SAN FRANCO D’ASSERGI E FERDINANDO DI NAPOLI (Quando non basta avere un santo in paradiso...)

PER RINFRANCARE LO SPIRITO TRA UN SANTO E L’ALTRO

 

 

Dopo tanti scritti seri ed edificanti, e forse un po’ noiosi, sui santi (quel maligno e dissacrante di Niccolò Machiavelli diceva che in paradiso si sarebbe annoiato, mentre all’inferno avrebbe potuto intrattenersi con persone interessanti – ma io che scrivo non sono d’accordo, beninteso…–), ecco di seguito un  racconto dove si parla di San Franco, ma che poco ha a che fare con la santità e molto con il costume, anzi il malcostume. Il racconto non ha nulla di edificante, trattandosi di un episodio di cronaca nera. È riportato da Demetrio Gianfrancesco alle pagine 345 e 346 del suo fondamentale libro “Assergi e S. Franco” (Roma 1980) ed è tratto da uno scritto (o un articolo) di un non meglio identificabile U. Martelli.  Lo scrivente vi ha aggiunto di suo solo una piccola cornice storica e, qua e là, già dal titolo, qualche pennellatina di ironia (si fa quel che si può), che si spera non sarà disprezzata dai lettori (g.l.).

 

SAN FRANCO D’ASSERGI E FERDINANDO DI NAPOLI (Quando non basta avere un santo in paradiso...)                               

- di Giuseppe Lalli -

La devozione per San Franco d’Assergi, fino alla metà del secolo scorso, come chi scrive ha più volte rimarcato, era molto diffusa in tutto l’Abruzzo e anche oltre i confini della regione. Particolarmente cara era la memoria del santo eremita agli abitanti del contado teramano, sull’altro versante del massiccio del Gran Sasso.

San Franco, infatti, oltre che di Assergi, è patrono del piccolo borgo di Forca di Valle, frazione di Isola del Gran Sasso, in provincia di Teramo, dove lo si festeggia il 5 giugno, come ad Assergi. Due forti spari, di buon mattino, annunciavano un tempo la festa, seguiti da un giro della banda nelle vie del paese. Quest’anno lo si è festeggiato il 5 giugno anche nel paesello teramano, come da tradizione, ma, trattandosi di giorno feriale, nella sola dimensione religiosa.

A Forca di Valle San Franco è raffigurato non solo nelle vesti di un anziano e barbuto monaco, come vuole l’iconografia tradizionale, ma anche, in una nicchia fuori del villaggio – particolare davvero singolare – , come un giovane pastorello, quasi a voler ricordare ai cristiani che la beatitudine che ci attende in Cielo reca i tratti dell’eterna giovinezza. Il legame degli abitanti di questo piccolo villaggio montano con il santo era in passato molto forte.

A tale proposito, si narra di un certo Pietro, della nobile famiglia forchese degli Iacovoni  (i feudatari del borgo), che per molti anni aveva prestato servizio come guardia d’onore presso la corte del re di Napoli Ferdinando IV di Borbone (si era alla fine del XVIII secolo, e Napoli, come si sa, era allora la capitale degli Abruzzi).

Essendogli venuta a noia questa sua occupazione, prestigiosa ma non certo esaltante, decise un giorno di ritirarsi nel suo “feudo”, non solo per attendere ai suoi interessi di ricco proprietario terriero, ma anche per dedicarsi a suo bell’agio al culto del santo eremita, dalla cui personalità si era sentito fortemente attratto fin da ragazzo. Forse a noi smaliziati uomini moderni questi gusti fanno sorridere, presi come siamo a coltivare ben altri e...più solidi miti, come quello dei cantanti, degli attori, degli sportivi, degli uomini politici; ma – che volete ? – nei tempi andati accadevano anche di queste stranezze.

