IL TEMPO SI MARCA A UOMO - I più bravi calciatori assergesi, aquilani e abruzzesi

IL TEMPO SI MARCA A UOMO - I più bravi calciatori di Assergi, de L’Aquila e dell’Abruzzo

 

- di Fernando Acitelli -

 

                            Non ci sarà mai un altro Pelè.

                            Mio padre e mia madre hanno chiuso

                            la fabbrica.

                             Pelè

 

                            Il calcio è uno dei mezzi

                           di comunicazione migliori al mondo:

                           è imparziale, apolitico e universale.

                           Franz Beckenbauer

 

                           David Beckham non sa calciare

                           col piede sinistro, non sa colpire

                          di testa, non sa contrastare

                          e non segna molto. A parte ciò

                          è un buon giocatore.

                          George Best             

 

In tempo di vacanza si finisce nei luoghi della fanciullezza e sembra che tale scelta avvenga per una medicazione interiore, per non far fuggire il tempo e osare su di lui una autentica, italica, marcatura “a uomo”. Già il rivedere gli amici di un tempo lontano suona come una distrazione dal quotidiano, una lieta sospensione da affanni, scadenze, frasi senza futuro nel cicaleccio d’angolo. Ad Assergi, mio luogo lirico e paese dei miei genitori, si possono incontrare quelle figure che una volta si chiamavano “vecchie glorie”, calcisticamente parlando. Dunque può accadere d’imbattersi in Berardino Giusti, di professione centravanti dai primi  anni ‘60 fino all’inizio del successivo decennio. L’andatura è la stessa del suo tempo giovanile, longilineo, spensierato anche negli eventi d’area di rigore con uno o più uomini addosso. La sensazione è di vedere un calciatore con una storia di rilievo – per me chi ha calcato i campi di calcio merita considerazione e rispetto - e nel suo passo ora si possono leggere tutte le “campagne militari” d’un tempo; e con i suoi racconti partono i fotogrammi della sua vita calcistica. Gli eventuali scricchiolii sono interiori e d’essi, in strada, si può cogliere soltanto qualcosa, si può immaginare. Berardino Giusti è stato un calciatore e la serie C lo ha riguardato e la sua maglia è stata quella de L’Aquila. Seppi del suo arrivo tra i rossoblu  nell’estate del ‘65, in occasione delle vacanze ad Assergi. Subito sognai per lui il gran salto negli scenari della serie A e anche in quell’occasione la mia visione epica del calcio s’innalzò. Non lo ritenevo un evento straordinario e già pensavo di riferire ai miei amici a Roma che un amico di Assergi aveva ricevuto la chiamata da un grosso club, e mi sarei contentato anche d’una squadra di serie B. Tale passaggio tra i cadetti lo avrei considerato una sorta di “sala di attesa”, il giusto apprendistato prima dei dialoghi ravvicinati con i vari Anquilletti, Giubertoni, Galdiolo, Bet. Ma stavo sognavo per l’appunto e, come si sa, tutto è gratis nelle evanescenze oniriche.

C’è sempre un’origine nelle umane avventure e così il primo campo di gioco fu ad Assergi, nella solennità della Piazza. Le porte toccavano i due estremi, il muro sotto il campanile e la casa di Giovanni De Luca: un ostacolo non lieve per i dribbling e le triangolazioni  la fontana   I calciatori

A me e mio padre non restava altro da fare che recarci a vedere Berardino Giusti (1947) a Roma visto che l’Aquila era nel girone che comprendeva anche alcune squadre romane come Almas, Tevere Roma, Stefer e Romulea. Nello stesso girone si trovavano anche compagini della Sardegna come Calangianus, Torres, Olbia.

I ragazzi di Assergi che furoreggiavano nella Piazza erano, oltre a Berardino Giusti, Emidio Massimi, Antonio Scarcia, Mario Masci, Antonio Massimi, Angelo Giusti, Fausto De Simone, Giovanni e Pasqualino D’Antonio. Dunque si trattava d’una agguerrita schiera di volenterosi in un tempo in cui i rispettivi genitori reclamavano la presenza a casa dei propri figli per le faccende serie, operose e non certo per il “sublime ozio” del correre appresso ad un pallone. Tutte le partite avvenivano di pomeriggio e in quel tempo fermo (specialmente d’inverno) qualcuno dagli usci occhieggiava (o imprecava): sguardi ad apparire appena da dietro gli scuri, come foto in ovali stinti in una sala da pranzo; imprecazioni lievi forse di Flavio di Piazzare, forse di Laurino Lalli dalla sua ingegnosa bottega prima della casa di Serafina Pace.

