VIA VENETO - LA DOLCE VITA VISTA DA GIUSEPPE MOSCA

VIA VENETO, LA “DOLCE VITA” VISTA DA GIUSEPPE MOSCA

 

 - di Fernando Acitelli -

 

Via Veneto prevede nella sua parte terminale, in alto, poco prima di Porta Pinciana, il “Grande Hotel Flora”. S’avverte ancora un sentore dannunziano a transitare là davanti e si possono scorgere degli affusolati levrieri, pensierosi e silenti come dei filosofi. Riescono nel loro intento di adornare l’entrata ed il loro cuore è a vista sotto l’esile costato. È una loro distinzione quel cuore così visibile: romantici per devozione. Appartengono probabilmente a qualche viaggiatore inglese stabilitosi a Roma e che si muove con intenti da dandy per il quartiere Pinciano-Ludovisi ed il suo volto è un’esplosione di Romanticismo inglese da un punto di vista pittorico, da John Constable a William Powell Frith. Si arriva a cogliere serenità già col finire in un simile sguardo ricamato da chioma riccioluta e vaporose basette, dette anche “favoriti”. E insomma, sembra uno di quegli uomini che si vedono, che si respirano attraversando i romanzi di Jane Austen, da “Orgoglio e pregiudizio” a “Emma”. Figure a buona distanza dal tempo presente come mi riesce di comporre. A dir bene, la visionarietà è un buon antidoto nei confronti di giorni tutti uguali, delineati da continui richiami economici e da idealità acriliche; giorni che non svelano altro se non agguati. Giunti a quel punto di via Veneto in alto, si sente l’odore inimitabile, evocatore d’immagini, di Villa Borghese. E quelle ondulazioni di verde consentono anche all’animo più inquieto di rasserenarsi. Infatti già con il passeggio i tumulti interiori si placano. E lì si solleva di nuovo un romanticismo a portata di mano.

Tutto questo multicolore affresco è doveroso per ben collocare Giuseppe Mosca, il marito di Filomena Vitocco, gran lavoratore e persona bene eretta nella vita. Egli lavorò proprio al “Grand Hotel Flora” e fu spettatore attento di quella scena tutta romana che fu chiamata la “Dolce vita”. Insomma, l’apoteosi di via Veneto e il faro del mondo su quel ritaglio di Roma.

Peppe si distinse in tutte le mansioni in quell’Hotel, dal transitare in cucina, al procedere nei saloni scintillanti, per passare quindi alle camere; dunque, se dovessimo riassumere la sua vita, potremmo tranquillamente parlare di lui come d’un vero lavoratore.

La Hollywood cinematografica s’era trasferita a Roma, a Cinecittà, e si vide Charlton Heston nell’Urbe per girare il colossal “Ben Hur”; quindi Richard Burton con Elizabeth Taylor per l’altro colossal “Cleopatra”. Era facile avvistare i divi anche appena sortendo dalla porta girevole d’un hotel (metafora della vita l’entrare e l’uscire) oppure occhieggiando da una delle innumerevoli finestre. Peppe, dunque, vide la storia passare dinanzi a lui e seppe molto della cosiddetta “dolce vita”, che non era soltanto un film ma anche una stagione irripetibile. A parte i racconti in cui si distinse nei quali emergeva il ricordo di quella stagione, mi piace immaginarlo sfilante per via Veneto, magari in una pausa di lavoro, o recandosi a recuperare la macchina parcheggiata al mattino. In questo modo gli riusciva di vedere attori, dive e registi seduti ai bar  “Cafè de Paris” e “Doney”, locali che divennero i veri salotti sulla strada nei primi anni Sessanta. Riesco anche a sognare Peppe in quell’attitudine d’occhieggiare sul quel mondo colorato, profumato, vaporoso; non si tratta d’un affare impegnativo, ho la mente allenata per ricreare simili atmosfere. Dunque: la sua macchina che discende per via Veneto è come un carrello d’una troupe cinematografica, scende per la strada fattasi mitica già nei momenti di quell’improvviso accadere. E i protagonisti del jet set li vede seduti o sfilanti in conversazione e, se non li conosce tutti, allo stesso modo sa che si tratta di figure importanti e questo già per il modo in cui sono abbigliati, per come emanano fragranze anche da lontano. Fragranze che si colgono, che inebriano.

