L’ESTATE SE NE ANDÒ SENZA RUMORE - di Fernando Acitelli

L’ESTATE SE NE ANDÒ SENZA RUMORE

La folla ha troppi occhi per avere uno sguardo

Victor Hugo

- di Fernando Acitelli -

Era l’aria del dopo Ferragosto, proprio quella che avvisava come l’estate stava raggomitolandosi prima d’uscire di scena donandoci l’arrivederci all’anno che sarebbe venuto e in quel segmento di tempo – dodici mesi – sarebbe cambiato molto per tutti, anche il ragazzo quattordicenne avrebbe osato il valico verso gli ancora contenuti quindici anni, e comunque, quel raggiungere i quattordici anni era già stato un diventare - un poco - adulto, infatti da un anno costui poteva entrare nei cinema anche se su un manifesto del film appariva un tagliando con su scritto VIETATO AI MINORI DI QUATTORDICI ANNI, ecco, ma lo pensava qualcuno, tutto questo? M’era sufficiente che componessi io simili riflessioni, magari sottovoce.

 

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Il pensare tali fatti non che giovasse all’animo ma era inutile un atto di citazione contro il tempo, e tornando su quell’agosto sul punto d’estinguersi, lo sfinire del Ferragosto portava con sé anche alcuni dolorosi accadimenti come il ripartire per chi era tornato ad Assergi dall’America, dall’Australia o da altro luogo definito come “patria momentanea” anche se gli affetti s’erano da tempo lì consolidati, ed era come un distacco definitivo finire nelle lacrime di chi era sul punto di risalire sull’aereo, e quel caffè che si prendeva in quel pomeriggio di saluti aveva un valore minimo rispetto a quello che s’era preso insieme quando quei parenti, quegli amici, erano giunti un mese prima ad Assergi.

 

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Mi concentravo sulle tazzine del caffè, erano integre, sicuramente avrebbero resistito più delle persone e degli affetti, e se non si fossero sbeccate all’orlo o il loro destino non avrebbe previsto un precipizio sui piani alti della credenza, be’, allora quelle tazzine sarebbero a noi sopravvissute, del resto in molte eredità si possono vedere anche molte collezioni di piatti, bicchieri, tazzine e porcellane varie, il tutto custodito e poi oggetto di inventario e successiva spartizione, ecco, mi concentravo sulle tazzine in quegli istanti che precedevano il saluto commosso, il frangersi sul viso delle lacrime, e sulle tazzine fissavo gli armigeri egregiamente dipinti, lucenti, ottimamente rappresentati e che potevano far riferimento all’esercito sabaudo o anche prussiano, pure a cavallo.

 

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Mi mettevo ad osservare gli armigeri anche sulla mia tazzina, erano perfetti nelle loro uniformi e con quella rigida eleganza mi trasmettevano un’idea di eterna gioventù e mi consentivano di non pensare a quel congedo che era nell’aria da almeno una settimana, infatti quei parenti, quegli amici avevano già preparato le valigie, si erano impegnati (moglie e marito) a “rezzelare” tutti gli ambienti della casa come si trattasse d’uno scrigno con i vari divisori, e adesso nella nostra saletta avevano ripreso a narrare e ogni cosa del passato era bella e incorniciata, e ogni atto, a quell’epoca, votato al bene, e adesso era proprio questo che s’ascoltava in quella visita affettuosa durante la quale s’innalzavano progetti e buoni proponimenti: «Statranne, se Dio vòle, resteme ecc…».

 

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I presenti narravano i loro ricordi, si stringevano nei racconti ed io riflettevo sul fatto che non avevo prestato attenzione prima di allora a quelle tazzine su cui, splendidamente, campeggiavano gli armigeri e c’erano state altre occasioni per ammirarli ma nella sequenza dei giorni ordinari tutto appariva tranquillo e la vista diveniva aguzza, e dunque analitica e lirica, soltanto quando c’era da attraversare un tempo triste come poteva essere la partenza di coloro che erano venuti a farci visita, e gli occhi allora cercavano qualcosa in quello spazio di modo che si potesse parlare d’altro, schivare il dolore, concedere una tregua all’animo.

 

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Insomma, c’erano alcuni metodi per “scansare” il dolore del distacco ma se si mettevano in pratica era soltanto per soffrire il meno possibile, dunque la sublime distrazione era un valore ma non si poteva comunque evitare l’ascolto di quei resoconti lirici da parte delle persone che erano sul punto di ripartire, e così si studiavano quei volti, quegli sguardi, si tentava di comprendere cosa s’agitasse nel loro animo, ed era abbastanza agevole avvistare il loro sisma interiore, le lacrime non trattenute, il finire con i polpastrelli della mano destra sul cuore come per dare maggior valore a quanto s’era appena detto, e poi una frase sorgeva per rafforzare tutto: «Antò, ma te le recorde quela vota a Licenna?». E alla risposta affermativa dell’interessato, giù una slavina di lacrime.

