CHECCO PACE, UN UOMO DA NON DIMENTICARE

CHECCO PACE, UN UOMO DA NON DIMENTICARE

- di Fernando Acitelli -

 

 

 

                    Bisogna rappresentare la vita non com’è
                    e non come deve essere, ma come ci appare
                    nei sogni.

                    Trepliov -  “Il gabbiano” di Anton Cechov

Checco visse in quiete, in disparte, stupendosi con leggerezza degli scenari della vita, e oltre questo nel suo sguardo si leggeva una lieve serenità ma dei suoi tumulti interiori nulla traspariva, si trattava d’una bontà in silenzio e ad ogni tramonto non si poteva evitare una riflessione su di lui, pensare come si sarebbe seduto per la cena ed in che modo si sarebbe inserito nel conversare in questioni importanti della famiglia. 

 

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Sarebbe da ricostruire tutta la sua esistenza, la sua certezza del Paradiso, il vivere al riparo da tutto, mai spostarsi dalla traiettoria ben conosciuta, vale a dire casa/pagliaio/bottega di mio nonno Lorenzo e di zio Antonio, sentirsi lì accolto, il sublime di venire ascoltato e che, dunque, si tenevano in gran conto le sue riflessioni, che anche per lui esisteva un’ idea di futuro e questo poteva essere anche il sentirsi in salute e vedere sorgere il sole. 

 

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Il fatto che la sua abitazione fosse dirimpetto alla chiesa, lo rassicurava, si trattava per lui d’un preannuncio di Paradiso, la salvezza proprio là davanti, e già il rintoccare delle campane spargeva attorno alla sua figura una lieve serenità, un modellare l’animo al bene anche se il paesaggio della vita aveva le sue miserie, le sue crudeltà, ma una lieve gioia di vivere sorgeva di mattina con il sole ad annunciarsi largo e la tazza di latte davanti, buongiorno! 

 

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Si sarebbe dovuto anche chiedergli dei suoi sogni notturni, “farseli raccontare” e subito prendere appunti sapendo che da essi egli avrebbe avuto un beneficio durante il sonno e il problema vero era vedere se si fosse ricordato di quei suoi scenari notturni, di quella sublime fase onirica o sospensione dalla vita e di quanto quei sogni miglioravano la sua esistenza, e notevoli sarebbero stati tutti i riferiti luoghi e proprio da essi si sarebbe potuto partire per una giusta ermeneutica. 

 

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Era un mondo originario, “primitivo”, quello di Checco, tutto era puro intorno e si trattava d’un paese che si difendeva dall’esterno grazie alle proprie mura, e il giorno aveva dei momenti precisi e ci si alzava presto per recarsi alla terra, oppure leggermente più tardi per spostarsi fino al pagliaio a governare l’asino, la vacca, i maiali e la corte delle galline, e poi si sarebbe anche istruita una discussione sulla lama d’una sarrecchia e tale dibattito poteva durare alcuni giorni.

 

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La casa era il ventre originario, la bontà d’una madre, il suo sorriso smarrito, il luogo sicuro contro gli agguati della vita ed era con simili pensieri che Checco s’alzava al mattino e operava al meglio delle sue possibilità e, affrontando la salita dietro la casa di Cristina Longa, di fronte a quella di Assunta di Dragone e procedendo sotto le scale dette “Cente Vizi”, giungeva  così, con passo incerto, fino alla Porta del Colle e poi via fino al pagliaio con tanti affreschi nella mente ed in essi anche lui poteva dire la sua, farsi sentire.

 

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Raccomandandosi sempre a Dio e a quelli di casa - come fossero Numi Tutelari - egli attraversava i giorni badando a comportarsi sempre bene, a non contraddire nessuno se non nei casi in cui i suoi atti potevano essere criticati da qualcuno ma i suoi luoghi erano per lo più il silenzio, la quiete interiore e poi un verbo sempre coniugato al passato, eccellendo egli nel tempo imperfetto e nel passato remoto perché più si retrocedeva negli anni e più si poteva stare tranquilli, vivere al sicuro rammemorando, e così era tutto un narrare i “begli tempi de prima” e di sera accanto al focolare tutto questo trionfava. 

