STORIE DI LUGLIO 2 - Pedalando per la Jugoslavia: preti, mare e ricordi di guerra

STORIE DI LUGLIO 2.
Pedalando per la Jugoslavia: preti, mare e ricordi di guerra
 
- di Angelo De Angelis.
 
 
 
E’ il 27 luglio dell’anno memorabile che è stato il 1970. Gli esami di stato sono finiti e noi ci concediamo una vacanza di quelle che non si scordano.
Il fatto che sto qui a raccontarla dopo 53 anni sta a significare che la vacanza in effetti non è proprio passata nel dimenticatorio.
Protagoniste della storia sono sei vecchie, pesanti biciclette. Niente auto, niente aerei, niente alberghi, sopratutto niente soldi. Siamo in sei, veniamo tutti dall’esperienza e dalla educazione scoutistica, ci accontentiamo del poco, amiamo la natura e la vita essenziale; ci piace l’avventura e ci piace scoprire il mondo.
Facciamo l’inventario delle biciclette. Sono vecchie, pesanti, le più moderne hanno tre rapporti al cambio, qualcuna con trasmissione fissa. Una sola, quella di Antonio, ha la doppia corona anteriore e quattro posteriori: una sciccheria tecnologica per l’epoca. Le dotiamo di raffazzonati portapacchi posteriori ai quali attacchiamo una piccola targa di lamiera per ricordarci a vicenda l’itinerario che abbiamo scelto: L’Aquila, Ancona, Zara, Fiume, Postumia, Trieste, Venezia…e si parte.
Lo zaino è leggero. Poche cose, e tra quelle poche anche un pantalone lungo ed una camicia per non sfigurare nei galà serali che non mancheranno. Al seguito portiamo ciascuno un paio di gambe scarsamente allenate: solo qualche uscita di venti o trenta chilometri percorsi con la lingua di fuori tra un canto e l’altro della divina commedia, durante i giorni che hanno preceduto l’esame di stato. Siamo in sei, tutti mezzi matti, non c’è dubbio. Errico, il vecchio della compagnia, studente di legge all’università di Firenze, ha saltato la sessione di esame. Antonio, il più pischello, è stato promosso al quinto liceo e vive spensierato da oltre un mese. Angelo detto Gedeone, Domenico ed io abbiamo concluso gli esami e conosciamo il risultato: MATURI. Giorgio parte la mattina dopo dell’esame senza conoscerne il risultato. Non esistono cellulari, ci sono telefonate in teleselezione attraverso un irraggiungibile centralino per le chiamate extraurbane e per le internazionali ci vogliono prenotazioni aventi tempi biblici. Inutile pensare al telefono come mezzo di informazione: o pedaliamo o telefoniamo. Una lettera “fermo posta” alla stazione di Venezia rivelerà il voto conseguito. E per Giorgio, l’unico con maturità classica, il più intelligente, il più secchione, sarà una grossa delusione quel “misero” 54 sessantesimi che troverà scritto nella lettera, l’obiettivo mancato del sessanta per lui fu una grande delusione.
Partiamo con un avventuroso treno che porta noi, biciclette e zaini fino ad Ancona. Un traghetto notturno è in partenza per Zara; abbiamo acquistato biglietti come passeggeri di ponte e non ci facciamo illusioni sulla comodità del viaggio che ci aspetta: distendiamo i sacchi a pelo sul ponte scoperto più basso, in modo da avere il ponte sovrastante come pensilina. All’una di notte ancora non prendiamo sonno, la brezza umida del mare e qualche schizzo di acqua salata ci toglie il respiro e ci impedisce di dormire; cominciamo a passeggiare per la nave: il bar, il bazar, scale a chiocciola che salgono e scendono, una visitina furtiva alla sala macchine. All’improvviso ci troviamo davanti al muso una targa con scritto PASSEGGERI DI PONTE. Strabuzziamo gli occhi ed entriamo: un grande salone con salottini allineati fatti di comode poltrone di pelle bianca, aria condizionata, un bar annesso, bagni assolutamente lussuosi e spaziosi, se paragonati al cesso dei treni che ci hanno portati dall’Aquila ad Ancona. Raccattiamo gli zaini dal ponte scoperto e di accomodiamo nel salone, a mo’ di sfollati, riusciamo persino a dormire finchè l’alba non ci mostra la nostra terra promessa: sbarchiamo a Zara.