 Parlai spesso con Peppe, le conversazioni d’estate accadevano con frequenza abitando lui e Filomena a breve distanza dalla casa dei miei nonni alla Piazzetta del Forno. La sua casa era poco dopo “Ciu Ciu”, ovvero Giuseppina Napoleone, ed il negozio di Vincenzo Valeri. Sempre sorridente, era un piacere ascoltarlo, mi raccontava sempre della bellezza di Roma nei primissimi anni Sessanta. Quando ricomponeva quegli scenari il suo sguardo si illuminava. La spensieratezza di quegli anni lontani non era riferibile soltanto alla sua giovane età (all’epoca) ma era soprattutto una questione riconducibile alla gente che non era soltanto quella che sfilava in su e in giù per via Veneto – tra dive vere e divette in bella mostra, attori fatali e mezze tacche ma sempre lucenti ad imitare questo o quel personaggio – no, via Veneto non era soltanto questa effervescenza colorita, apparentemente spensierata e tutta in tiro ma molto di più e l’aria che si respirava era quella della speranza ed il cinema aiutava a far decollare desideri e sogni. Tra le sue gemme l’aver incrociato Federico Fellini, seduto ad un tavolo del Cafè de Paris… Era rimasto a guardarlo, estasiato, come un bambino davanti alle giostre: avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui.

Tanti i personaggi che aveva poi ammirato occhieggiando da fuori l’Hotel: sfilavano là davanti e poi attraversavano la strada per raggiungere l’Harris Bar, altro ritrovo fenomenale per attori e dive di caratura mondiale, sul tipo, anche, di Ava Gardner. Non s’imbatté in quella creatura bellissima ma mi riferì del racconto che gli aveva fatto un suo collega, lì, al “Grand Hotel Flora”. Costui gli aveva anche raccontato d’aver visto la diva americana passeggiare con Walter Chiari.

L’importante, nel racconto, era che Peppe avesse respirato il clima di quella stagione, che “fosse passato su quei marciapiedi”. Erano tutti eventi di cinema, di letteratura, con Flaiano, Moravia, Ercole Patti – l’autore del romanzo Un amore a Roma – e il poeta Vincenzo Cardarelli. Il fatto stesso di attraversare via Veneto, sostare dinanzi all’Hotel Excelsior – là davanti una scena memorabile del film “La dolce vita” con Marcello Mastroianni e Anita Ekberg – faceva sì che anche semplici passanti, curiosi, divette con qualche speranza in cuore, fossero compresi nel grande palcoscenico del cinema che andava allestendosi ogni giorno. E la vita di colpo migliorava proprio grazie al sogno.

 Accanto a questo sublime, da ricordare è anche il sorriso di Peppe, il suo apparire sempre lucente, ordinato, in camicia bianca a maniche corte d’estate e, a fine agosto, con giubbino avana con la lampo sul davanti. E inoltre quell’odore di dopobarba che era un po’ il tratto finale, il tocco espressivo del suo nitore d’animo. Avendo sempre qualcosa di utile da fare, ecco che esponeva il luogo che avrebbe dovuto raggiungere e lo faceva sempre accordando linearità e armonia al suo eloquio. Mi ricordo inoltre come la sua traiettoria Roma®Assergi e ritorno, non prevedesse l’autostrada ma la sublime strada consolare Salaria con lo spettacolo del paesaggio da “Sella di Corno” ad Antrodoco a Cittaducale. E cos’era quella scelta se non l’ennesima sua distinzione?

Uno scorcio del cuore di Peppe restituito con appena qualche ricordo della sua stagione a via Veneto e anche con quelle esilità buone che seppe donarmi. Anche con poco si può comporre un mosaico. Importante che io abbia conservato simili schegge di sublime, almeno qualcuno ha continuato a sussurrare il suo nome.


 



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