NON SI HANNO NOTIZIE N. 2 - (Appunti su un discorso amoroso)

NON SI HANNO NOTIZIE N. 2

(Appunti su un discorso amoroso)

- di Fernando Acitelli -

Non sapere più nulla di una persona conduce ad un’accelerazione della fantasia. Si creano paesaggi fino al limite del sogno e si tratta, in verità, d’una beatitudine che sappiamo “a tempo”, un accadimento privato che rilascia un tepore benefico, un miglioramento interiore, una quiete inspiegabile fino a pochi momenti prima. È come un farmaco “a lento rilascio”, salvifico, sollecitatore di speranza, ancora, per la vita. La sensazione, in tali momenti, è di trovarsi in un convento isolato con pochi frati superstiti, balbettanti, ciondolanti, sfiniti dalla preghiera e da un otium non più fortificante. Un simile convento resiste dal Medioevo e si è stati accolti, raccolti dalla strada proprio alla maniera d’un viandante, esausto dell’ortodossia, della vendita delle indulgenze ma anche delle tante eresie che ha udito tra un Granducato e un altro: eresia catara, dolciniana, hussita, e dei seguaci di Ario, di Roscellino e di Berengario da Tours. Tale sublime confusione ha portato il viandante – che è in verità un vagabondo - alla vertigine ed è stato un evento meraviglioso l’essere accolto in quel convento poco prima d’un bosco. Nel quadriportico con l’orto ad erba tenue, curatissima, e nel centro un pozzo con catena per cogliere l’acqua, si è lentamente raggiunta la quiete e si è potuto mettere dunque ordine ai propri pensieri che erano del tutto spettinati. Costui avrà certamente pensato:«Qui dentro non sarò raggiunto da nessuno…sono veramente fuori dal mondo». E già un simile pensiero gli ha donato un vigore nuovo.

Nella nuova condizione, sentirà più vicina quella persona della quale non ha notizie da molto tempo. Ma proprio questo fatto dell’assenza di notizie farà sì che avvertirà quella persona ancora più vicina, e sarà proprio l’esilità delle notizie a far sì che ogni immagine remota diventi per lui un “assoluto” trovando, alla fine, in quei fotogrammi un rifugio.

Si passeranno ore a fantasticare nel convento ed il quadriportico assurgerà a luogo d’intensità emotive anche di notte. Qualche frate disilluso occhieggerà dalla celletta verso fuori e lo vedrà passeggiare anche sotto la luna: proverà invidia per quel vagabondo giunto chissà da dove ed ora al sicuro in quel convento. Non prenderà i sacramenti avendo toccato l’estasi senza intervento soprannaturale, soltanto con il silenzio ed il raccoglimento in quel luogo. Naturalmente il divenire che non risparmia niente e nessuno continuerà anche tra quelle sacre mura il suo ottimo lavoro di lacerazione degli affetti. Si tratterà dunque d’un tempo sospeso, favorevole, e d’una sequenza bellissima di giorni fino ad allora soltanto sognata: scenario dove non accade nulla che possa turbarlo. I suoi comportamenti non saranno forse condivisi dai frati che usciranno dal torpore della preghiera divenendo di colpo (e di nuovo) umani. «Ma cosa penserà costui, uomo senza Dio?» - questa una delle loro riflessioni vedendolo sfilare tra lapidi scheggiate e richieste di grazia scolpite nel marmo. Né i cistercensi lo inviteranno alla Confessione e all’Eucarestia.

Dunque è stato così ed io Geneviève Mosca non l’ho più rivista ma, in uno stato di quiete e di benessere interiore come quello che può donare un convento isolato poco prima d’un bosco, mi sarebbe facile sognare e dunque ricomporre le traiettorie emotive di chi più non incrocio da gran tempo. La fantasia di cui si parlava all’inizio della narrazione è esattamente immaginare il luogo adatto, favorevole, un convento appunto, dove accade il nitore delle immagini remote e tutto è di nuovo in luce come vissuti e lo spettacolo della vita è anche (ma direi soprattutto) il ricordo. Spogliato di tutto, con il mio cuore messo a nudo (Mon coeur mis à nu), non avrei difficoltà ad essere un veggente (Lettre du Voyant) ma in questo caso soltanto per guardare all’indietro e non leggendo nel futuro, dando interpretazioni a mente serena nel solito dolore dell’esistenza. Potrei a questo punto citare anche Sagesse, raccolta poetica di Paul Verlaine, altro grande poeta, nativo di Metz, città che era a breve distanza dai luoghi dove viveva Geneviève. Ma dalle sue parti era nato anche Arthur Rimbaud, precisamente a Charleville, e dunque la storia della Poesia francese la riguardava in pieno, almeno geograficamente. Citando Baudelaire, Rimbaud e Verlaine ho la sensazione di sentire accanto i tre fuoriclasse della Poesia francese dell’800.