Prima destinazione l’istituto salesiano del posto, il nostro arrivo preannunciato da don Fabrizi, salesiano casereccio di nostra conoscenza. Ci accoglie don Vlado: una decina di anni più di noi, fisico asciutto, lineamenti taglienti, aspetto tipico slavo. Parla un italiano di buon livello; è persona cortese, fraterna, affabile. Errico, il più scafato, sussurra col suo spiccato accento fiorentino: chissà quante donne fa sospirare ‘sto prete! L’ambiente è povero: il regime Titino non concede e non permette lussi a nessuno ed a maggior ragione ai religiosi; ed i fedeli che contribuiscono al sostentamento del clero sono pochi.
Apprezziamo moltissimo il pranzo: la perpetua ha tirato il collo ad un pollo e sicuramente quel pasto non ordinario costituisce un grande lusso per chi ci ospita. Notiamo don Vlado e la perpetua che, sicuramente complici, partecipano solo simbolicamente al pasto. Quando li salutiamo lasciamo loro un’offerta per i poveri della parrocchia. Il valore del denaro, piccolo per noi, è smisuratamente alto per loro, che restano sorpresi e contentissimi.
Inforchiamo le nostre bici e finalmente partiamo.
E’ domenica. I negozi sono tutti chiusi e abbiamo dietro solo della carne di maiale in scatola acquistata a buon prezzo sul traghetto. Cerchiamo un alimentari per accompagnare con del pane il suino e per fare altre scorte: tutto chiuso meno che un bar che di simile al pane ha soltando dei pasticcini dolci. L’abbinamento con il companatico non è perfetto, ma la necessità di nutrirci vince ogni repulsione, ci tappiamo il naso e mandiamo giù.
L’itinerario scelto, il lungomare adriatico dell’altra sponda, lo abbiamo immaginato tutto pianeggiante e abbiamo pregustato una lunga pedalata in pieno relax; siamo rimasti delusi al punto di rimpiangere il giro della Svizzera, inizialmente programmato. La strada costiera è fatta di continui saliscendi qualche chilometro di salita ed altrettanti di discesa, con la differenza che le salite non finiscono mai e le discese sono velocissime. La prima tappa, da Zara a Karlobag, è una via crucis, con i suoi novantatre chilometri di sofferenza, sudore e qualche dolore muscolare. Stessa sofferenza, un po’ abbreviata per via dei suoi sessantaquattro chilometri il giorno seguente fino a Senj. Incrociamo un gruppo di ragazzi sfigati come noi che, zaino sul portapacchi posteriore, si muovono con agilità cavalcando dei favolosi motorini Piaggio Ciao! Ci osserviamo a vicenda incuriositi, poi uno di loro, osservate le targhe identificative delle nostre biciclette, esclama: sono Italiani anche loro! Fraternizziamo per il tempo necessario a noi per riposarci un po’, a loro per far riprendere fiato agli spompati cinquantini che cavalcano. Ci dicono che lungo le salite costiere una pedalatina di supporto al motore la devono dare anche loro; ma noi li guardiamo ugualmente con invidia e ci sentiamo tanto compagni poveri di vacanza. Ci salutiamo fraternamente ed ognuno per la sua strada.
Il fine tappa è magnifico: sole, mare e riposo. Qualche danno ai piedi, sforacchiati dai ricci di mare e sfettucciati da taglienti rocce del fondale. Chi si diverte più degli altri è Antonio, che sa nuotare e ci causa non poche preoccuapazioni quando lo vediamo allontanarsi dove noi non ci avventuriamo per il terrore dell’acqua alta. Portiamo dietro una tenda leggerissima, buona solo per dividere gli occhi dal cielo stellato, decidiamo di non montarla: felicità, la notte, è dormire sotto un cielo di stelle annullando la distanza tra noi ed il paradiso.
