ASSERGI, RESTAURI E STABILIZZAZIONI AFFETTIVE... - di Giacomo Sansoni
Posted by Antonio Giampaoli | 2023-06-12 | Commenti: 0 | Letto 668104 volte
ASSERGI, RESTAURI E STABILIZZAZIONI AFFETTIVE...
- di Giacomo Sansoni -
Le righe e rime che seguono sono poste a concordia con le riflessioni di Nando Acitelli in relazione alle sue considerazioni espresse, rispetto al tema dei restauri edificatori, auspicabilmente edificanti, che nel nostro paese d’elezione, tali si vorrebbe.
In questi momenti topici del vivere storico, si auspica l’acquisizione di coscienza e responsabilità, perché ogni atto minimo, ogni decisione oggettiva possono inchiodare o non inchiodare quello che gli uomini rappresentano o hanno rappresentato. Ogni volta che si altera una realtà c'è sempre un conto da pagare, e si concede, a chi ne ha voglia, il potere della fraudolenza revisionistica della storia. La coscienza civile, a volte ha pochi appigli; qualche volta solo riferimenti minimi, disperatamente minimi e perituri. A questo rango possono essere asseverate le forme e i colori della storia, che rotte ormai da secoli di vetustà e di cicliche insidie del sottosuolo, benché mitigate dall’indulgenza cautelante della roccia, da sempre, si sono dolute più per le colpevoli piraterie umane che quelle della natura. Paventiamo tutte le cacofonie, potenzialmente perpetrande tra i sommi spartiti che la storia ha impaginato. Compito elettivo è quello di rendere leggibili tutti i percorsi stratificati nel tempo, per chi vorrà appropriarsene, per la professione di uomo libero. Vi sono luoghi che danno forma alla storia per precostituente processione di domino degli eventi. Luoghi che già invogliarono le sole rivoluzioni che contano: quelle, che prima d’essere sociali, sono individuali, dentro gli uomini stessi. Le vere rivoluzioni, che attestano la condizione di autonomia dell’uomo. In quest’angolo di mondo, dove parlarono i cani, s’incantarono i sassi, i sassi costruirono un mondo, scrosciarono le acque, capirono le ragioni degli uomini, i lupi, non ancora viceversa; in questi luoghi di storia vera, se non minuta, schiava del carattere topologico della natura, emerse una coscienza dissidente, pronta agli sperimentalismi e alla sublimazione. In questi luoghi di tempo arreso, si torni, così come si fece, a saper vedere le crepe, che fanno l’uomo sempre uguale a sé stesso, a cucirle con fili che forse non entrano nelle crune dei sogni, che solo i santi e i poeti, con la mortificazione della materia seppero lenire, con fili invisibili e mani impossibili. Si torni, se non i sogni almeno a rammendare la storia. Se visibilità del tratto conservativo debba esservi, che vi sia, però, ripristino e conservazione. Vi sono tempi, scarcerati da eventi, o eventi che sprigionano tempi, in cui si aprono squarci che avvicinano i secoli. Il passato di colpo al tatto del presente, ma occorre tempestività, avvedutezza coraggio e forse visionarietà. Saper cogliere le opportunità.
Fra le opportunità che si annidano in una sapiente, avveduta opera di ripristino del corredo urbano del paese, è doveroso saper cogliere quella che consentirebbe di accrescere i pixel di leggibilità dell’opera in oggetto, ovvero anche la cinta muraria. In termini quantitativi, riacquisire cospicua metratura della facciata anteriore di parte delle mura, che hanno subito, nei secoli, irriguardose ingiurie. Avrebbe valenza estetica ed etica adoperarsi per la rimozione della cementificazione, colpevolmente apposta negli anni, nel bastione est, dove, sotto il cemento, sono ancora raffigurabili le forme di una delle torri, e il proseguo delle mura a sud-est, attualmente pareti di civili abitazioni, che culminano e procedono, con il fronte sud, oltre la torre campanaria dell’orologio: “porta Orientale”, “na porta” nell’atarassico vernacolo locale. A voler saper condurre, con pienezza di volontà e poteri, l’operazione, si assurgerebbe alla riacquisizione di una volumetria, più propriamente metratura, poiché di facciata anteriore trattasi, tanto rilevante, in termini quantitativi, da reggere il confronto con quella, che l’indulgenza del tempo, o del figlio caso, ha preservato, in forma più o meno integra, fino ai giorni nostri.