 

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Da una fotografia di lui fanciullo si sarebbe potuto capire tutto di quegli anni, comprendere anche cosa pensava di Dio, della chiesa, dei  possedimenti, dei confini alle terre, della perizia e onestà di Franco Mosca, ovvero “Pirame”, e la sera in quella cucina - come in quasi tutte le cucine di Assergi - sembrava d’essere in un dipinto dell’olandese Adriaen van Ostade, cioè in un interno di contadini, lì il vero calore d’affetto e inoltre il focolare e poi lo scaldaletto, e Checco proprio in quel ritaglio di mondo dava il meglio di sé anche con la sua buona ingenuità. 

 

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Nei giorni di pioggia o durante le bufere di neve cercare il cantuccio più riposto della casa e lì rimanere fino a quando la natura non avesse placato le sue manifestazioni pericolose ma anche necessarie, e magari essere avvolto da una coperta e sentire il gelo della vita anche in quell’angolo protetto della casa e dare una voce, magari a sua madre o alla sorella Serafina chiedendo se quei fenomeni stessero diminuendo d’intensità e sperare che in breve sarebbero cessati e in quei momenti lasciarsi andare ad un balbettio di preghiere più che opportune, da gelida navata di chiesa. 

 

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La preoccupazione andava anche alla stalla ed erano momenti d’angoscia perché anche gli animali lì protetti avrebbero passato brutti istanti e c’era da pensare che erano gli scrosci di pioggia più che la neve a turbare l’asino, la vacca, i maiali, i conigli, e tutta la confraternita delle galline con il gallo/priore a confortare, esattamente questo perché la neve era un candido manto e neppure si sentiva il suo scendere ed imbiancare il paesaggio, per l’appunto, ma intanto Checco se ne stava rintanato e pensava meglio d’un filosofo. 

 

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Se ne stava in disparte ma le maglie di lana con sopra la giacca lo proteggevano ed egli  trasmetteva tepore ai famigliari con quegli indumenti, e sembrava un uomo in una pagina d’una rivista di moda fotografato in un “interno con camino” ed era perfetto e a colui che l’avvistava - forestiero dotato d’una estrema sensibilità - ecco che il primo riferimento sarebbe stato per una rivista, vero, e anche il paesaggio andava bene e se Checco poco poco si fosse accostato ad una finestra, lo si sarebbe titolato subito “Uomo-Collezione Autunno-Inverno 1971”.

 

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Era buono da sé Checco e in famiglia se ne accorgevano ma non potevano esternare quel sentimento, semplicemente lo accudivano, lo accarezzavano proprio come facevano con Checco il quale a tavola o accanto al focolare esponeva con forza tutto il suo sentire interiore e non veniva messo in minoranza se non in rari casi, cioè quando pioveva o quando le sue argomentazioni erano talmente vere che si stentava a credere che quella vicenda accaduta fosse andata proprio così, ed era in quei momenti che Checco si faceva analitico ricomponendo tutti quei frammenti e tentando di narrare nuovamente la storia per come s’era svolta. 

 

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Checco era uno di quei pochi individui che, quando lo si incrociava, subito si poteva ripetere: “La bontà de quisso, passa ‘u merch...” - certamente accadeva questo, tali i pensieri, e già dall’andatura si capiva che era nato per essere buono e, soprattutto, inoffensivo e in certi momenti, mentre s’avviava verso il pagliaio, veniva voglia d’abbracciarlo e di sicuro qualcuno aveva pensato a tanto ma poi si frenava perché non sapeva come lui avrebbe potuto reagire a quell’affettuosità, infatti, quasi sempre, un individuo come Checco, buono d’animo ab initio, poteva anche non comprendere quello slancio di cuore. 

 

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Checco sapeva tutto quello che c’era da fare, conosceva alla perfezione le terre, i possedimenti della sua famiglia e, insieme agli altri fratelli, Battista e Serafina rimasti ad Assergi e a sua madre Pippinella, dava il suo contributo interiore per operare al meglio, tra mietere, raccogliere i manoppi, assistere alla trebbiatura, osservare l’opera di colei che si sarebbe intrapresa a “conciare”, ascoltare il lamento dei grilli nel terreno dove s’era mietuto, quindi zappare la vigna, ricacciare le patate e con gli occhi già protesi verso la vendemmia, ecco il quadro, non c’era pace e la sua vita fu operosa e ricca di tutto questo. 

