SAN MARTINO - GIOSUÈ CARDUCCI: POETA DELLA VITA

GIOSUÈ CARDUCCI: POETA DELLA VITA

 

- di Giuseppe Lalli -

 

 

«La nebbia a gl’irti colli

piovigginando sale,

e sotto il maestrale

urla e biancheggia il mar;

 

ma per le vie del borgo

dal ribollir de’ tini

va l’aspro odor dei vini

l’anime a rallegrar.

 

Gira su’ ceppi accesi

lo spiedo scoppiettando:

sta il cacciator fischiando

sull’uscio a rimirar

 

tra le rossastre nubi,

stormi d’uccelli neri,

com’esuli pensieri,

nel vespero migrar

 

(G. Carducci, 1883)

 

   

Quelli che precedono sono i versi di una breve poesia di Giosuè Carducci (Valdicastello, 1835 - Bologna, 1907) intitolata San Martino, versi che nel secolo scorso generazioni di bambini italiani hanno imparato a memoria negli anni delle scuole elementari.

Trasuda da queste strofe un’atmosfera di dolce malinconia. Le parole sono altrettante pennellate di colori tenui, come in un quadro impressionista. Suoni, odori e sapori della vita semplice, paesana, come ce la raccontavano i nostri nonni e come l’abbiamo in parte respirata anche noi, ci sorprendono ad ogni riga.

Giosuè Carducci fu tante cose (scrittore, professore universitario, studioso erudito, politico), ma fu innanzitutto poeta della vita.

L’ «aspro odor dei vini» è la nota dominante di tutta la piccola lirica, è il motivo musicale che attraversa lo spazio e il tempo e si para davanti ai nostri sensi a rievocarci i profumi dell’infanzia, insieme all’aria frizzante dei pomeriggi autunnali riscaldati dai «ceppi accesi» su cui girava «lo spiedo scoppiettando». 

L «’aspro odor dei vini» che si effonde «per le vie del borgo», per chi come lo scrivente ha assistito al tramonto di un’epoca, ha la stessa funzione che per Marcel Proust (1871-1922) aveva il profumo dell’acqua di colonia nella casa di campagna della nonna: un profluvio di ricordi che avvolge l’anima, uno stato di grazia che si pensava non si potesse rivivere.

Analogo sentimento si prova in altre liriche ispirate al poeta dal paesaggio  che fece da cornice alla sua infanzia e alla sua prima giovinezza, quello dellacampagna toscana della Versilia, prima, e quello della Maremma dopo: immagini e ricordi dai quali il Carducci maturo, disilluso dalla politica e provato dal dolore (si pensi a Pianto antico, scritto nel 1871 a poco tempo dalla morte del suo figlioletto), trae forza e coraggio.

Ed ecco l’immagine rassicurante dei campi arati, che insieme alla fatica e al sudore dei contadini assume nel suo verso un che di sacro: «T’amo, o pio bove;  e mite un sentimento di vigore e di pace al cuor m’infondi...(Il bove, 1872).

Ed ecco, in Traversando la Maremma toscana (1885), «le nebbie sfumanti e il verde piano ridente ne le piogge mattutine» di quelle colline familiari la cui vista infonde pace al cuore del poeta che, già avanti negli anni, le accarezza con lo sguardo trasognato e commosso (« con gli occhi incerti tra ‘l sorriso e il pianto ») da dietro il vetro del treno che da Bologna lo porta a Roma. 

E che dire della freschezza e vivacità di colori, non disgiunte da una sottile leopardiana vena di rimpianto, che caratterizza un poesia come Idillio maremmano (1872) ? Qui il ricordo della “bionda Maria” (giovane donna conosciuta veramente e che si duole di non aver sposato) che incede tra i solchi in tutta l’opulenza delle sue forme giunoniche, è un gioioso inno alla vita e alla fecondità. L’immagine di questa ragazza, resa dal poeta così plastica, così viva, così desiderabile, parla ai sensi prima ancora che al cuore.

E così, dopo aver rimarcato con carnale trasporto

 

«...ché il fianco baldanzoso e il restìo

seno ai freni del vel promettean troppa

gioia d’amplessi al marital  desìo »,

 

con pari ardore di passione, ma con più pacato accento lirico, il poeta prosegue:

 

«Com’eri bella, o giovinetta, quando

tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi

un tuo serto di fiori in man recando,

 

alta e ridente, e sotto i cigli vivi

di selvatico fuoco lampeggiante

grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!»

