IL VIAGGIO INCREDIBILE DI DOMENICO ONOFRI

IL VIAGGIO INCREDIBILE

DI DOMENICO ONOFRI

 

 

 

Ci sono molti modi di arrivare, il migliore è di non partire.

Ennio Flaiano

- di Fernando Acitelli -

 

L’ascoltare racconti o storie minime, anche scheggiate, conforta. E tutto risulta più intenso quando la notte s’annuncia e il buio dilaga. Ascoltare è un evento sublime che conforta e dona ossigeno alla fantasia che con le nuove notiziole spicca il volo. La fantasia, dunque, è debitrice della realtà ed è proprio grazie a quest’ultima che tutto si crea all’improvviso, prendendo però altre forme con luoghi e personaggi, i quali, nel nuovo affresco composto dopo aver ascoltato, si colgono ai confini del sogno. A quel punto non si sa più dove sia la fantasia e su quale binario viaggi la vita. La contaminazione tra fantasia e realtà è un bene, è la possibilità che abbiamo di separarci per un po’ dagli scenari dell’esistenza. La loro commistione è sublime e la trasfigurazione è in atto con quel tanto di seta e velluto che la vita non può donarci. Per molti spiriti sensibili la vita è urticante e se la si tocca anche lievemente, ecco che dolore e rossore s’annunciano sull’epidermide.

Seppi la storia che sto per narrare nella casa d’un amico, ad Assergi. In quel tepore d’una volta – abitazione sublime di legno con piccole lesioni alle pareti ma immacolate nel bianco - mi ci volle poco per “separarmi” dalla realtà e vedere in quella casa una locanda di tempi non più rintracciabili. Sorvolai dunque l’antico senza planare su un secolo preciso: furono immagini a raffica ed il meglio dei secoli confluì nella mia mente.  E se l’amico m’avesse chiesto di dormire lì da lui avrei accettato per calarmi del tutto nei miei scenari emotivi. Il sublime era in agguato, già lo sentivo dentro di me. Forse di notte, svegliandomi per andare alla finestra ad osservare il cielo limpido e stellato, avrei potuto incontrare l’oste ancora in brontolio dalle parti della cucina e anche la bella locandiera che m’aveva servito la cena e poi condotto nella stanza facendomi dono del suo sorriso. L’avrei incontrata sulla scala di legno fatta di assi poste in orizzontale, lei a salire ed io a scendere per giungere alla finestra con vista sulle costellazioni in odore di Dio.

Ad un certo punto della sera inoltrata, ecco che l’amico mi parlò di Domenico Onofri e del suo spettacolare viaggio a Roma. Non ricordo come finimmo con il tirare in scena quella preziosa figura di Onofri il cui fluente parlare incantava. Ora sul termine “spettacolare” a proposito di quel viaggio bisogna fare chiarezza, porre in luce quel fatto perché a tutta prima si potrebbe pensare che Domenico abbia raggiunto l’Urbe con gli usuali mezzi di trasporto vale a dire la propria macchina o, in alternativa, con una corriera: in quei momenti del racconto del mio amico sognai addirittura la corriera guidata in tempi memorabili da Ciaglia o una di quelle dei trasporti “Pacilli”. Certo, si potrebbe pensare a simili mezzi di trasporto ma il meraviglioso in quel giorno fu che Domenico Onofri raggiunse Roma assieme a sua moglie, allestendosi entrambi nella cabina del suo APE 500 MP che poteva assomigliare ad un piccolo ripostiglio.

A quell’udire, non potei evitare di riflettere su un busto celebrativo per Domenico Onofri. Magari in Piazza in quel sublime ritaglio di mondo che era una volta il garage di don Demetrio; oppure al posto ‘NAPORTA, luogo per lui di riflessioni con gli amici che incontrava sul muretto.

La distinzione è nel comporre spettacolari ritagli di realtà ai quali la massa di manovra, amorfa e indifferente, non s’adduce. Quest’ultima vuole lo spettacolo non perché lo sente in sé ma per “stupire” gli altri. La Decadenza, appunto. Ma tornando a Domenico Onofri si trattò d’una azione da Futurismo italiano (minimalista, naturalmente) perché in quel viaggio non si celebrò la velocità né s’avvertì alcun VRAAAMMM nel rombo della potenza del motore, tipica dell’estetica di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi fedelissimi. Di fatto, egli compose un’azione fuori dell’ordinario e fu una scelta futurista in questo, nel senso cioè che egli fu contro il sentire comune e contro la comodità. Domenico Onofri non intese neppure stupire se stesso e per lui la scelta del viaggio a quel modo verso Roma era d’ordine morale ed emotivo.

Dalle notizie che appresi si chiarì come Domenico Onofri dovesse recarsi a Roma per una cerimonia ma il mio amico non seppe riferirmi se si trattava d’un matrimonio o d’una Prima Comunione.