Da Senj direzione Rijeka, che preferiamo chiamare con vecchio nome italiano: Fiume. Mancano una trentina di chilometri e ci troviamo, percorrendo il solito saliscendi, in riva al mare all’altezza delle cittadine di Kavranj e Porto Re. Una stretta e lunga insenatura si apre davanti a noi; sembra un luogo ideale per l’utilizzo come porto naturale. Non siamo noi i primi a pensarlo. Quel golfo si chiama Buccari, ed il ricordo corre alle pagine del libro di storia appena archiviato, che parlano della prima guerra mondiale e della famosa BEFFA DI BUCCARI messa a segno da uno scapestrato e spavaldo Gabriele d’Annunzio. Corriamo con la fantasia a bordo di tre veloci motoscafi, i MAS, armati ciascuno di due siluri, che nottetempo si intrufolano furtivi tra navi imperiali asburgiche. Un solo siluro va a segno ed affonda uno dei piroscafi alla fonda. Scatta L’allarme ed i MAS riprendono a tutta velocità il mare aperto, tornando indenni ad Ancona. Gli austriaci salutano militarmente i tre motoscafi, scambiati per naviglio amico e D’Annunzio, da grande egocentrico qual è, lascia dietro di se una lunga scia di bottiglie con all’interno la bandiera italiana: un anticipo spavaldo dell’altrettanto famoso volo su Vienna.
Dopo la fuga fantasiosa a bordo dei MAS, triste realtà, ci ritroviamo a pedalare sulle nostre pesanti biciclette. Osserviamo la strada: non ci aspetta il solito saliscendi costiero, ma una lunghissima salita che corre intorno al golfo fino a raggiungere un valico in quota, distante oltre dieci chilometri. E’ l’ora più calda della giornata, i muscoli cominciano ad abituarsi, ma soffriamo il caldo e soffriamo molto anche la salita. Cominciamo a disunirci, facciamo una pennichella ristoratrice a bordo strada. Ripartiamo un po’ ritemprati e Giorgio intona, con voce flebile per risparmiare il fiato, il ritornello di una famosa canzone Irlandese, che ci da il tempo per pedalare all’unisono:
It’s long way to Tipperary
It’s a long way to go.
It’s a long way to Tipperary
To the sweetest girl I know!
Goodbye Piccadilly
Farewell Leicester square
It’s a long way to Tipperary
But my heart’s right there.
Biascichiamo in un approssimativo inglese maccheronico tutte le parole di questa vecchia canzone di guerra…tutte, meno che It’s long way: lontana è la strada. Questo certo non ci rincuora, ma ci da il giusto ritmo per affrontare la lunga, dura salita che abbiamo davanti.
Saltano i nervi per la stanchezza, salta il ritmo della pedalata, saltano anche alcuni raggi della ruota posteriore della mia bicicletta, che si ovalizza e che ad ogni giro struscia contro il telaio frenando la mia già faticosa salita.
It’s long way, lontana è la strada, ma per quanto lontana alla fine arriviamo in cima dove compare come un miraggio un chiosco dove un anziano uomo vende bibite ghiacciate; ma miraggio non è. L’uomo del chiosco ci accoglie con un sorriso ed a braccia aperte: dice di aver seguito con lo sguardo e col cuore tutta la nostra piccola traversata del sahara e di averci un po’ invidiati e tanto ammirati. Ci offre le bevande senza farci pagare un centesimo.
Il solo ricordo di quella salita mi ha stancato da morire e non riesco per la fatica neppure più a scrivere. Cosa succede nei giorni seguenti ve lo racconto la prossima volta.

 



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