Era questo Pietro un uomo assai originale, a partire dalle sue fattezze fisiche: un vero gigante. I suoi genitori, forse presagendo le sue forme colossali, avevano pensato bene di affibbiargliene due di nomi: lo chiamarono Pietro Franco, quest’ultimo sicuramente in onore di San Franco. L’uomo era, per la verità, complici forse sia il suo rango che il suo eccezionale aspetto fisico, dai modi spicci, e alquanto collerico. I suoi compaesani, in segno di rispetto, lo chiamavano “Don Pietro Franco”, ma lui, parendogli il nome troppo lungo, si faceva chiamare solo “Don Pietro”, riservando il ‘Franco’ all’onore da tributare al santo, di cui era devoto fino all’inverosimile. Basti pensare che non aveva esitato a chiamare i suoi due figli maschi “Franco I” e “Franco II”. All’entrata del paese, aveva poi fatto erigere a sue spese un tempietto in onore del santo con tanto di iscrizione dedicatoria incisa sull’architrave del portale: Templum fecit Petrus Iacovonis anno Domini 1774.

E fin qui niente di male. Il male – ahimé – venne  un 5 di giugno, quando a Forca di Valle si celebrava la festa di San Franco. Possiamo immaginare quanto entusiasmo e attivismo Don Pietro mettesse nel festeggiare il suo celeste beniamino. Voleva che la processione seguisse un percorso lunghissimo. Senonché, un gendarme mandato lassù per gestire l’ordine pubblico, vedendo che minacciava di piovere, o forse, più verosimilmente, stimando che gli si ritardava l’ora del pranzo, si permise di ordinare di accorciare il tragitto. Apriti cielo! Don Pietro, per il quale il culto a San Franco era quasi una faccenda privata, non trovandosi per nulla d’accordo con il responsabile dell’ordine pubblico, non esitò, forte e grosso com’era, a sferrargli un pugno – quanto poderoso possiamo immaginarlo! – , così che che la povera guardia stramazzò a terra in fin di vita.

Nemmeno in quei tempi di “oscurantismo religioso” pare che la giustizia fosse disposta a riconoscere attenuanti ai devoti di San Franco. Così Don Pietro, per sfuggire alla condanna a morte, fu costretto a darsi alla macchia, o, meglio, a fare frequenti passeggiate nei suoi boschi, quando qualcuno aveva cura di preavvisare i familiari che stavano venendo le guardie ad arrestarlo.

Stanco di questo stile di vita, e parendogli inopportuno chiedere l’intercessione del suo celeste protettore per evitare le “noie” conseguenti ad un assassinio, pensò bene di rivolgersi, per ottenere la grazia, ad un potente più terreno, niente meno che a quel re di Napoli che aveva servito con molto zelo. «Perché – dovette chiedersi – non andare a fargli visita? Sicuramente a corte molti si ricorderanno di me».

Detto, fatto. Ebbe inoltre l’originale idea di far preparare dai suoi contadini una forma di cacio enorme, proporzionata al suo fisico e alla circostanza. Era del diametro di un metro e larga almeno la metà: un dono da recare al sovrano (si racconta che Ferdinando IV fosse molto goloso dei cibi popolari) per propiziarsene il favore e ottenere la grazia. Dovette affrontare un viaggio molto lungo  e faticoso per quei tempi. Si può immaginare la difficoltà nel trasportare indenne quella gigantesca forma di pecorino, che avrà effuso il suo forte odore lungo tutto il tragitto.

All’arrivo nei pressi del palazzo reale, molti suoi ex commilitoni lo riconobbero, grande e grosso com’era, e lo salutarono molto affettuosamente, con il tipico calore dei napoletani, sempre pronti ad apprezzare il folclore e le trovate geniali come quella messa in campo da Don Pietro per omaggiare il re. Il signorotto abruzzese avrà beneficiato generosamente anche loro di buon pecorino.

Ebbene, la grazia alla fine Don Pietrone la ottenne, ma, ammalatosi di colera, sulla via del ritorno, morì sull’Altopiano delle Cinque Miglia, quando gli mancava poco per rimettere piede nella sua Forca di Valle con la grazia reale in mano.

Dove s’impara che non sempre basta avere...un santo in paradiso.



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