Il giorno seguente, dopo aver molto riflettuto su quell’incredibile viaggio di Domenico Onofri e di sua moglie, ecco che la mia mente fu “aggredita” da molte domande. In particolare: in che modo costui trascorse il giorno che precedeva la partenza? Era preoccupato per quanto poteva succedere durante un viaggio oppure manteneva l’abituale calma, quella che gli si leggeva nello sguardo ogni volta che lo si incrociava, intento nel suo lavoro? Aveva egli composto una sorta di mappa con indicazioni non tanto per la strada da percorrere, ovvero la consolare Salaria, ma per il successivo arrivo a Roma? Aveva consultato lo stradario annesso alle Pagine Gialle, e dunque individuata la pagina e poi il quartiere e quindi osato uno zoom visivo sulle strade che s’incontravano in quella pagina? Il suo fare analitico avrebbe previsto anche delle riflessioni sul quartiere trovato e allora dalla fase scientifica della ricognizione egli sarebbe poi passato ad una fase filosofica, per così dire, e giù allora pensieri pettinati e piccoli aforismi sulla vita. E inoltre: aveva forse esultato con sua moglie dopo aver avuto riscontro analitico sul quartiere e quindi sulla strada da raggiungere? Avevano brindato come a seguito d’una vittoria famigliare?

«Te l’ero ditto che la trovea!...», questa la sua probabile frase al culmine della soddisfazione, al che la moglie gli aveva (forse) risposto:«Mbè, era bona pur’i, quett cred? Nso mica nata a le Rott Glioia!...». Domenico non ascoltava la moglie, tirava dritto con la sua ricognizione e appuntava su un foglietto nomi di strade limitrofe a quella dove doveva recarsi. Da lì, assieme ai parenti, avrebbe poi mosso verso la chiesa. Di lì a pochi minuti gli venne da rispondere alla moglie: «Lo saccio che nun si nata a le Rotte Glioia, ma ecco stengo a fà tutto gli…!». Poi Domenico Onofri allestì un’arietta musicale il cui refrain era: «Trallallà, trallallà…».

Provo ad immaginare la preparazione alla partenza. Abluzioni all’alba con uno spicchio di cielo che penetrava nella stanza da bagno: Domenico Onofri dinanzi allo specchio, intento a radersi per mostrarsi nitido, perfetto. Poi per le abluzioni, era la volta della moglie, la quale aveva già preparato il caffè. Odore per la casa d’una lieve felicità, con il figlioletto Pino che, a causa  di quell’alzataccia dei genitori, s’era svegliato e tentava in tutti i modi di riprendere sonno. Era domenica e nelle case vicine a quella di Domenico Onofri il riposo s’imponeva. Ciò significava che le persone si sarebbero alzate un po’ più tardi ma, a stringere, il sonno sarebbe durato soltanto mezz’ora in più rispetto al normale risveglio di tutti i giorni. Alba nitida dalla finestrella, visione delle “Cartiche” e della “Casa Latina” da incorniciare e con il pensiero che andava anche al fiume, alla sua melodia che si tentava di cogliere come per una medicazione esistenziale. Lambendo il fiume, la sensazione era che non si morisse mai, ma per cogliere tanto si doveva stare da soli.

In un primo momento Domenico Onofri aveva pensato di vestirsi da cerimonia soltanto una volta giunto a Roma, in questo modo avrebbe guidato più disinvolto. Certamente lo stare in giacca e cravatta non era buona cosa ed egli sarebbe stato un po’ impacciato nel muovere il manubrio dell’Ape. Questo aveva pensato ma poi rifletté e concluse che non poteva abbigliarsi sotto il sole una volta arrivato a Roma magari scovando dei macchioni dalle parti di Monterotondo, nel verde della serenità. Alla fine decise di partire già vestito da cerimonia ma senza cravatta che avrebbe indossato poco prima d’arrivare nel quartiere dove era atteso. Quando moglie e marito furono perfettamente in piega, uscirono di casa raggiungendo quello spiazzo prima delle mura, accanto alla fontanella. Domenico Onofri aveva parcheggiato l’APE 500 MP (cilindrata 187 cc.) il pomeriggio del giorno prima dopo averlo lustrato ed essersi accertato del buono stato di motore e ruote.

Partirono poco dopo l’alba ed il fatto che si dovesse raggiungere Roma percorrendo la consolare Salaria inorgoglì Domenico Onofri. Era una giornata splendida con il sole che invadeva col suo bene ogni più remoto angolo della natura. Assergi dormiva beatamente, non si sentiva ronfare, e per tutti si trattava d’un sonno (quasi) spensierato.

Uscendo di casa con la moglie, Domenico Onofri s’avvertì felice: egli per un giorno avrebbe interrotto la monotonia di giorni tutti uguali e avrebbe avuto, giungendo a Roma, nuove possibilità d’immagazzinare conoscenza, di accorgersi delle molteplici atmosfere che l’Urbe sapeva donare. Lui avrebbe affinato la sensibilità ed il suo raccontare, una volta tornato ad Assergi, sarebbe stato intenso e multicolore.