Il secondo campo importante di Assergi fu a Piedi la Valle ed esso fu realizzato grazie all’intervento dell’assessore Antonio Alloggia. Si trattò indubbiamente d’una scelta felice non soltanto perché tutt’intorno dominava il verde e dunque i ragazzi erano immersi nella natura ma anche perché potevano esprimersi in tutta libertà senza che vi fossero grida (giustificate, peraltro) da parte di chi aveva la casa nella Piazza e desiderava solamente vivere nella quiete. Il passaggio a questo secondo campo equivalse ad un miglioramento interiore, ad un entusiasmo: i dribbling poterono affinarsi, i cambi di gioco (certo, esistevano anche allora) accaddero con frequenza e qualcuno tra i calciatori pensò d’essere al “Maracanà” di Rio de Janeiro o allo “Stadio del Centenario” di Montevideo, e ancora al “Monumental” del River Plate, a Buenos Aires.

Certamente, ogni tanto il campo di calcio era lambito da contadini a dorso di mulo ma tutto questo non faceva che donare un polline poetico al luogo.

Berardino Giusti frequentava l’Istituto Tecnico per Geometri a L’Aquila, scuola che si trovava all’interno di Palazzo Cidonio in via San Flaviano. La sua classe era la 1° B ed era composta da trentacinque studenti. Un giorno accadde un fatto importante: durante l’ora di ricreazione nel corridoio – era un lunedì – alcuni ragazzi un po’ più grandi di Berardino stavano commentando le fasi della partita di calcio del Pizzoli effettuata il giorno prima. Così vi erano resoconti di esultanze e cadute ed erano proprio quei ragazzi i protagonisti di tali narrazioni: giovani calciatori del Pizzoli che riassumevano alcune azioni in cui uno di essi veniva criticato per certe giocate non proprio esemplari mentre magari accadeva che il portiere o la mezzala venivano elogiati per alcune prodezze effettuate. Sentendo tutto questo – era un rituale che si ripeteva ogni lunedì – Berardino nell’ora di ricreazione si avvicinò a quel gruppetto di giovani atleti chiedendo loro se fosse stato possibile per lui effettuare una prova con la squadra del Pizzoli. Quei ragazzi non rimasero entusiasti di quella richiesta e, in un certo senso, snobbarono quel loro compagno di scuola con frasi del tipo:«Ma dove vorresti andare?» e anche:«Guarda che il calcio non è per te…» ed altre sottolineature non proprio incoraggianti. Naturalmente il tutto riferito in dialetto che, come si sa, possiede in sé anche delle punte di intensità. Alla fine di quel breve colloquio, comunque, non gli negarono la possibilità d’effettuare il provino che fu fissato per il mercoledì successivo. Anche in quell’occasione Berardino Giusti dovette constatare di dover contare soltanto su di se stesso.

E la prova ebbe un esito più che lusinghiero, e adesso che sono qui ad assemblare tutti questi sublimi frammenti mi viene da riflettere e dunque un breve quanto intenso racconto sarebbe comporre i vari pensieri che affrescarono la mente di Berardino Giusti spostandosi egli da Assergi a L’Aquila per proseguire poi verso Pizzoli per effettuare la prova. Quali i suoi affreschi di cuore, le sue speranze all’interno della corriera? E quali giocatori sognò del calcio italiano e mondiale? Era il 1963 e dunque poteva riferirsi al gol del brasiliano Amarildo (praticamente dalla linea di fondo) nella finale del Campionato del Mondo del 1962 contro la Cecoslovacchia. Oppure alle eleganze geometriche di Schiaffino e ancora ai quattro gol di Alberto Orlando in Nazionale nella partita Italia-Turchia  con il risultato di 6 a 0, match disputato a Bologna il 2 dicembre 1962. Ritengo che sarebbe un grande racconto: ad ogni paese da Giusti attraversato un capitolo con tutte le sue immagini – calcistiche e famigliari - rese con la parola scritta. Dunque, tanti capitoli quanti furono i paesi attraversati e si finirebbe quasi con lo sconfinare nel romanzo visto che da Assergi a Pizzoli – transitando per L’Aquila – i paesi erano molti. Sue immagini di speranza, di entusiasmo, di riconoscenza verso i propri genitori da unire a eventi calcistici già interiorizzati.