 

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L’emozione soleva attenuarsi quando si passava – chissà in seguito a quale parola carpita da una frase – alla narrazione delle valigie già preparate e con l’unico fastidio (minimo) di collocare nei bagagli gli ultimi indumenti indossati il giorno prima della partenza, oh sì, tutto questo, ma per mio conto era tutto un mettere in archivio quanto vedevo, quanto ascoltavo, seguendo pure le parole di mia madre e di mia nonna che erano rigorose nel loro alimentare la speranza, infatti componevano parole dolcissime per la persona che era in quei momenti dinanzi a noi, la quale elencava le successive visite da effettuare, visite inerenti i saluti che erano fondamentali per mantenere l’animo in serenità.

 

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Avrei desiderato prolungare il tempo di quella loro permanenza ad Assergi, posticipare la partenza delle persone a noi care, addirittura far saltare il biglietto aereo, telefonare dove si era attesi e spiegare le ragioni di quel rinvio, non si poteva lasciare Assergi senza che vi fosse una lunga riflessione, una ulteriore ricognizione sui luoghi cari, ovvero quelli dell’infanzia, e poi osare uno studio sulle case abbandonate, sugli usci chiusi da gran tempo e sui quali erano cresciuti  ciuffi d’erba, e inoltre sulle gattaiole della cantina dette anche “bucette”, ma non soltanto questo, organizzare una lunga sequenza di tavoli ad iniziare dalla casa di “Micott” di fronte all’abitazione di Giggetto e Brigida, lambendo la casa di Clelia de Poiana, poi quella di Lucia Sacco e via via per tutta la “Strada Ritta” arrivando alla Piazza e lì i tavoli si sarebbero disposti uno di seguito all’altro lambendo la fontana, sfilando accanto alla casa di Giovanni De Luca e Costanza Rapiti e in quel punto prendendo anche gli applausi da parte di Angelina la “Scemecca” (sublime tale soprannome, derivante dalla parola inglese “shoemaker”, calzolaio), e poi la traiettoria dei tavoli sarebbe proseguita verso Cristina Longa e Assunta di Dragone e poi su per l’alto occhieggiando la Caserma, e da lì la sequenza di tavoli sarebbe proseguita fino alla casa della comare Lina e di “Pupucc”, attestandosi l’ultimo tavolo alla curva, accanto alla casa di Franco di Adamo.

 

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Sembrava una cosa da nulla salutarsi, ma equivaleva ad una cerimonia, c’era un rituale da rispettare (e in ogni rituale c’è paura), e gli attori dovevano interpretare la parte al meglio delle loro possibilità e lo facevano bene, non era una recita ma espettoravano dolore, e per mio conto, sebbene bambino o adolescente, sentivo che l’atmosfera non mi era favorevole, l’ennesimo valzer degli addii stava celebrandosi e finivo allora con l’accarezzare le parole dei convenuti, frasi che si sarebbero dissolte e delle quali, al momento, ascolto ancora l’eco.

 

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S’erano sorvolati anche luoghi meravigliosi durante quella conversazione, e in certe occasioni s’erano addirittura evocate località di Assergi come “Le piant Chiarella” e “Le noce Muschitt”, ed era così una giornata che poteva ben dirsi riuscita perché avevo archiviato fatti di rilievo e luoghi sublimi sui quali avrei chiesto poi notizie dettagliate a mia madre, in penombra, quando quei fuochi d’artificio del pianto e dei saluti sarebbero cessati e ad un certo punto si faceva silenzio ed era come una sospensione dal dolore e così la donna si stringeva in sé, richiamava le lacrime entro l’orlo delle palpebre, si lisciava il vestitello leggero mentre il marito puntava deciso lo sguardo sull’orologio a maglie dorate e quadrante un po’ annerito e subito incalzava la moglie e poi, rivolto a mia nonna Maria, diceva: «Commà mo’ senneriame ca tenema passà pure dalla commare gliu Baffit…», e quel giorno, dunque, si chiudeva così.

 