 

Ed ecco infine in Davanti a San Guido (1874) il poeta che, già celebre e provato dalla vita, ritornando nei luoghi che lo videro bambino e rivedendo con occhi pieni di nostalgia «I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar, quasi in corsa giganti giovinetti...», rimpiange la vita semplice che le immagini della natura gli evocano, e si duole con sé stesso per l’impossibilità di recuperare il tempo perduto.

È questo Carducci intimo e luminoso, romantico suo malgrado, che più ci attrae, al di là di quella scorza burbera di vecchio cinghiale maremmano che la sua immagine a prima vista ci trasmette. È il poeta della piccola patria dell’infanzia - la Versilia e la Maremma, come si diceva - che in lui non è mai angusto campanile, ma sempre premessa alla patria più grande, a quell’Italia che egli amò forsennatamente.

La poesia dell’autore delle Odi Barbare (1877) fu la colonna sonora di quell’età di fine Ottocento, l’Italia “umbertina”, come suol definirsi dagli storici, un’Italia che oggi ci appare operosa e un po’ triste, pedagogica e decadente, moralista e anticlericale, e che tanta parte ebbe, in ogni caso, nella formazione di una coscienza nazionale.

Carducci fu uomo generoso con la vita, che pure gli riservò sofferenze, delusioni, gioie e angosce, come riserva a tutti, poeti e non poeti (si soffre tutti alla stessa maniera, chi più in alto, chi più in basso…).

In lui l’amore per la vita e per l’azione (si sa che fu posseduto dal dèmone della politica oltre che da quello della letteratura) non venne mai meno, né mai si abbandonò all’estetismo fine a sé stesso di tanti scrittori tardo-romantici o al paralizzante intimismo dei poeti decadenti, convinto che l’arte, anche quando è sublime, non può essere un modo per leccarsi le proprie ferite, e la  vita si cura con la vita stessa. La sua stessa erudizione aveva come fine ultimo quello di affinare lo strumento della sua creatività artistica, chiamata, a sua volta, a incidere sulla realtà.

Poeta della vita, dunque, il Carducci, che ci commuove e ci incoraggia pur con le sue contraddizioni e le sue umane fragilità, come quando, Alla stazione in una mattina d’autunno (1875), accompagna la donna amata (un rapporto sentimentale clandestino...) e, assistendo alla sua partenza, con la pioggia che sbatte sui vetri della locomotiva, ha l’impressione che tutto intorno l’atmosfera assuma i colori cupi e plumbei del suo stato d’animo, mentre il treno, definito « empio mostro », gli porta via, insieme alla donna, « gl’istanti gioiti e i ricordi ».

Alla luce di questa convulsa vitalità (si ricordano le sue mangiate pantagrueliche e le sue bevute generose) va forse letto anche il suo trasformismo politico. È noto che il futuro premio Nobel per la letteratura rivide molte delle sue giovanili posizioni: da giacobino che era stato divenne conservatore, se non reazionario; e da battagliero repubblicano si fece paladino della monarchia sabauda (celebre è rimasta una sua ode alla regina Margherita, vibrante di...regale passione). 

Non ci è dato di sapere se mutò la sua visione anche in tema di religione (chi può indagare tra le pieghe di un’anima?). Si sa tuttavia che all’approssimarsi della vecchiaia egli, che in gioventù era stato autore di un Inno a Satana (1863), compose una commossa preghiera alla Madonna:

 

« Ave Maria ! Quando sull’aure corre

l’umil saluto, i piccioli mortali

scovrono il capo, curvano la fronte

Dante ed Aroldo.

 

Una di flauti lenta melodia

passa invisibil fra la terra e il cielo:

spiriti forse che furon, che sono

e che saranno?

 

Un oblio lene de la faticosa

vita, un pensoso sospirar quïete,

una soave volontà di pianto

l’anime invade.

 

Taccion le fiere e gli uomini e le

cose,

roseo ’l tramonto ne l’azzurro sfuma,

mormoran gli alti vertici ondeggianti

Ave Maria.»



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