Cristo morto all’Aquila nel segno del dolore e della voglia di rinascere

. (Da il Centro) - Alle 21,15, mentre la processione con il Cristo morto si riavviava verso la basilica di San Bernardino i coristi si sono fermati proprio al centro di corso Vittorio Emanuele, a fianco dei Portici, il luogo che nei decenni ha cementato una comunità, quella aquilana, che per nulla al mondo avrebbe rinunciato a una passeggiata serale un po’ dentro e un po’ fuori le “colonne”. I maestri Carlo Mantini e Vincenzo Vivio hanno dato il segnale e il canto del Miserere rafforzato da decine di violini in mano a giovanissimi musicisti si è sparso potente fra i palazzi imbalsamati e i vicoli vuoti, appena illuminati da qualche “inutile” lampada.
 Quell’esplodere di voci e strumenti, quel “abbi pietà di me” ha fatto rimbalzare la memoria a giusto tre anni fa, quando la scossa delle 3,32 lanciò per aria vite umane e case. Il Miserere, così ripetuto e cadenzato è sembrato la colonna sonora di un film che nessuno avrebbe voluto vedere: sbalzati dal letto, vaganti come fantasmi in strade buie, protetti da qualche coperta rimediata chissà come. E un coro di voci a gridare aiuto, chiamare per nome chi ormai intrappolato aveva visto spegnersi la sua esistenza, e poi l’urlo di rabbia, il ruggito della disperazione, il lamento dell’impotenza. E’ stato un attimo: per chi di quella notte ricorda solo l’orrore e non ha favole da raccontare o episodi “eroici” di cui vantarsi il Miserere è stato come coltello lanciato su ferite ancora aperte. “Abbi pietà di me”, chissà in quanti in quell’ora terribile l’ha pensato o pronunciato a rischio di rompersi le corde vocali.
 Poco prima, una stele portata da uomini di buona volontà con incisi i nomi delle 309 vittime del sisma ha ricordato a tutti che dietro alle chiacchiere, alle sterili polemiche, alla voglia di arraffare, truffare, speculare c’è il sacrificio di tanti, un sacrificio che non deve essere dimenticato per non ricadere in futuro in errori o colpevoli omissioni. Quando è spuntato il simulacro del Cristo Morto, simbolo di sofferenza ma anche di redenzione, si è capito fino in fondo il senso vero di una processione che pure indulge a qualche grossolanità scivolando, a tratti, persino in una sorta di passerella che poco ha a che fare con il mistero pasquale.
 Quel simulacro che fa parte della storia della città (la prima processione del Cristo Morto risale al 1954) era portato a spalla dai parenti delle vittime del terremoto. Un peso che si è aggiunto a quello sopportato, ormai da tre anni, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
 Un corteo di morte che per chi ha fede si dirige verso una luce che è destinata a non spegnersi mai. C’è chi, dopo la tragedia, da quella fede è scappato, chi invece l’ha sentita fortificarsi, altri l’hanno ritrovata.
 La processione ha avuto inizio puntuale alle 20. Una lunga scia di statue, simulacri - spesso vere e proprie opere d’arte - è spuntata dalla basilica di San Bernardino davanti alla scalinata immagine e metafora della salita al Golgota. All’inizio di quella scalinata sono state poste tre croci, proprio come nel racconto evangelico del sacrificio di Cristo.
 E poi tante luci, fiaccole ormai simbolo non solo di una ricerca di “altro” oltre la morte ma anche della voglia di ricominciare e di ritrovare una città perduta da troppo tempo. Quando tutti i simulacri hanno lasciato la chiesa centinaia di persone che avrebbero dovuto incolonnarsi al seguito della processione sono stati “richiamati” dalla basilica rimasta aperta. Dall’esterno si vede una ragnatela di tubi che sorregge uno dei monumenti vanto dell’Aquila dove fino al sei aprile riposavano le spoglie mortali del santo senese. E’ sembrata una corsa spasmodica, quasi a voler conquistare la posizione migliore per entrare e riappropriarsi di quello che sembra perso, almeno per adesso.
 Ieri al calar della notte il cuore del capoluogo d’Abruzzo pullulava di gente. Per tanti forse la processione è stata solo una scusa come un’altra per godere di una sera fredda ma non freddissima lungo luoghi che nessuno può e vuole dimenticare. C’erano persone - migliaia - che non si arrendono a essere disperse per sempre nei map (casette di legno) o nel “Case” (i nuovi quartieri provvisori) che sono posti per dormire o poco più.
 E’ banale ripeterlo, soprattutto per chi ormai ha percorso decine di volte in questi anni un centro storico che si nega persino alle emozioni che non siano quelle di uno stupore che spezza occhi e coscienze. Eppure è una sensazione che si perpetua: fa impressione veder passare una processione nel cuore di una delle città più belle d’Italia e non notare persone affacciate a balconi e finestre. Qua e là qualche luce fioca, resta confinata in un mondo che sembra irreale. C’è una porta con il vetro spaccato, fermata a malapena da una catena agganciata a un lucchetto.
 Superata porta Castello ci sono locali che per rispetto chiudono un attimo la porta o abbassano la serranda. Ma dura poco. Poi spuntano da ogni lato giovani che fanno un dentro-fuori frenetico anche se nessuno sa da che cosa derivi quella frenesia.
 Ma la scena più bella è quella di gruppi di famiglia che si guardano intorno per un attimo, cercano le “sagome” dei vigili urbani, non le vedono e allora si danno il segnale: forza tutti dentro la zona rossa. Le barriere non frenano la voglia di rivedere un vicolo, un angolo, o magari soltanto una pietra. All’inizio il passo è veloce, poi si rallenta, si guarda, si commenta, si ricorda. Nel budello di corso Vittorio Emanuale camminare diventa persino problematico ma si va avanti fra bimbi vocianti, carrozzine spinte da genitori apprensivi, saluti, baci e abbracci da concludere con il classico “buona Pasqua”. La processione scorre e torna pian piano verso il punto di partenza. La gente un po’ si affolla, un po’ si dirada e poi se ne torna a casa. Una casa lontana, ancora troppo lontana.


 


Guarda il video: LA STORICA PROCESSIONE

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