 

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A quale ora si coricava Checco non trapelò mai, ma si può supporre che subito, dopo cena, si risolvesse al sonno perché tutti i giorni si prodigava tanto sia a governare gli animali e sia essendo presente alle terre e dunque la fatica era una verità quotidiana ma c’era da mettere in conto anche il suo pensare continuo, ed era una fatica anche quella, e oltre questo anche il suo preoccuparsi perché non ascoltato, forse, su certe questioni, e allora se la prendeva e borbottava un poco, sottovoce, tra sé e sé, non era tipo da gettare tutto alle spalle, si fiaccava perché voleva che tutto si componesse bene. 

 

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Un evento bellissimo sarebbe stato vedere Checco partecipare ad un matrimonio, ad una cresima, ma in quella occasione, forse, non sarebbe stato a suo agio, meglio la libertà dell’aia, la lenta processione delle galline in un silenzio così ampio che confortava, e comunque osservare Checco nel mentre partecipava al rituale in chiesa sarebbe stato accarezzarlo anche se si fosse stati lontani da lui, tutta un’emozione poi recarsi all’Altare per ricevere la comunione, e tornare al banco inginocchiandosi, inghiottendo per bene Nostro Signore. 

 

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Ma erano miei pensieri, quasi arie dal Pergolesi, dal Paisiello, non era possibile imbattersi in Checco come invitato ad un matrimonio, avrebbe sofferto l’involontaria morsa degli altri tutt’intorno e tra sé avrebbe forse sospirato: “Ma perché sono venuto? Adesso potevo stare beatamente disteso nella camera in cima, tranquillo e senza fastidi intorno...”, oh sì, ma questo, naturalmente, lo avrebbe pensato in dialetto e ad ascoltarlo in dialetto, così vero, avrei esultato e non avrei più dimenticato quel suo sfogo di cuore e sarebbe stato un sublime ritaglio del suo universo interiore.

 

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Ospite di quella famiglia, avrei osservato i comportamenti di ognuno ammirando tutti e, ascoltando la madre Pippinella, avrei appreso tante cose, ad esempio l’origine della sua voce, i suoi genitori, il modo di ragionare, di porgersi a tavola, risalire al carattere, ma sarebbe stato un sogno finire ospite di quella famiglia, lo pensavo spesso ma mi rendevo conto che stavo sospeso dalla realtà, vivevo ondeggiando tra le pareti del giorno che erano per me come quelle d’una bolla di sapone. 

 

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Se dovevo pensare a tutto, a proposito di Checco, non potevo tralasciare gli anni della sua infanzia e dunque cercare di ricostruire quegli istanti e chi potevano essere stati, a quel tempo, i suoi amichetti, i dirimpettai, e chi erano coloro che si recavano a scuola e in chiesa, di certo quello che poteva risultare il suo più vicino di casa era Flavio Tacca, erano pure coetanei perché colui che sarebbe diventato un bell’uomo, massiccio, e dai modi gentili, era del 1920 mentre Checco era sbocciato al mondo nel 1921, e che forse giocavano insieme, e si rallegravano del luogo sublime dove abitavano, in Piazza? 

 

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Bisognava risalire ai suoi coetanei come Antonietta Lalli (1920), Lina Giusti (1921), Antonio Giusti (1922), Battista Pace (1922), Costanzo Alloggia (1923), ma di queste esistenze è ancora in vita, e lo si può considerare proprio come un monumento, soltanto Costanzo Alloggia che ha dato del tu al secolo, lo ha avvistato, avvicinato, abbracciato e quindi superato agilmente, ecco, le immagini più belle me le avrebbero potute donare tutte queste persone ma non ebbi mai tempo per chiedere notizie di prima mano su Checco Pace, soprattutto sui suoi primi anni, né osai tanto tutte le volte che vedevo la sorella Serafina, la quale, quando mi sentiva a parlare in dialetto di Assergi, si metteva a ridere ma ciò era dettato esclusivamente dal suo stupore buono per come mi difendevo nell’esporre.

