ASSERGI, TEMPORALE DI FINE AGOSTO - di Fernando Acitelli

ASSERGI, TEMPORALE DI FINE AGOSTO

- di Fernando Acitelli -

 

        Temporale d’agosto e poi il sereno. Ma squarci d’azzurro attenuavano l’irrompere del tramonto. A muoversi verso la valle oppure nei ritagli di verde attorno ai pagliai si sentiva l’odore meraviglioso dell’erba bagnata e non si voleva tornare a casa perché si desiderava vedere la natura sotto un altro aspetto e poi valutare in che modo quel temporale potesse aver lesionato le porte antiche di pagliai e orti, e se si potevano dire in salvo le galline. Chissà cosa avevano pensato le galline nella loro corte stringendosi, dandosi coraggio con il gallo che sfilava comunque da parata perché a ragione di quel suo piumaggio con tutte le sfumature del rosso non poteva, uno come lui, impressionarsi per un temporale. Sfilava nella corte come un ufficiale borbonico e le sue movenze erano veramente da graduato con luccichio di alamari e il passo rigido ed elegante. Al solo suo sfilare le galline s’intimorivano rifugiandosi in sopraelevati rifugi là dove in tempi di quiete fetavano. Inoltre era proprio il gallo il custode ed il gendarme di quella corte.  

        Gli animali più grandi s’impaurivano di meno, gli asini ad esempio, si potevano al massimo distinguere in qualche movimento delle zampe ma questo per lo più di giorno, a causa dei mosconi ronzanti. Con l’evento della pioggia le mosche si dileguavano trovando rifugio in locande alla buona e continuando ad essere “senza fissa dimora”. La coda dell’asino non si fermava mai, pareva il moto d’un pendolo: anche di notte sempre la stessa storia. E in quella mia perlustrazione post temporale speravo sempre di vedere gli asini distesi in terra, “sogliati”, di modo che potessi sognarli bene a riposo per l’incombente notte, in un sonno ristoratore come accadeva a me nel letto dei miei nonni. I maiali nel loro “sgabuzzino” grufolavano con stile, sollevando sempre la stessa melodia. Forse non s’erano accorti del temporale. Ma di lì a poco sarebbe giunto il pasto serale e si sarebbero un poco quietati. Le cibarie sarebbero state confinate nel grosso contenitore definito “U regne”.

        «Acci!» - ripetevano donne e uomini mantenendo l’equilibrio in quella loro attitudine d’accudire il maiale, per farlo un po’ scansare tanta era la foga che metteva nel gettarsi nel contenuto della gamela. 

        Questi erano dei miei vissuti da fanciullo dell’estate precedente e che servivano per il ricordo; ma in quei momenti dovevo occuparmi del tempo post temporale e dell’erba bagnata con tutte le sue fragranze. Per l’improvviso freddo calato su Assergi a causa del temporale dovevo indossare la maglia, e questa era di lana grigio-chiara con il colletto tondo (deve essere ancora in vita, custodita a casa in un cantuccio memorabile dell’armadio). Il collo della camicia sbucava fuori distendendosi alla perfezione sulla lana della maglia.

        I sopralluoghi sulle porte dei pagliai e degli orti iniziavano subito ed era con paura che eseguivo quella diagnostica spicciola e le fessurazioni sul legno resistevano, certamente erano bagnate (vi penetravo temendo che i polpastrelli emettessero la diagnosi “di evidente assottigliarsi del legno”. Alcuni luoghi: la stalla con annesso pollaio di Antonio “Moscone”, il marito di Linda; la porta dell’orto delle Scangiglie, ovvero Maria e Francesca Spennati che stavano in Australia e il cui orto era situato subito dopo la casa di Domenico Acitelli; la porta dell’orto delle “Si Carlone”, ovvero Angela e Bettina; il pagliaio abbandonato degli eredi di Cristoforo Giusti e Marietta Mastracci, poco prima della fontana di San Antonio. E poi, a dirigermi verso su, incontravo il pagliaio di Vincenzo Acitelli e sua moglie Marietta dove stazionava, nelle giornate di sole, il cagnolino Nik, una sorta di volpino dal pelo color cognac.

        Si respirava uno scampato pericolo e ognuno amava la propria casa come una scoperta. Ma se non si vedevano tante persone in strada era anche un bene, una situazione favorevole insomma perché non ci si distraeva neppure con un semplice saluto. E dopo i sopralluoghi sulle porte e l’occhieggiare tra le fessure del legno ad osservare in che modo si facevano coraggio gli animali, m’accorgevo che queste azioni che compivo erano anche in alcune persone che se l’erano posto il problema del temporale con le ricadute su cose e animali, e infatti li sentivo mormorare: «Chissà come starrave, pori animalucci...». Ed erano quasi eroici quegli uomini e quelle donne ad uscire nella nuova situazione di freddo (non era soltanto l’aria che si era rinfrescata ma tutta la natura e anche le tane di lepri e volpi) e se quegli uomini, incrociandomi, mi salutavano, ciò significava che non era accaduto nulla di grave e che il temporale non aveva arrecato danni a pagliai e fienili e gli animali continuavano a farsi coraggio. Soltanto l’improvviso freddo era da valutare.

        «E mettete la mmaglia!» – s’udiva da una finestra. E a questo consiglio s’accompagnava un colpo di tosse da una stanza in alto e poi altri, a raffica, e dalla strada, addirittura, potevo ipotizzare su una mensola una piccola bottiglia di sciroppo GUAIACALCIUM e anche SENODIN-AN. Quasi degli idoli di riferimento per guarire. Si sollevava la mano fino al ripiano della mensola e si prendeva la “pozione magica”. A detta del medico la tosse sarebbe sparita. E malgrado fossi piccolo registravo ogni cosa, pure l’odore di sigaro e del fustagno ad un crocicchio con alcuni uomini fermi a parlare. E dal gilet di qualche vecchio si sarebbero trovati, nei taschini, dei residui di tabacco ed anche un bottone, reperti importantissimi già allora per ricostruire un’esistenza. Da tutto questo mi si chiariva dinanzi una biografia di quel vecchio uomo che avevo incrociato e che mi aveva sorriso. Il cinturino dei pantaloni non era impeccabile in quegli uomini ma non era nulla di inelegante e anzi amavo quel loro renderlo ancora efficiente anche saltando un foro.

        Proseguivo da solo ma non m’inoltravo verso fuori, giungendo all’inizio della discesa verso le Pernagnova e poi tornando sui miei passi. L’erba si poteva respirare anche in paese e finivo così in quell’ara nascosta dopo il vicolo dove in seguito avrebbe avuto la bottega di fabbro il valente ed operoso Antonio Acitelli. Se si superava quel punto del vicolo si giungeva in un’ara protetta e distinta nel silenzio. E tra i sassi lisci e un poco rialzati era cresciuta l’erba e dunque anche lì si poteva respirare l’odore di quel verde bagnato. Era bella quell’escursione in solitaria: non una voce accanto a distrarmi, concentrato soltanto su di me e sul destino umano. Il temporale aveva dato da pensare a molti, e sembrava l’ennesimo avvertimento della Natura agli uomini. Ero pettinato, elegante e pieno di pensieri e mi bastava quanto avevo visto per comporre interiormente dei piccoli affreschi di gioia e tristezza. Forse quel temporale era giunto per avvisarci che le vacanze erano finite.

 



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