato un buon gruzzolo e l’esenzione dal pagamento delle tasse lo avrebbe aiutato molto nell’intraprendere una nuova attività. Non aveva legami affettivi particolari a Napoli, non ne aveva avuto modo, tra una campagna militare e l’altra.
Fu preso dall’entusiasmo: strinse amicizie tra i locali, cominciò a guardarsi intorno per trovare una donna cui legarsi, lasciò ripartire senza rimpianti i commilitoni che, terminata l’emergenza, tornarono a Napoli al seguito del Marchese della Rocca.
Presto il fatto di avere la borsa piena attirò su di lui le attenzioni di malintenzionati aquilani alla ricerca di polli da spennare. Si fece trascinare in una vita dissoluta, vino, donne, gioco d'azzardo ed il suo gruzzolo cominciò ad affievolirsi.
Una tiepida mattina del 1705 si svegliò con un pesante cerchio alla testa: vomitò il vino che aveva trangugiato fino a notte fonda, rinfrescò il viso con la gelida acqua della conca, verificò il contenuto della sua borsa e decise che era arrivato il momento di cambiare vita.
I pochi soldi rimasti erano ormai insufficienti per attuare il suo progetto iniziale: una attività commerciale in città, una armeria dove mettere a frutto il suo consolidato mestiere delle armi. Poté acquistare soltanto un piccolo podere nel territorio di Rojo, a poche miglia a nord di Aquila, una casa a Poggio di Rojo, con stalla sottostante. Una casa piccola, non più di cinque canne sul fronte di uno dei vicoli del borgo, e lì iniziò la sua nuova vita.
Gli sembrò di rinascere, lontano dai clangori della guerra, dalle marce forzate tra luoghi a lui sconosciuti, lontano dal sangue, costretto a togliere la vita a persone che non odiava ed a difendere la propria. Tra quelle montagne, tra quelle valli e sorgenti che formavano una natura meravigliosa riuscì a trovare la gioia di vivere del proprio lavoro.
Furono gli ultimi, sereni anni della sua esistenza, durante i quali poté gioire degli affetti di una moglie, dei figli: è il 1716, nasce Francesco; tre anni dopo Angelantonio muore: ha meno di cinquant’anni: la vita non è stata tenera con lui e le fatiche, la paura, i vizi hanno minato il suo fisico. Non fa in tempo a vedere il suo secondogenito, nato nel 1719 pochi mesi dopo la sua morte; ed a quel bambino viene imposto il suo stesso nome: Angiolantonio.
Un SOLDATACCIO NAPOLETANO: nella penombra appena rischiarata dalle fiamme che danzano nel camino della vecchia casa “deji Ministri”, lo scarno racconto di zio Ugo sulle origini della nostra famiglia evoca fantasmi che raccontano brandelli di vite vissute, evoca emozioni, paure, gioie, speranze, amori, dolori che sono ormai offuscati e quasi svaniti nella notte dei tempi.

 



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