ASSERGI, FOTOGRAMMI DAL PASSATO - LE FARFALLE AL FIUME - di Fernando Acitelli

                                                                                          

LE FARFALLE AL FIUME

 

- di Fernando Acitelli -

Nessuna creatura più della farfalla trasmette l’idea della fragilità dell’esistenza. Nei tentativi che s’osano nel prenderle, ecco che, come resa, si hanno i polpastrelli imbrattati d’oro. E se quelle ali erano a più colori, magari gialle con striature trasversali nere, in un attimo non rimane niente. È dunque il dasein di Heidegger, ovvero l’esserci per la morte: la vita d’una ventina di giorni nel caso delle farfalle. Anche quel velo delle ali è fragile e in pochi istanti scompare dai nostri polpastrelli. Ne ebbi notizia al fiume, d’estate, in località “Rive”, e vidi in diretta come si svolgeva quel dissolvimento cromatico. Mentre le donne erano intente a lavare i panni, con la piccola tavela de lo lavà, a me veniva in mente d’osservare le farfalle proprio in quel punto del fiume. In quel tratto esse erano più presenti rispetto, ad esempio, alle Pernagnova o Santamaria. Amavano il bello anche le farfalle e dunque osavano delle scelte. Ma come non condividere quella loro preferenza di volteggiare a “Rive”? E il posto che sceglievano era il più bello, alla destra delle donne ricurve e tutte prese dal  lavare, in quel tratto dove i cespugli formavano come una galleria di natura.

Ebbene procedevo: dopo aver pazientato perché non che fosse facile ghermirle, inginocchiato sulla sponda sassosa del fiume, ecco che, riunite le ali d’una farfalla con i polpastrelli, la traevo verso di me. E così quei colori, in voli a bassa quota, di colpo li avevo davanti ed era l’ennesimo dettaglio di natura che desideravo conoscere. Ma non c’era il sublime in quell’atto, anzi, si trattava d’un gesto deprecabile perché quel supporto o sostegno di quella creatura – le ali - scompariva all’istante e così la farfalla, per una misteriosa forza interiore, ancora osava qualche volteggio prima di finire, esausta, più in là, ovvero dove stavano esibendosi ancora le sue amiche transitorie. Con gli anni non osai più prendere le farfalle e tenni in fastidio anche i naturalisti e acchiappafarfalle del XVIII secolo che venivano descritti qua e là, soprattutto in paesaggi inglesi. Mi piaceva solamente il sostantivo “acchiappafarfalle” quando esso si riferiva ad un tipo vagante, inoffensivo e che aveva la testa tra le nuvole. Naturalmente il cosiddetto “acchiappafarfalle” nei romanzi aveva la sua brava reticella dalla forma conica tenuta da un’apertura tonda, lignea. Mi piaceva tale sostantivo perché mi sentivo veramente una persona poco pratica e dedita sempre al sogno. Inoltre l’acchiappafarfalle strizzava l’occhio ad un’altra figura emblematica, vale a dire il “perdigiorno”, e cos’altro c’era di meglio che passare in rassegna tanti paesaggi scrutandoli fin nei loro più intimi segreti?

Acchiappafarfalle e perdigiorno erano, a ben vedere, due condizioni dello spirito, le uniche che consentivano di tenere a bada la vita. Per la prima divagazione da “acchiappafarfalle” si sarebbe potuto avere in mano quello strumento ma soltanto come un oggetto antico e prezioso, senza mai usarlo.

Le farfalle a “Rive”, le donne tutte prese in un’opera che non avrebbe meritato soltanto i complimenti ma un abbraccio d’un paio d’ore. Oggi si potrebbe ben definire “lavoro usurante”. E mi chiedevo se poi a casa vi era qualcuno che dedicava ad esse una qualche affettuosità. Le rivedo, m’appaiono di nuovo i loro volti ma la fatica che esse mettevano in quell’opera e che io osservavo in diretta fa sì che io narri la loro presenza e dedizione senza citare i nomi. Le vedrei nuovamente in immagini di fatica e non è il caso. Ripenso al loro stendere i panni sui macchioni di lato al fiume e dopo, nel tardo pomeriggio, riprenderli, piegarli per bene e quindi con la tavola in testa incamminarsi per quella salita che aveva fine alla casa di Cristina Longa. Da quel punto avrebbero preso la strada di casa.

Tutte le donne di Assergi si potevano riassumere in quella fatica: anche chi non si recava con scadenze precise al fiume risultava comunque presente in quell’affresco di sforzi e d’impegno. La differenza era che s’affaticavano in altri luoghi e in maniera diversa: la vita era quella ma finché nell’arca c’era il pane, si sopportava tutto.

Il poeta Guido Gozzano non portò a termine la sua ultima opera, un poemetto dedicato alle farfalle, intitolato Le farfalle. Epistole entomologiche, e gli dedicò anche un documentario La vita delle farfalle.  “Raccolgo farfalle. Medito un volume su queste creature”, scrive all’amico Giulio De Frenzi il 15 giugno 1909.

Fragile come quelle esistenze colorate che tanto amò, il poeta morì a trentadue anni e otto mesi. La Poesia raccoglie nella sua essenza tutti i sentimenti umani, dalla felicità allo stupore, dalla gioiosa meraviglia fino al dolore. Ogni istante è magico per la Poesia ed ogni attimo per lei è buono nell’illusione di chiudere l’Universo anche solo con un verso.

 E già ai suoi esordi poetici con la raccolta La via del rifugio, Gozzano aveva scritto:

Ma dunque esisto! O strano!

vive tra il Tutto e il Niente

questa cosa vivente

detta guidogozzano.



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