S’è detto della prova felice che egli effettuò e così anche quei compagni di scuola (non di classe) dovettero accettare il cosiddetto “verdetto del campo”. Fu schierato subito con gli Allievi e vennero gol a raffica e tra i dirigenti si pensò veramente che s’era in presenza d’un talento. Ammirate le sue eleganze e anche la sua concretezza, il passaggio dagli Allievi alla prima squadra avvenne subito. La partita da ricordare, il suo debutto in prima squadra a sedici anni: Oratoriani de L’Aquila contro il Pizzoli allo Stadio Federale. Partita vinta dal Pizzoli e gol anche di Berardino Giusti. Era il 1963. Chissà in che modo egli festeggiò quel giorno. Forse lo riferì ai suoi affetti ma non è detto che andò così perché erano tempi in cui dominava, tra i famigliari, l’epica della concretezza e non il “correre appresso ad un pallone”. Lo Stadio Federale portava bene a Berardino Giusti se nella partita di Prima Categoria Pizzoli–Amiternina seppe superarsi con due gol favolosi, il primo a seguito d’un calcio d’angolo: egli andò incontro al cross anticipando così il suo marcatore e scompaginando i piani difensivi degli avversari. Seppe colpire il pallone componendo un effetto d’esterno da calciatore brasiliano. Tale prodigio estetico non poté che finire all’incrocio dei pali. Questo avvenne nel primo tempo mentre, nella ripresa, con il Pizzoli sotto assedio, vi fu ad un certo punto un rinvio salvifico del terzino destro del Pizzoli, Lesca. Si trattava d’un tiro che intendeva soltanto alleggerire l’assedio ma finì col comporre un lancio perfetto per Berardino Giusti. Costui stazionava sulla linea di centrocampo, naturalmente al di qua per non finire in fuorigioco: lo scatto fu perfetto come pure il controllo a seguire della palla. Gli riuscì di cogliere con la coda dell’occhio, in un silenzio metafisico che soltanto egli avvertì, il portiere molto in avanti rispetto alla porta e così, scansando ogni titubanza, compose un tiro lungo a scendere che superò facilmente l’estremo difensore finendo quella traiettoria in rete.

Il 1964 fu l’anno che vide Berardino Giusti giocare in Promozione, dunque s’era vinto il campionato di Prima Categoria. Per un ragazzo di 17 anni giocare in Promozione significava molto in termini di prospettive ma la storia aveva ancora molto da offrire e così, nel 1965, ecco che il centravanti di Assergi venne acquistato dall’Aquila Calcio. Tutto così velocemente: dal provino con il Pizzoli nel 1963 all’arrivo tra i rossoblu che militavano in serie C. Tra i ricordi più intensi di Berardino Giusti, c’è quello per un suo compagno di squadra, un certo Cignitti. Costui aveva un modo di calciare i calci d’angolo che sembrava fatto apposta per lo stacco di Giusti. Tocco da costruttore di gioco e cross a parabola intensa. Sulle punizioni c’era intesa perfetta: un lieve cenno del dito di Giusti ed il suo compagno componeva perfettamente la parabola per il primo o il secondo palo a seconda dell’indicazione del dito di Giusti.

MEMORIALISTICA DI BERARDINO GIUSTI

1° RICORDO: un uomo di Rocca di Mezzo confessò candidamente al centravanti di Assergi di seguire il Pizzoli soltanto per vedere all’opera Berardino Giusti.

2° RICORDO: Sulla spiaggia di Alba Adriatica Berardino Giusti fu riconosciuto dallo stopper del Teramo di anni prima (all’epoca d’un Pizzoli-Teramo) e che in seguito sarebbe finito al Bologna. Costui era ancora favorevolmente meravigliato del gol realizzato da Giusti: controllo al limite dell’area, finta sulla sinistra, lesto spostamento a destra e gol di destro all’incrocio. Da ricordare come il destro non era il suo piede privilegiato.