Geneviève ha impreziosito Assergi con la sua presenza e all’epoca ne beneficiarono piazzette e scorci inauditi, gatti in libera uscita, bohemien delle cantine e dei cornicioni, creature cui affidarsi nei momenti di disperazione quando i propri affetti s’erano assottigliati. E in strada a Geneviève donavano riguardo persone di passo lieto e anche figure angosciate. Tutti comunque si fermavano vedendo ella sfilare – un poco vergognosa,  ma di che cosa? forse della sua bellezza? - ma il suo carattere riservato ed il suo sguardo controllato non donavano neppure un minimo sorriso o, se ciò accadeva, era soltanto per persone conosciute. Un semplice quanto intenso:«Salut!» e poi subito a riprendere il percorso che aveva in mente. Quindi accelerava il passo verso i suoi luoghi lirici come la Piazza o la Porta del Colle. Se la traiettoria era verso la Piazza ciò faceva pensare di certo ad un incontro con qualcuno, un appuntamento di rilievo, se invece la si vedeva salire la costa della Pisterola, proprio vicino al suo uscio di casa e con a fianco le vecchie mura, si poteva ipotizzare una uscita di carattere formale come l’incontrarsi con un parente. Pare siano passati secoli ed invece è “ieri mattina” in un Assergi ed in un agosto irripetibili. Era una sorpresa sentir parlare Geneviève in italiano ma lei preferiva proporsi, imbastire discorsi con la lingua francese. E in questa lingua ecco che s’innalzava il suo viso, il suo sorriso, e tutto diveniva meraviglioso. E tutto di colpo diveniva Nouvelle Vague. Si sarebbe desiderato vedere in che modo, di sera, Geneviève si toglieva gli indumenti e poi come li adagiava con garbo su una sedia o di lato al letto. Appena questo, senza pensare ad altro, anzi, se si fosse rimasti nascosti tutto sarebbe accaduto con naturalezza. Azioni innocenti, soltanto osservare in che modo lei si prendeva cura degli abiti appena tolti e la sua grazia emergeva anche in quelle azioni minime. Proprio quei suoi atti in penombra si sarebbero dovuti osservare e così anche da quei suoi semplici gesti sarebbe scaturita una devozione o addirittura l’azzardo d’un proclama sul fascino.

L’animo era la bellezza non visibile ma si coglieva già solo con un sorriso. Era proprio questo sublime dettaglio che svelava tutto l’affresco interiore e le parole di bene non erano necessarie, tutto emergeva con il sorriso, lo sguardo e con la sua quiete che chiedeva soltanto serenità.

Se s’osservava la chioma, color castano chiaro, si capiva subito come essa abbisognasse di occhi verdi e infatti questi erano al loro posto, ben centrati come due gemme. Pareva infatti d’essere di fronte ad un portagioie tempestato sul cofanetto di pietre preziose. Naturalmente tutte queste sensazioni le si doveva spostare in un tempo classico già archiviato, magari nel XVIII secolo: come si capirà era necessaria una retrocessione e allora l’Ancien Régime andava bene per il giusto sapore d’epoca. E in quei momenti sembrava che la natura non si fosse dimenticata di nulla a proposito di Geneviève. Si poteva discendere alle mani e anche in quel dettaglio del corpo s’innalzava uno stupore buono. Esse erano perfette come forma e facevano pensare ancora una volta al Passato: così entrava per me in scena Madame du Deffand con tutto quello che questa nobildonna significava con il suo salotto: le sue lettere a Voltaire, le sue sottigliezze filosofiche con questo o quell’altro uomo di Lettere. Il dipinto si chiudeva con una cornice adeguata: Geneviève era lì dentro con tutte le sue preziosità.

Assergi dormiva sogni tranquilli alla metà degli anni ’70. E noi con esso

 



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