FRANCO PERSICHETTI, UNA SERENITÀ ANTICA - di Fernando Acitelli

FRANCO PERSICHETTI, UNA SERENITÀ ANTICA

 

- di Fernando Acitelli -        

                      

               Quel che c’è in me di misterioso, di sfuggente,
               di incomprensibile, d’inafferrabile – lasciatemelo.
                              ***
               La sola ricerca feconda è quella di sé medesimo:
               specie dei propri difetti, dei propri errori.
               Gabriele D’Annunzio,  Di me a me stesso

 

Quello che è rimasto intatto in Franco è il suo spostarsi geometrico da un punto ad un altro di Assergi mantenendo nello sguardo una serenità antica. Se indossasse il chitone (tunica greca) oppure una clamide sarebbe alternativamente un cittadino ateniese e poi uno dell’antica Roma. È bello confinarlo nel mondo classico, greco-romano, vederlo muoversi in scenari propositivi dove non accade nulla di pericoloso ed i clamori sono distanti. Pare egli sia in un tempo sospeso dove le dispute umane possono risolversi con una sola parola: la forza del logos in una simile città ideale. Si tratta di immagini che sorgono in me “facendomi del bene” e poi per restituire ad un individuo ciò che sul serio gli appartiene: naturalmente quest’uomo non ne sa nulla, non pensa di poter essere inquadrato in un simile paesaggio interiore. Il fatto è che costui attendeva soltanto che sorgesse un individuo che gli spiegasse veramente chi egli fosse al di là del “già detto”, del pensiero saccheggiato.

Dunque per me, Franco Persichetti sarà sempre quello che io so comporre  nelle penombre del mio cuore. La serenità giunge in contemporanea, soprattutto quando si sente che l’emozione sta creando belle immagini, parallele alla vita ordinaria. Lo vedo in me sempre abbigliato di bianco, in un indumento che è sobrietà, essenziale come un’equazione. Il colore bianco di chitone o clamide è alla base d’ogni allestimento d’una disputa dialettica, d’ogni evento conciliativo. È il colore di una pace ritenuta fino a pochi istanti prima, impossibile.

In un tempo più vicino a noi – definiamolo d’una contemporaneità malmenata e spesso incomprensibile - Franco sarebbe colui che fa avvicinare due parti in contesa, l’uomo che promuove parole semplici, buone, e che arriva al compimento del sorriso tra i due contendenti. Il sogno allontana dalla vita, ne crea un’altra che può avere spesso risvolti notevoli e che può anche portarci, con le dovute cautele, finanche alla “sala d’aspetto di Dio”.

E questo è più vero adesso che la chioma di Franco s’è mutata in bianco e ancora una volta proprio questo colore gli conferisce non un’autorità - termine questo che a volte ha una resa ambigua – ma saggezza là dove questa parola indica un favorevole ritrarsi in sé piuttosto che un voler comunicare agli altri (lo sbandierare?) lo stato di lucidità spirituale che si è raggiunto, che poi, il più delle volte, non è altro che una presa di coscienza dell’esilità umana e sentire (e vedere) il traguardo sempre più vicino.

Le passeggiate di Franco sono dense d’avvenimenti interiori e un po’ è quanto capitava a Jean Jacques Rousseau, il quale, proprio grazie al suo confortante passeggiare – il titolo del libro è “Le passeggiate del sognatore solitario” -  soleva rendere lucente il pensiero, sfrondarlo da piccole idee noiose che s’aggrappavano al pensiero principale, dominante, profondo, che Rousseau, in quei momenti, stava trattando con la massima attenzione. Era un modo incisivo di fare filosofia e tale strada poi l’avrebbe percorsa anche Henry David Thoreau con i suoi libri “Camminare” e poi “Walden ovvero Vita nei boschi”. Ad essere sincero vorrei stare in quell’agorà mentale di Franco per assistere a quanto “sta succedendo in quei momenti”,  negli istanti che lo incontro, cioè in che modo egli stia pettinando i propri pensieri usando l’astuzia dell’intelligenza.

Il suo sguardo è puntato dinanzi a sé ma spesso, forse per un’ulteriore riflessione, ecco che i suoi occhi raggiungono il suolo come per una sorta di scarico a terra dei fili elettrici (la molteplicità dei pensieri), una messa in sicurezza non dell’impianto ma degli argomenti che sta trattando. Pensando, ovvero riflettendo e con più opzioni nella mente si deve scegliere la strada da percorrere, scegliere se andare a destra o a sinistra e la scelta è già motivo di sofferenza. Ne seppe qualcosa il filosofo Soren Kierkegaard con il suo “Aut-Aut”. Il prendere una decisione è necessario anche se può risultare doloroso.

Come detto, a me piace identificare Franco con l’Antichità – una favorevole sequenza di luoghi dove si può adagiarlo meglio - anche se il sentiero del novecentesco esistenzialismo lui lo pratica inconsapevolmente. Il viso s’impone e a quella vista vengo catapultato all’indietro in secoli remotissimi ed è per me anche una sensazione di leggerezza, di sano e momentaneo distacco dalla vita. Franco è dunque un altro esempio di come un volto possa funzionare da reagente per sentire di nuovo accanto l’antico. Il procedere calmo è proprio d’un pensatore antico che ha affrontato (e risolto?) in sé da gran tempo tutti i conti con l’esistenza e con il dopo. Passeggiate dense d’avvenimenti in quella mente che si muove da un punto ad un altro dello scenario del mondo non trascurando i luoghi affettivi, la memoria, la famiglia, la bellezza d’un assolato mattino di Assergi. Si fa filosofia passeggiando e con quell’andatura si lima ogni concetto, gli si dona nitore: il paesaggio davanti migliora il modo di pensare, lo purifica, a volte fa sbocciare il sorriso senza che il diretto interessato se ne accorga.

Da ultimo sarà bene ricordare il padre Angelo e la madre Ada, due caratteri che parevano antagonisti ma che, giorno dopo giorno, si sostenevano a vicenda, s’adoperavano verso il meglio, a far sì che ogni atto non fosse mai in balia del caso e componendo così tutto “in luce”. Le loro voci le odo ancora, non sono sfiorite nella dimenticanza: sento Ada chiamare Franco, anche da lontano, fargli delle raccomandazioni sotto il sole a picco. E le risposte di Franco avvenivano puntuali, sincere e addolcenti. Sento ancora la voce di Angelo con delle sottolineature di ragione e con quel suo viso neorealista che se Vittorio De Sica l’avesse scorto a Roma, magari dalle parti della Stazione Termini e nel sole degli anni del dopoguerra, lo avrebbe provato come attore non professionista ma di quelli “presi dalla strada”. Lo odo ancora cantare in Piazza ad Assergi nelle serate di Ferragosto dedicate ai cantanti: lui che s’annuncia ad un uomo del palco e dal quale riceve il microfono: sua performance esaltante, da sublime e anonimo cantore.

Sento ancora la voce della nonna di Franco, la madre di Ada, che lo cerca, che lo chiama, preoccupata se avesse pranzato visto che i genitori erano in quei momenti lontani per delle faccende. Quando lo vide sul muretto di NaPorta cambiò espressione per la gioia (era molto che lo cercava per il paese) si fece (lievemente) sorridente, quasi lo abbracciò davanti a me. Confortata dal fatto che Franco aveva mangiato e che, dunque, tutto andava bene, ripassò sotto l’arco dell’Orologio e disparve verso la bottega di Quirino Del Sole, rivendita che già non c’era più.

 



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