3° RICORDO: Italo Acitelli seguiva sempre L’Aquila quando questa squadra veniva a giocare a Roma. Una volta accadde che in una di queste trasferte (mi pare fosse il “Campo Sant’Anna” contro l’Almas) i calciatori rossoblu erano esausti dai troppo intensi allenamenti. Cadevano ad ogni azione ed erano irriconoscibili. A detta di Berardino Giusti quello che rimase bello di quella partita - ma sarebbe da dire di tutto quel periodo - fu la frase di Italo Acitelli che vedendo il suo compaesano Giusti in quelle condizioni, a fine partita lo chiamò presso di sé, alla rete di recinzione. Giusti lo riconobbe e lo raggiunse. La frase di Italo Acitelli fu questa: «Berardo, ma tu a pallone ci sapevi fare, cosa ti è successo?». Secondo Berardino Giusti mai frase fu più appropriata perché Italo aveva visto più volte all’opera il centravanti e non riusciva a capire come adesso l’attaccante non fosse più in grado di muoversi elegantemente e con spunti di rilievo. In quella partita Giusti parve un’altra persona come del resto i suoi compagni di squadra. Evidenti disavventure di chi aveva puntato troppo sul fondo dimenticandosi dell’umanità dei calciatori. Per sua stessa ammissione, quella frase di Italo Acitelli fu emblematica, una sorta di iscrizione latina, chiarificatrice d’un momento storico de L’Aquila Calcio.

Se il ricordo del campo è quello, credo che due parole debbano essere spese per quel luogo spettacolare che era il “Campo Sant’Anna”. Esso non aveva soltanto il manto verde, curatissimo ma si trovava nell’area archeologica delle Tombe Latine. Uno scenario meraviglioso s’aveva davanti, incredibile aver ottenuto il permesso per realizzare quel campo in tale area sacra. Un tocco composto su quel terreno di gioco distingueva quegli attimi, il gesto tecnico finiva nella galleria della classicità perché effettuato in un luogo antico. Ma non tutti sugli spalti o dietro la rete di recinzione coglievano simili avventure dello spirito, certi pensieri ad andatura lirica.

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA TECNICA DI BERARDINO GIUSTI

Berardino Giusti, dimorante a quel tempo nella sua casa nel cuore di Assergi, a breve distanza dalla Piazza, era un centravanti tecnico, svelto e lontano come figura da quei colossi d’area che si fanno spazio creandoselo a ragione del corpo. Costoro sono attaccanti che spesso cercano l’appoggio sul difensore per poi girarsi e imbastire una triangolazione o un tiro. Inoltre possono anche esibirsi in giravolte o richiedere profondità verso cunicoli creati dai loro movimenti.

Berardo Giusti era un centravanti sapiente, anche distributore di gioco sulla zona di confine tra il rifinitore e la punta e infatti sapeva anche giostrare una volta ricevuta la palla e fintare e quindi comporre ariose aperture sulle ali muovendo egli poi verso i suoi luoghi centrali. Ripensando a sue azioni che adesso riemergono qua e là sebbene un poco acquerellate, attualizzo quel suo muoversi sul fronte d’attacco e penso (sogno!) il centravanti arretrato oggi chiamato falso nueve, e le immagini così s’assommano e penso al passato da Hidegkuti a Criscimanni nell’Avellino e nell’Udinese di Luis Vinicio. Lo spunto nel breve era efficace e, scartato sulla sua destra il difensore,egli copriva la sfera con il corpo ma quello che mi rimase impresso fu lo stop di petto con il pallone che si quietava poi in terra: un’azione di stile. Pure se il pallone era un rilancio lunghissimo del portiere o del libero, la capacità di Berardino Giusti d’attenuarlo al suolo era meravigliosa.