 

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Nelle giornate di sole la casa di Checco mi pareva sempre in salvo, protetta dalle continue aggressioni della vita e tale sensazione si ingigantiva ad osservare la chiesa di fronte, e questo affresco interiore lo componevano, forse, anche i famigliari di Checco, certamente, non era mica un affare minimo destarsi con quell’immagine della chiesa davanti quindi accudirsi e pronunciare anche dentro quella casa la frase esemplare: «Mo’ vedeme quele che sa da fà...», oh sì, era importante citare simili parole assumendo quella frase un valore universale, in altri termini significava ordinare le proprie azioni, dirigerle al bene, in un certo senso “pettinarle” e del resto s’era al principio del giorno e c’è da pensare che anche Checco si scaldava a quella frase e all’improvviso diventava anche lui importante, oh, si provi a riflettere però sull’esilità della parola “importante” di fronte al “De l’infinito universo et Mondi” di Giordano Bruno.

 

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Quella casa di Checco era confinante da una parte con l’abitazione di Giovanni De Luca e Costanza Rapiti e dalla parte interna con quella di Laurino Lalli e sua moglie Clelia, e da dire inoltre che i dirimpettai erano – seppure posizionati sulla sinistra con i balconi rispetto all’entrata di Checco – Ercolino e Ginetta, i quali si compensavano come sguardi e atteggiamenti e infatti al tono burbero ma in fondo buono di Ercolino corrispondeva il sorriso sempre presente di Ginetta e il loro rincasare a sera aveva sempre qualcosa di risorgimentale, dei contadini al tempo dei governi postunitari, quelli del Depretis, Crispi e Giolitti, e la turbolenza delle campagne dove però tutto sembrava vero e anche Dio pareva a portata di mano.

 

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Seppi in margine a dei discorsi riguardanti le persone che stavano spesso con mio zio Antonio alla bottega quando egli era impegnato a cambiare i ferri ad asini o cavalli, oppure ad impegnarsi in opere di saldatura, seppi che Checco Pace era tra i fedelissimi di quel tempo alla bottega e partecipava a quei rituali commentando le varie fasi di quel fare operoso di mio zio Antonio, e in un paio d’occasioni fui anch’io presente e lo sentii appoggiare i discorsi che mio zio portava avanti ed era come se in quegli attimi Checco rispolverasse il loro essere stati fanciulli e coetanei, ed egli era così ad un passo dalle lacrime.

 

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È un fatto che pochi sanno ma è notizia sicura, proviene dai Giusti e così mi ci poggio per segnalare Checco anche per un’altra distinzione oltreché per la sua bontà, e allora affermo che egli cercava il pane in continuazione, non poteva farne a meno, era un’esigenza della gola ma non si trattava d’un consumo da riservare soltanto per il pranzo e la cena, in verità lo portava sempre con sé e c’era in quel suo atto qualcosa di metafisico, il confidarsi con un amico fedele, originario, il pane appunto, e doveva sentirsi meglio d’animo sentendolo in tasca, certamente era così, e il portarlo sempre con sé poteva far pensare ad una continua comunione ma anche ad uno “sfamarsi” in solitaria, ad un soddisfacimento in silenzio mentre stava, magari, al pagliaio, con dinanzi tutto il presepe con gli animali a guardarlo.

 

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Un’estate conobbi Luigi, il fratello di Checco che era tornato dal Canada, feci la sua conoscenza all’Hotel Giampy, doveva essere un’estate nei primi anni del Duemila, esattamente, stava seduto ad un tavolo e, sfilandogli accanto, lo riconobbi perché qualche giorno prima egli, risalendo la costa che conduceva alla Piazzetta del Forno, salutò mia madre che era sul balcone ed io fermai quell’immagine e quando poi lo vidi seduto ad un tavolo dell’Hotel, mi presentai ricordandogli l’episodio del suo saluto a mia madre, ed egli ricollegò l’episodio e fu contento di parlare con il figlio di Domenica Giusti  - «Dummenicuccia...», disse), ecco, precisamente, e Luigi era un bell’uomo ancora con lo sguardo impresso nella giovinezza (fu proprio questo che colsi, ancora un ragazzo) tutto ben messo, in ordine, pettinato, sorridente e che parlava con gioia interiore e sincerità, proprio belle immagini seppe donarmi ed è giusto che adesso lo ricordi mentre ho raccontato con leggerezza ma anche con affetto qualcosa di suo fratello Checco (Francesco) Pace. 

 



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