ASSERGI, “TOMASSONE” E ALTRI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

“TOMASSONE” E ALTRI PERSONAGGI

IN CERCA D’AUTORE

- di Fernando Acitelli -

 

Sull’orto dei Brardella, alla fonte Acona, si potrebbe scrivere un racconto intenso. Quella famiglia lo acquistò da un certo Tomassone assieme alla casa dove visse Franco Mosca e sua moglie Linda, della famiglia, appunto, dei Brardella. E lì tutti i figli, Peppe, Berardino, Domenica, Giacinta e Palmira. Questa casa è situata in una strada sulla destra della “Strada Ritta”, poco prima della Piazza. Per distinguere bene il luogo, si può dire che tale casa sta di fronte all’abitazione di Giuseppina, detta amorevolmente la “Biancona”, sulla quale il mio ricordo è sempre intenso. Mi pare di ricordare che quell’appellativo era anche per un suo parente dal nome Antonio. Era forse suo padre? Forse suo fratello? Dovrei fare delle ricerche, chiedere, ma chi ascolterebbe questo mio tentativo di chiarezza anche su una figura anonima? Comunque era per tutti Antonio “Biancone”, ed è probabile che c’entrasse un poco la capigliatura. E comunque, anche la sua anima dovrà gironzolare da qualche parte.

Ebbene, di fronte a questa casa, proprio all’inizio del vicolo dei Poiana, c’era la casa di quest’uomo, identificato come Tomassone. Quella casa che costui vendette agli Brardella era di rilievo, come pure di rilievo era l’orto di cui s’è detto poco sopra, del quale uno dei confini, verso la strada, era decretato dal muro della fontana della fonte Acona. Un orto rigoglioso, splendente, ricco, un vero ricamo della natura, agevolato nel suo compiersi anche dalla presenza ravvicinata, appunto, della fontana.

Chi fosse questo Tomassone non è dato sapere, dobbiamo sognarne il volto. Immagino il suo viso a similitudine, forse, d’un sott’ufficiale borbonico; per quanto riguarda il fisico, doveva essere imponente vista la dilatazione che ebbe il suo nome. Per sentire quel volto ancora accanto non vi sono né fotografie ingiallite riferibili magari agli anni ’30. Si può dire così: ogni casa è stata restaurata e i cassetti del mobilio svuotati a suo tempo. Dunque, di eventuali reperti, nulla. Possiamo contare soltanto sul sogno che a volte è più fortificante d’una preghiera.

A proposito dell’identità di Tomassone, lo conosciamo soltanto come antico proprietario dei siti di cui s’è fatto appena cenno: una casa e un orto, come dire, un benestante per l’epoca. Una casa nelle vicinanze della chiesa e poi un orto che aveva il suo dono più grande nella fonte con la quale confinava.

Da non confondere, comunque, il significato della parola “benestante” per quell’epoca con quello che ha oggi. A quel tempo essere un benestante significava avere una discreta sicurezza, in termini semplici “vitto e alloggio” sicuri e poi dei giorni da vivere in un modo abbastanza tranquillo, sempre temendo gli agguati che poteva riservare la vita. Oggi il termine “benestante” risulta un contenitore dove ci si può far entrare tutto. Nell’universo della parola “benestante” ci possono confluire tante figure anche sbilenche d’animo e dunque possono essere innumerevoli le rappresentazioni, come dire la “Commedia Umana” al sommo. In più, oggi, il cosiddetto benestante può di colpo retrocedere in basso vista la fluidità delle classi – l’inesistenza ormai delle classi, verso un livellamento voluto e realizzato - e la volontà di potenza che affligge l’essere umano.  In altre parole ogni “benestante” può oggi finire male perché l’esibizione ad oltranza e il desiderio di “entrare in orbita” fa deragliare prima la testa e poi dissolvere gli averi. Una volta tutto aveva un valore, con un significato per lo più d’ordine morale e non solo economico. Ed è così che tutto si smarrisce, e con il cappottamento si dimenticano anche gli affetti che sono visti come un peso ulteriore dopo il default personale.

