ASSERGI, IL FREDDO E LE SUE CONSEGUENZE POETICHE

ASSERGI, IL FREDDO E LE SUE CONSEGUENZE POETICHE

 

- di Fernando Acitelli -

 

                                                La vita ispira più paura della

                                                 morte: è lei il grande ignoto.

                                                 Emil Cioran

        Nei lunghi silenzi d’inverno era uno spettacolo percorrere, di pomeriggio, la “Strada Ritta”. Era però richiesto lo stare da soli, dunque contare soltanto sulla propria ombra e sulle riflessioni a cascata, le quali, con il freddo, erano più nitide proprio perché modificate in meglio dall’evento atmosferico che era, lo ricordiamo, “freddo con tendenza al gelo”.

        Essere soli significava poter affilare il pensiero, penetrare le cose, poter valutare adeguatamente un anonimo colpo di tosse da una finestra in alto, proveniente magari dalla casa di Carlo Massimi o dal dirimpettaio Vincenzo Acitelli, oppure più giù, dall’arrampicata Maria Spennati, la dolce “Marchetta” che occhieggiava soprattutto su chi non c’era più ma la cui anima resisteva in un “ovunque” imprecisato. La sorella Francesca ascoltava, seduta sulla sponda del letto. In quel modo Maria Spennati assurgeva al ruolo di “scrutatore d’anime” e il suo sussurrare lieve era già di per sé un evento spettacolare. In quei momenti era necessario un verbo di quiete, il “sussurrare” appunto, per potersi inoltrare nel discorso degli assenti che si sarebbero comunque rivisti. Non si parla degli assenti, si sussurra il loro nome, l’importante è “avvistare” nell’aria un ovale con dentro il volto della persona cara che s’è allontanata.

        Era meravigliosa quella ricognizione su chi non era più di questo mondo e non era evento raro sentire Maria sospirare: «Addì mi’» oppure «Crist mi’care care care». Se i miei occhi si fossero incrociati con quelli della sempre vispa Maria Spennati, una delle Marchette, “rencriccata” sul davanzale barocco della sua finestra, sarei stato felicissimo e quel suo saluto: «Bona sera, Fernà!...» sarebbe equivalso ad una carezza sul cuore. Per lei tutto quanto accadeva dopo mezzogiorno, “misiorn”, era sera. Quel suo saluto pur se di cuore nei miei confronti, avrebbe comunque lacerato quel silenzio fortificante che andavo cercando.

        E lo stesso avrebbe fatto Angela Maria Pace, la madre di Giulio, che se  m’avesse visto da dietro un uscio, là, nella casa dei Valentini, sarebbe di sicuro uscita fuori per salutarmi perché così gentile e sempre sorridente. Inoltre quel suo apparire avrebbe recato con sé un’altra preziosità: doveva lasciare a me i suoi saluti per mia madre: dovevano essere state amiche da ragazze: Angela Maria del 1922, mia madre Domenica del 1925. Da questo comportamento si vedeva la profondità d’animo di Angela Maria. Ed era anche quello un accadimento per rincuorarmi.

        Quello che c’era di notevole in quella camminata solitaria era constatare il benessere degli altri già da un volto dietro un vetro o anche vedere il camino spippacchiare nell’aria. In quel mio procedere verso la Piazza ero a chiedermi: «Di che tipo può essere un aggiornamento sulla vita per una persona con un piede nella vecchiaia, oppure, a dir meglio, cioè più elegantemente, con un piede ben oltre l’età di mezzo?». La risposta me la tenevo stretta ripetendomi che l’importante era che avessi visto alcune persone dietro ai vetri o sortire sul balcone. Ciò significava che c’era quiete in quelle case, cioè si navigava nella salute. Si stava osservando il gelo, fuori, per contrastarlo più efficacemente già col pensiero e poi, magari, con una maglia in più gironzolando per casa e con più coperte sul letto durante la notte.

        La strina lucidava i coppi con la sua foga d’un trasparente metallico e rasava il muschio, che resisteva eroico. Proprio il muschio si sarebbe rinsecchito con il sole e la calura di luglio, sbriciolandosi qua e là. Ma la strina finiva col fortificare, sui coppi e sui muri, quelle composizioni di muschio dove ancora trionfava il verde, aggrappato alla vita: anche il muschio s’aggrappava alla vita. Le crepe sui muri, con il muschio come cornice, parevano meno gravi. Era vero: una lesione severa su un muro non pareva in fin di vita.

        Ma tutti questi ragionamenti interiori potevano accadere soltanto se si era un camminatore solitario, altrimenti, qualora si fosse stati in compagnia, ci sarebbe stato certamente un frastuono di risate anche per un nonnulla e tutto sarebbe svanito. Lo stare insieme, si sa, prevede degli effetti collaterali.

        Era bello intirizzirsi, era come superare delle prove, verificare la tenuta del corpo e valutare come la mia mente componesse dei pensieri in tempo di temperatura rigida. Ma pensavo tutto questo sull’integrità del corpo (dei corpi) perché s’era in inverno? Ma d’estate avrei composto le stesse riflessioni? Una cosa era certa: con il sole a picco e le lucertole in libera uscita e in bella mostra sui muri sarei stato più sereno e con lo sguardo tendente al sorriso.

        In che modo, dunque, cambiava l’ispirazione e il palpito vitale con il freddo? L’irruzione della poesia in tutto questo, e proprio negli istanti del mio perlustrare il giorno mi tornavano in mente alcuni versi del poeta Eugenio Montale: “L’angosciante questione se sia a freddo o a caldo l’ispirazione non appartiene alla scienza termica (…)”.

        Dunque lo studio del silenzio, l’avanzare nel gelo, l’apprendere (il sognare!) che dietro i vetri tutti fossero in buona salute poteva accadere per me soprattutto in un gennaio spettacolare dal punto di vista del grande freddo e non si trattava solamente d’un gelo fisico ma interiore, da scheggiare l’anima. Le immagini intense, affilate, potevano comporsi anche con il gran caldo nell’affresco luglio-agosto ma esisteva il “problema” della gente, evento non trascurabile. Lo ripeto: da solitario e con poche anime in strada (la speranza era di non incontrare nessuno), si faceva estrema la lucidità del pensiero, si sussurrava in cuore l’esilità della vita, si perlustrava in un modo diagnostico (ma lirico!) ogni cantuccio del mondo rappresentato davanti.

        Tutto questo m’accadeva in quel mese profetico che è gennaio. E m’inchinai sempre davanti alla solitudine, quella condizione che consente in certi momenti di valutare il perché si è quaggiù e in che modo noi si debba andare incontro al divenire, ai paesaggi (anche interiori) che mutano ad ogni istante.

Commento di Giulio Valentini


"Leggo sempre volentieri le riflessioni del Caro Nando sui ricordi Assergesi della sua gioventù, dove vengono rievocati i personaggi storici di un'epoca irripetibile che ormai è rimasta solo nella mente di chi ha avuto la fortuna di viverla. Questa volta mi fà paticolarmente piacere perchè vengono menzionati i miei genitori, e nella foto di presentazione ci sono io e mio padre immortalati nei primi anni 70 durante la falciatura in località Santa Maria, una foto che ci fù scattata da alcuni giovani escursionisti ed è l'unica foto che ho insieme al mio genitore.. In quegli anni per la povera gente non c'erano le comodità di oggi, ma c'erano socialità e rispetto, due pregi umani in via di estinzione......."

 



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