LE BUONE COSE DI PESSIMO GUSTO - di Fernando Acitelli

«LE BUONE COSE DI PESSIMO GUSTO»

 

Che Assergi non fosse più il paese d’una volta era prevedibile, non m’ero fatto illusioni dopo l’evento sismico. Nel corso degli anni avevo sempre pensato che a decidere tutto fosse il divenire, il naturale mutamento dello scenario e delle persone, la trasfigurazione e non già a causa di accadimenti dolorosissimi. Già prima di giungere lì sapevo tutto questo e ripensavo all’epoca mia. Nel mentre m’inoltravo per Assergi ammirando di nuovo il borgo dopo gran tempo, ecco che, attraversando strade e vicoli e piazzette ed archi un tempo a me famigliari, d’improvviso mi ha invaso la mente un verso del poeta Guido Gozzano: “le buone cose di pessimo gusto”, verso che si trova nella raccolta L’AMICA DI NONNA SPERANZA. E tale verso aveva le sue ragioni a sorgere, era il segno d’un malessere che avvertivo viste tutte le novità nello scenario e sollevatesi nell’opera di ricostruzione. Quel mio sbandamento recava in sé il sopraggiungere del verso di Guido Gozzano perché tutto quanto vedevo nell’intorno - il nuovo colpo d’occhio su Assergi - m’era veramente sembrato un grande affresco con “buone cose di pessimo gusto”. Quel verso del poeta, sorto dalle profondità dell’animo e senza preavviso, mi chiariva come non mi trovassi a mio agio tra le ristrutturazioni e i “recuperi in pietra”. Le facciate non le sentivo più mie, non soltanto perché le antiche pareti di pietra venute giù non me le avrebbe restituite più nessuno ma anche perché sui nuovi muri avevo notato l’assenza di ciuffi d’erba, di muschio, vale a dire delle carezze di madre natura. Inoltre: le nuove tinteggiature avevano reso il borgo un’altra cosa, e anche da questo dettaglio sorgeva il mio totale spaesamento.

Certi azzardi di colore hanno mutato molti scorci di Assergi e accade allora che se in certo punto incontro persone conosciute, queste le riconosco, certamente, ma è come se le scorgessi in tutt’altro modo, e anche l’eloquio pare cambiato e arrivo a pensare (addirittura!) che non le conosca, che mi sono sbagliato, confuso con altre persone, forse forestieri. E tutto questo accade perché il fondale è mutato, alterate le “location” e i muri di pietra non ci sono più o compaiono appena dopo un “ritocco” o un intervento strutturalmente di rilievo. E questo è vero soprattutto quando si è previsto anche il cosiddetto “recupero in pietra” che però ha poco a che fare con la pietra posta lì naturalmente, come ‘na vota, e con i sassi recuperati ovunque un tempo, e tutto pare un plastico che non migliora la vista, tutt’altro, quanto all’animo, esso fugge a gambe levate vista la nuova situazione. Ecco, dinanzi ad un “recupero in pietra” resto sbigottito, devo cambiare immagine, vista, panoramica e confinarmi in pagliai che hanno resistito, in vecchi fienili, in porcili e stalle che mantengono la loro struttura originaria. E c’è posto, forse, anche per le già antiche ombre, figure esistite e delle quali posso sentire, magari sotto un arco, i sopravvissuti odori. E in un pagliaio si può avvistare una bisaccia superstite, un basto, qualche covella, un forcone, una gravina, una sarrecchia, una camicia appesa ad un gancio vicino alle forcelle delle mucche, camicia di cotone leggero indossata l’ultima volta nell’estate del 1971 da un uomo ora non rintracciabile. Certo, dal pagliaio si potrebbe risalire al vecchio proprietario e congetturare a lungo se fosse appartenuta proprio a lui quella camicia oppure ad un suo amico durante la mietitura.

Se mi divago con altro attraversando il presente, come potrei impostarmi davanti alle ristrutturazioni? In che modo potrei seguire tutte le fasi di lavoro fino alla riconsegna d’ogni casa d’un aggregato? Certamente la sapienza di tecnici e operai è somma ma come non rivedrò mai più le facce di familiari e amici, allo stesso modo non sarò mai più davanti alle vecchie mura (con la loro anima), alle case abbandonate, alle lettere superstiti dall’America dentro il cassetto d’una credenza del 1936. Anche quelle lettere avranno avuto un sussulto a suo tempo con il sisma e non saranno più le stesse.

Mentre avanzando osservavo le diverse “messe in sicurezza”, i ponteggi, i “recuperi in pietra” le tinteggiature non proprio sobrie, la Poesia mi ha richiamato all’ordine, ha ribadito che da essa dipendo ed eccolo allora l’irrompere di quel verso di Guido Gozzano “le buone cose di pessimo gusto”. Da lì è partito tutto quello che sentivo dentro mentre avanzavo nelle ex macerie, in tutto quello che ricordavo dell’evento sismico. La Poesia sposta tutto, scansa per qualche attimo gli affanni e sa lenire le ferite dell’animo, quelle immagini che vidi nel 2009. È splendido pensare (e vedere) che lentamente tutto sarà di nuovo in asse, esposto nel Bello per la pace di tutti. Ma la mia Piazzetta del Forno sarà quella di prima?

 



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