Oggi “vitto e alloggio” risulta una sintesi sociologica, da graduatoria per la casa, ed è compresa nel grande affresco del cosiddetto “stato sociale”. Se penso all’epoca di Tomassone mi riesce più facile spostarlo al tempo, magari, dell’Ancien Régime, che non nella nostra sempre più oppressiva contemporaneità. Dunque Tomassone è per me più vicino all’epoca di Luigi XIV, il Re Sole, che non al tempo dei sindacati, della scala mobile (abolita), della concertazione e delle detrazioni. Tomassone  rappresenta uno degli anonimi della Storia, uno di quegli uomini che, preso come individualità, decreta l’Universale.

Quale dolore avverto nel non poter vedere quel nome su una croce, magari storta e arrugginita al cimitero e apprenderne così la data di nascita e di morte. Almeno sapere il cognome, dilettarsi con esso, osare dei riferimenti (una parentela) con altre famiglie siglate con lo stesso cognome. Ecco, si potrebbe partire da lì ma senza quel dato significativo del cognome si rimane nello sconfinato latifondo del sogno dove tutto si può realizzare sia perché è gratis e inoltre perché del sogno è responsabile soltanto colui che lo compone non soltanto durante il sonno ma anche ad occhi aperti, semplicemente procedendo sulla strada senza sentire urgenze, scadenze, ubbidienze.

Il parlare di Tomassone conduce ad esporre brevemente qualcosa circa la famiglia dei Brardella. Innanzitutto ricordare dove era situato il pagliaio, almeno il loro più significativo. Esso stava dopo la bottega di mio zio Antonio, procedendo in salita. Precisamente: dopo questa bottega ce n’era un’altra, sempre chiusa, appartenuta a Nandino Giusti, figlio di Cristoforo Giusti e Maria Alfonsina Mastracci. Nandino era cugino di primo grado di mio zio Antonio ed era emigrato in America. Dunque, il primo ambiente che c’era dopo tale bottega era il pagliaio dei Brardella. Si trattava d’uno spazio custodito, tenuto in ordine, quasi un ambiente ulteriore della loro casa.

Mia madre mi ha raccontato che il modo di agire dei Brardella era molto bello con tutti i componenti della famiglia che si destavano molto presto (nelle stagioni favorevoli) e se gli uomini si recavano nei campi le donne attendevano alle faccende in questo pagliaio e preparavano il pranzo. Lì avevano di tutto per poter assolvere a tali compiti. Avendo gli uomini iniziato a faticare molto presto, quel loro fare risultava prezioso e come il sole era a picco ecco che li si vedeva tornare in paese e trovare sollievo e ristoro appunto in quel pagliaio di cui s’è appena detto. Lì giunti, gli uomini avevano la possibilità di sciacquarsi, rinfrescarsi e attendere il pranzo. Mia madre mi aveva svelato tutti i nomi delle donne e degli uomini di quella famiglia e avrei dovuto appuntarli su un taccuino ma rimanevo incantato davanti a quelle narrazioni e l’atto del trascrivere m’avrebbe distolto dalla voce di mia madre, dal suo animo.

 Dunque, per quella famiglia si trattava d’uno stare sempre insieme, stringere ancora di più quel sentimento famigliare che in quel luogo si fortificava ancora di più. E c’era una gioia nello sguardo di quelle donne e accudendo i propri famigliari di ritorno dai campi sembrava che operassero nel bene con maggiore intensità. Quegli uomini dunque erano nel fresco di quell’ambiente ed il raccontare del lavoro svolto e su quello che c’era ancora da fare dava speranza ed il sorriso era soprattutto nel loro animo.

Quando mia nonna Maria, di ritorno dal pagliaio passava là davanti, subito veniva intercettata dai Brardella e invitata ad entrare e mia nonna si fermava per un po’, dedicava loro un ringraziamento per le affettuosità ricevute e nello stesso tempo ammirava il legame di quella famiglia, l’operosità, come agivano bene (“come agiane bone”).

Nella bella stagione, cioè nel tempo che la terra reclamava la presenza di braccia, quel pagliaio dei Brardella (ma bisognerebbe definirlo con un altro nome, mi viene in mente “posto di ristoro a conduzione famigliare”) era qualcosa di vivo, espressivo, pulsante, un vero affresco di sentimenti. Quanto all’orto dietro la fontana all’Acona lo si curava non soltanto per i frutti che esso donava ma anche per una forma di rispetto nei confronti della Natura. Era un vero ritaglio splendido del mondo in quel punto.

 



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