Dopo l’avventura con L’Aquila seppe concentrarsi sulla vita e anche lui optò per un buen retiro che, nel suo caso, fu una sublime retrocessione al luogo di libero: era ancora distante il frasario ora già eroso, saccheggiato, di “centrale difensivo”, esterno destro, braccetto di sinistra e poi ripartenze. Per lui come per lo scrivente s’era ottimamente rimasti al frasario che prevedeva il libero, lo stopper, il mediano di spinta, il tornante e il nostro italico, mai dimenticato, contropiede.

***

Oltre a Berardino Giusti ad Assergi si distinsero altri due ragazzi: Luigi Faccia (1961); e Angelo Faccia (1968). Con il Paganica Calcio il primo giunse anche nel campionato Eccellenza mentre il secondo rimase nella Prima Categoria fino a che gli impegni di lavoro lo chiamarono altrove. Luigi Faccia fu spesso mio avversario nelle partite estive ad Assergi e a quel tempo mi colpì la sua forza fisica, la sua assenza di paura in ogni contrasto e poi il forte tiro, anche da fermo. Era logico che con un fisico così scolpito e poi preparato al meglio atleticamente potesse giungere nel campionato di Eccellenza. Ho anche ascoltato voci le quali riferivano che, senza gli altri due sport nei quali si distingueva – lo sci (di cui è maestro, ed il ciclismo – sarebbe potuto andare ben oltre l’Eccellenza. Si muoveva su tutto il fronte d’attacco, prediligendo le ali. Vedendolo partire con forza e irruenza sulla fascia sinistra lo si poteva accostare ad Elkjaer, il calciatore danese campione d’Italia con il Verona nel 1985. Giostrando invece sulla fascia destra, a me sembrava Rocco Pagano l’ala tecnica anche del Pescara, colui che, a detta di Paolo Maldini, fu il calciatore che lo mise più in difficoltà tra tutti gli avversari incontrati. Senza azzardare si può dire che Luigi Faccia non avesse difetti (visibili) e infatti oltre alla velocità, al dribbling e al tiro potente poteva contare anche sullo stacco di testa che era imperioso: eccelleva dunque sia nei duelli aerei che a terra. Ma tutto questo suo repertorio di tecnica, forza e potenza pareva attenuarsi durante le partite estive tra gli amici, come se egli non volesse “stravincere” contro i suoi compagni di Assergi, ragazzi dal tocco normale.

Angelo Faccia contava molto sulla sua grinta e su un principio fondamentale per lui, quello di non arrendersi e di essere estenuante sia in fase difensiva che offensiva. Un ragazzo difficile da superare proprio a ragione della sua grinta e del suo voler sempre rispettare le consegne. Dai racconti emergono sempre spunti di sublime, come il fatto di prendere in consegna il ragionatore avversario o colui che – piccolo fuoriclasse – poteva mettere in difficoltà il Paganica. Ecco allora che lo si vedeva vivere ravvicinato a quel dispensatore di gioco, a quella fonte di eleganze in proprio e di profondità. Ma non sempre in una squadra avversaria v’era colui che poteva minare le strategie propositive del Paganica e allora ecco che Angelo Faccia – in verità un jolly perfetto in ogni zona del campo, preziosità  sparse in ogni settore – giostrava sulla prediletta fascia sinistra e in simili occasioni erano gli avversari a dover raddoppiare o comunque ad allestire piccole dighe per arginare l’irruenza e la difesa ad oltranza del pallone. Partiva da lontano, avanzava, cercava ed otteneva lo scambio e, quando se ne presentava l’occasione, ecco che l’evento balistico s’innalzava.  La grinta e la determinazione di Angelo Faccia oltre che con il corpo si leggevano nel suo sguardo. Luigi Faccia è il cugino di Angelo Faccia e dunque quanto narrato per il primo vale anche per il secondo: punti di contatto tra i due evidentissimi quanto a propensione offensiva, grinta, potenza nel tiro e “cattiveria” agonistica. È stato bello scovare vecchie fotografie, è con esse che si può testimoniare un tempo dissolto, quello della forza, della spensieratezza e della maglia aderente al corpo come testimonianza dell’integrità fisica. Dove è stato possibile s’è proceduto per tabulas e pare così che la narrazione sia ancora più vera.

A fine carriera, a 23 anni, giustamente preso dal lavoro, Angelo Faccia trovò anche il tempo per vincere un torneo di calcetto a Filetto e nella finale ripeté quanto di potente ed decisivo aveva messo in mostra nell’età dell’adolescenza.