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Elia, la figlia di Stirina e sorella di Pierina e Antonietta, era puntuale alla fine d’agosto per i saluti, me la ricordo soprattutto quando ormai i miei nonni non c’erano più mentre gli zii stavano nella nuova casa e l’unica ad alimentare il sentimento degli antenati era mia madre, e nella casa alla Piazzetta del Forno il silenzio, alla fine d’agosto, dilagava e per le camere “in cima” provvedevo con il sogno a spolverare le figure che m’apparivano (oh che slanci emotivi!), partivo da lontano, da Papitt Antonio, il padre di mio nonno Lorenzo, quindi incontravo Alberico, fratello di mia nonna Maria, del quale mia madre m’indicò, un giorno, il ritaglio di terra dove era sepolto, e giungevo poi alla madre di mia nonna ovvero Mammetta Rituccia, quindi a zia Brigida volata in cielo a quattordici anni, e lì, in cima, regnava un silenzio da confessione e con la “sublime stravaganza”, da parte mia, di voler “chiudere” l’Universo, andando contro, dunque, a Giordano Bruno con i suoi infiniti mondi, e superavo agilmente il Muro del Tempo, e in quelle camere era tutta una ricognizione e un ricongiungere esistenze, ma torno a Elia che trascorreva un intero pomeriggio da mia madre, erano amiche, del resto Elia con la sua famiglia abitava da giovane nella casa di fronte a Giuseppina Napoleone, ovvero Ciu Ciu, e sullo stesso lato (poco più su) della bottega di Vincenzo Valeri, ecco, questa l’esatta collocazione, e dai racconti si trattava d’una casa tenuta splendidamente, ordinata, lucente e dove, sulle credenze con il vetro erano state apposte tendine ricamate ed era splendido – da quanto sentito a casa - finire lì dentro e mettersi ad osservare quella specie di bomboniera che era quella casa.

 

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Elia era sempre sorridente e rendeva meno dolorosi i ricordi e la sua partenza era dunque all’insegna del buonumore, e d’altra parte non c’era niente da fare e la vita era quella, tutto un partire e ritornare (se fortunati) andando in cerca, ad Assergi, degli odori d’un tempo irreparabilmente dissolto, e quell’agosto trascorso nella terra d’origine avrebbe donato ossigeno soprattutto all’animo, e mia madre che ripeteva: «Aspetta!... altri cinque minuti, raccontami un altro po’ della vostra casa, di mamma e di tutti…», e se Elia sarebbe stata contenta di rimanere ancora un po’ con mia madre, si vedeva che doveva adempiere a tutta una serie di incombenze che erano naturali per chi stava per inoltrarsi in un lungo viaggio verso l’America.

 

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I saluti finali, con gli abbracci, erano una cerimonia nella cerimonia e se pareva che il più fosse passato, in verità non era così e gli istanti conclusivi io li percepivo come un battito cardiaco sfalsato in ognuno dei presenti, una sorta di aritmia diffusa tra noi e quei parenti, quegli amici che erano venuti a salutarci, e si trattava d’un battito accelerato che poi risultava salvifico come una “messa a terra” dell’impianto emotivo, così tutto andava a scaricare in un punto e lì tutta l’emozione accumulata si disperdeva ma non si trattava di momenti sereni  e ognuno dei presenti aveva sentito le pulsazioni in aumento, un costato pieno d’affanni, tutti i propri morti allineati nella mente.

 

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I parenti che avevamo salutato s’erano con noi spostati dalla saletta alla cucina e allora accadeva che le tazzine rimanessero per un po’ nella guantiera come oggetti in una “natura morta” di Giorgio Morandi, e quegli uomini d’arme si specchiavano in quello spazio ovale e lucente della guantiera, e visto che le tazzine usate per l’occasione ammontavano ad otto (presenti in quei congedi anche mia nonna Maria, mio nonno Lorenzo, zia Letizia e zio Antonio), si poteva pensare, grazie a quelle tazzine ricamate di armigeri, ad un piccolo drappello di ufficiali a cavallo mentre la zuccheriera, a breve distanza, fungeva da fortilizio, posto di guardia, fureria, oh, ma tutte queste immagini mi si componevano nelle regioni fantastiche del sogno.

 

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Passare dalla saletta alla cucina era un po’ uscire dalla cerimonia, abbandonare l’ufficialità e in un certo senso diluire, involontariamente, i saluti e gli auguri di poco prima, tutte quelle frasi notevoli che fino ad allora s’erano composte, e dunque erano i vari ambienti della casa - dalla saletta alla cucina, ad esempio - che potevano far mutare l’intensità del sentimento e pareva veramente che quei parenti partissero un po’ di meno.

 

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Mi abituai ad un simile dolore ed era una rappresentazione che giungeva puntuale alla fine d’agosto, e l’unica ricetta per non soffrire era evitare Assergi d’agosto oppure andarsene in tempo, alle prime avvisaglie del sisma emotivo come ad esempio il giorno 10, San Lorenzo, e anche il giorno 13, la sera del film in Piazza e un favorevole fresco dalla valle, e dava da pensare anche il non sapere a che ora, quella sera, si sarebbe coricato Antonio Scarcia e suo fratello Checco e il perché avevano disertato quello spettacolo filmico in Piazza, la verità poteva essere legata alla stanchezza ma, soprattutto, alla loro disappartenenza al mondo ufficiale, e c’era forse qualcuno che spuntando con il viso da una finestrella e guardando il cielo, sospirava solitario: «È tutta colpa delle stelle…», alla maniera di don Ferrante, il quale ne “I promessi sposi” afferma proprio questo a proposito della sopraggiunta peste: «È tutta colpa delle stelle…». Magari si fosse trattato delle stelle, ciò avrebbe significato che qualcosa in cielo accadeva veramente.



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