Avrebbero impiegato un tempo superiore rispetto al percorso in autostrada ma su quella traiettoria un autoveicolo di quelle fattezze non poteva transitare. Sarebbe stato meraviglioso avvistare un motoveicolo APE 500 MP sull’autostrada L’Aquila-Roma, si sarebbero battute le mani a coloro che stavano a bordo, oltretutto erano elegantissimi: la situazione surreale avrebbe smosso un largo stupore a chi sorpassava il mezzo e vedeva due persone nell’abitacolo. In molti avrebbero sospirato: «Sogno o son desto?». Domenico Onofri avrebbe risposto con un saluto mandando anche a dire dal finestrino: «Piano, piano e pure noi arriveremo a Roma…».

Sulla consolare Salaria Domenico Onofri prestò molta attenzione, procedette con l’unica velocità che il mezzo consentiva: poteva toccare al massimo 60 chilometri all’ora. Con le quattro marce sul lato sinistro del manubrio Domenico pensava di poter disporre d’una buona tecnologia a bordo. Attraversando Antrodoco, Canetra, Borgo Velino, Cittaducale e poi Rieti confidò a sua moglie sensazioni intense, divenne per alcuni istanti un poeta ma egli, nelle penombre del suo cuore, sapeva d’essere un lirico che però non abbandonava mai la ragione.

A Rieti si fermarono ed entrati in un bar fecero colazione. Si sentirono come dei signori: entrambi erano commossi e si guardarono negli occhi chiarendosi in serenità. Al bancone Domenico Onofri scambiò qualche parola con il barista, si trattò di frasi semplici ma che contenevano saggezza. Il barista non sembrò all’altezza delle sottolineature profonde di Domenico e dunque era inutile motteggiare inoltre il barista stava a lavorare e non aveva tempo per ricciolature di stile a base di parole. Le soste erano opportune per consentire delle giuste pause al motore, per farlo raffreddare. Durante quelle soste Domenico Onofri osservava il suo mezzo, gli girava intorno, ne valutava la lucentezza e toglieva con un dito piccoli segni di fuliggine addensatasi sulla carrozzeria. Ponendosi di nuovo alla guida, egli valutava ogni suo atto come riflesso d’un intento morale.

Giunsero a Roma e, una volta nell’Urbe, Domenico Onofri parcheggiò vicino ad una fontanella, uscì fuori dalla sua portantina, si stiracchiò, si bagnò il viso e quindi pose la cravatta il bello stile sotto il colletto della camicia bianca. Era un figurino e questo fu un pensiero anche di sua moglie. Con la chioma leggermente bagnata e a riflessi biondi sembrava un ragazzo fuoriuscito da un set a Roma negli anni ’60.

Dopo quella prima sosta romana alla fontanella egli prese in mano lo stradario, lo pose accanto ai foglietti che aveva trascritto il giorno prima circa le strade da percorrere e, mosso al solito dal suo intuito fantastico, attraversò alcuni quartieri, rasentò splendide ville immerse nel verde fino a giungere sotto il palazzo dove anche lui e sua moglie erano attesi: vedendo il numero civico (proprio quello!), esultò. L’abbraccio della moglie fu intenso. Trovato il portone, Domenico Onofri compì un giro di palazzo e quindi parcheggiò. Scesi dall’APE 500 MP si dettero una sistemata, composero gli ultimi ritocchi e quindi s’avviarono con passo deciso verso il portone. Una volta che furono davanti all’ascensore sentirono dall’alto un vociare festoso e fu proprio verso quel gioioso chiasso che s’indirizzarono.

Quel giorno furono felici e quando la cerimonia terminò, come pure il pranzo, avvertirono l’esigenza di abbracciarsi un’altra volta perché avevano fatto un’ottima figura con parenti e amici e poi quanto da loro realizzato – un viaggio da Assergi a Roma su un motoveicolo APE 500 MP sulla consolare Salaria – aveva del prodigioso. Gli altri invitati osservarono quella scena come si trattasse d’un film. Loro due erano una distinzione tra tutta quella gente, e lo sapevano benissimo.

Alle 17 erano già sulla via del ritorno e per riprendere la consolare Salaria ci impiegarono un po’. La salita di Sella di Corno fu tremenda ma quel motoveicolo seppe ergersi da protagonista: non una aritmia, non una fibrillazione. Stretti in quell’abitacolo con ambizioni da confessionale non fecero altro che raccontare (che raccontarsi) e alla fine pensarono che la loro vita ad Assergi era bella e che non l’avrebbero cambiata con nessuna di quelle degli altri. Giunsero a casa che erano le 21 passate e quando parcheggiarono nella piazzetta con fontanella da dove erano partiti al mattino si sentirono felici e nulla poteva distrarli dalla loro serenità. Così si chiuse il giorno.

 



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