Ah! Se non sia questo il tempo e l’occasione per atti illuminati, quale quello di riportare le quinte delle case che chiudono a nord e ovest la piazza ad una sintonia storica, ricercare le pietre che hanno pienezza fabulatoria, coprire con intonaci intonati alle stesse crome esistenziali, quelle irrimediabili e che gridano vendetta. Assoggettare il ripristino post-terremoto, delle singole unità, asservendolo, alla vera unitarietà e intonazione solidale, come unicum, per risultato ed effetto, volgendo e locupletando la precostituita assoggettabilità di aggregato ad una nobilitazione auspicabilmente magnificata, rispetto ai miseri slarghi predittivi del computo amministrativo. Approfittare dell’occasione, non ve ne saranno altre. Occorrono occhi e menti aperte. Aperte a distanza esatta, distanza che affranca da miopie derivali e da presbiopie che affannano e sommergono. Il colore. Rivendicazione di colori e colori di rivendicazione. L’Ocra esperienziale, l’ossido, del fiato fisiologico del tempo che vira dall’ocra al terra. La corruzione sciamante dei licheni da un pregiudizio malachico al giallo. La memoria ciclica delle manifestazioni metereologiche che fanno segno indelebile, come lacrime senili dalle palpebre, dai davanzali, delle finestre, dalle bifore e dagli aggetti dei ballatoi. Anche per il verde occorrono aperture clorofilliche, dopo la morte naturale e indotta degli immani abeti che, rivaleggiando avevano superato l’altezza del campanile della chiesa, per i quali ancora è solidificato il rimpianto.
Il mio è il paese…
Il mio è il paese
dove i ragni
tessono il silenzio.
Il mio è il paese
dove i grilli e le cicale
liricano il pianto prefico
per le agonie dei giorni.
Il mio è il paese,
che accarna il silenzio.
Dietro il cielo,
del mio paese,
c’è un altro cielo
e l’aria è così larga
che i pensieri,
per miseria evaporano.
Il mio è
Il paese del silenzio
che affanna
e le parole
organizzano e compiono il cosmo.
Il mio è il paese,
dove il tempo
e lo spazio tengono
la materia litica dell’angoscia
e le montagne avvicinano
la paura del cielo.
Il mio è il paese,
in cui i muri della storia,
si tengono per l'orgoglio egotico dei sassi
e, il tempo li prova,
con le sue muffe entropiche.
Il mio è il paese,
dove i ricordi
sono una sudata rugiada,
che distilla e accaglia la notte.
Il mio è il paese nel quale,
perché il silenzio, che è la musica dell'eterno,
avesse confini che non spaurassero gli uomini,
parlarono anche i cani.
Il mio è il paese,
dove,
per la gravità dei miracoli,
nacque un fiume che,
diluisce, acquieta,
rapisce, placa
e dissala i destini
di chi, per fine,
o riinizio di sasso
in esso si posero.
Il mio è il paese,
che m'offrì quello che non si chiede,
e lasciò che desiderassi,
ciò che non si ottiene.
Il mio è il paese
che nemmeno un fiato di sapienza
appresi,
fuori delle sue stagioni
e delle piramidi d’estasi dei suoi giorni.
Il mio è il paese che m'affatturò
in una ferrea lagena di destino,
e m’affaticò
a cercargli la patita libertà della gola;
poi quando, fuori,
ebbi il filo sudato dei giorni,
mi svanì tra le mani.
Ora mi allevo il male sufficiente,
di sapermi lontano,
perché approdassi
al desiderio d'appartenerti,
da marinaio stanco dei bottini di vento,
in questo tempo sgranato,
in cui, le estati si logorano,
gli alberi migrano,
le facce sono conquise,
i monti non tengono più il telo del cielo,
le radure, i sentieri e i campi dei giochi,
presero la malinconiosa pubertà,
e senescono;
i muri si avvilirono
alle gravi seduzioni di terra,
e mio nonno, ormai,
non più attende, al mulino,
con il pentagramma doganale,
i neumi perplessi del fiume.
Il mio è il paese,
dove posi per endice
un sasso,
che come una chioccia
tornerò a covare,
quando si dissanguano gli anni
e si piange il dolore,
anche per la carne dei sassi.
Restauri
Non amo i restauri
che dilapidano l'ocra esperenziale delle pietre.
E' inflizione di un patimento di verginità,
senza memoria di verginità,
è desiderio d'amore senza speranza;
è farsi baciare, dalle labbra del tempo,
senza il pathos empireumatico del suo alito;
è invecchiare per sentieri inconosciuti
con un diverso rantolo delle clessidre;
è obbligo di rivivere,
senza ritentiva, un inizio
dopo aver faticato a meritarsi una morte;
perché tutto cio che torna
è irrimediabilmente perduto;
perduto è cio che rivive
e rivivere è morire ancora.
Perduto è l'ocra terreo di terracotta,
il livore avido dei licheni,
il pianto del cielo,
che sciama e s'aggetta
dalle palpebre educate delle bifore,
con le medesime gravitazioni,
come le lacrime,
dalle palpebre degli occhi degli uomini.
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