DALLA CITTÀ DE L’AQUILA VERSO IL FOOTBALL

Esempi notevoli che, letti durante la mia adolescenza, mi facevano sentire ancora più vicina la città de L’Aquila. Il primo che scovai fu Giuseppe Picella (1945) che giocò in molte squadre e, oltre che con L’Aquila,  toccò la serie A con l’Atalanta. Ma tante furono le presenze con la Reggiana e nelle figurine era definito MEDIANO DI SPINTA, nella vecchia e nobile accezione. A seguire seppi d’un altro mediano, Giancarlo Centi (1959), una vita con il Como (più di trecento presenze) ma anche con indosso le maglie dell’Inter e dell’Avellino. Non c’era possibilità di dimenticare Fabrizio Catelli (1969), di ruolo centrocampista e con tante presenze per ogni maglia che aveva indossato, dal Perugia all’Atalanta all’Avellino alla Triestina, chiudendo poi da dove era partito, cioè L’Aquila. Damiano Zanon (1983) testimonia la continua presenza della realtà de L’Aquila come luogo di nascita di molti calciatori. Che poi non siano stati autentici campioni poco importa, l’importante che possano dire che il luogo d’origine è L’Aquila. Zanon è ancora in attività e la sua squadra è l’Avezzano e a quarant’anni è ancora al suo posto. Come si sa, lasciare il calcio è doloroso.

E ancora: diamo un po’ di luce a Lorenzo del Pinto (1990); è un centrocampista e ha indossato tante maglie dal Chieti al Benevento, dalla Reggiana al Potenza. È importante citarlo, è un altro ragazzo di L’Aquila e con la maglia della sua città ha collezionato tante presenze. Anche con il suo frammento si può comporre il grande affresco de L’Aquila calcistica.

L’ABRUZZO HA VISTO NASCERE TANTI CALCIATORI

Siamo partiti da Assergi quindi abbiamo trattato L’Aquila e adesso giungiamo, di volo, all’Abruzzo. Dunque dal paese al Capoluogo alla Regione. È evento legato all’emozione ricordare un buon numero di calciatori e, con essi, ci pare che il nostro tempo se non del tutto integro ci appare lievemente lesionato. Anche con questi calciatori andammo avanti nella vita sognando per loro (e per noi) il meglio. Paolo Braca (1944) da Giulianova giunse addirittura al Napoli di Sivori ed in una partita allo Stadio Olimpico contro la Roma di Oronzo Pugliese seppe con bravura andare in gol anticipando il difensore romanista Gennaro Olivieri. Raddoppiò poi Sivori. Lunga poi la sua militanza con il Catanzaro. Da chiamare in scena poi Giuseppe Lely (1952) da Roseto degli Abruzzi, terzino coriaceo ma anche disinvolto in avanti: Fiorentina, Sampdoria, L.R.Vicenza le sue preziosità. Bartolomeo Di Michele (1957) da Pescara, centravanti di sostanza, molto forte di testa. Marco Cosenza (1958) da Giulianova: non si mosse dall’Abruzzo e collezionò anche due presenze in serie A. Domenico Morfeo (1976) da San Benedetto dei Marsi, forse il talento più puro nato in Abruzzo: squadre di rilievo nella sua carriera: Fiorentina Inter, Milan Parma. In un’altra nazione avrebbe giocato molte volte in Nazionale. Anche suo fratello Mario (1978) fu calciatore con una sola presenza in serie A. Da citare poi Luciano Zauri (1978) da Pescina, il paese di Ignazio Silone. Quando morì il grande scrittore, Zauri aveva otto mesi. Una grande carriera la sua – con Atalanta e Lazio su tutte - ricamata inoltre da cinque presenze in Nazionale. Da ultimo ci preme ricordare l’ala destra Annibale Frossi che se non nativo d’Abruzzo, giocò ne L’Aquila nel 1935-36. Egli fu medaglia d’oro con il calcio alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Laureato in giurisprudenza fu un grande studioso del Calcio e contribuì all’evoluzione tattica del fantastico gioco.

 



Condividi

    



Commenta L'Articolo