C’ERA UNA VOLTA IL CINEMA - di Fernando Acitelli

C’ERA UNA VOLTA IL CINEMA

 

- di Fernando Acitelli -

 

 

                    Robert De Niro si butta nel film e nel ruolo
                    assumendo la personalità del personaggio
                    con la stessa naturalezza con cui uno potrebbe
                    infilare un cappotto, mentre Clint Eastwood
                    indossa un’armatura e abbassa la visiera
                    con uno scatto rugginoso. Bobby, prima di tutto,
                    è un attore. Clint, prima di tutto, è un divo.
                    Bobby soffre, Clint sbadiglia.

                    Sergio Leone

Le cartoline salvano, come pure i manifesti che un tempo, di lato all’entrata d’un cinema, annunciavano il film in programmazione e le pellicole che si sarebbero proiettate nei giorni a seguire: la targhetta sotto il manifesto del film mostrava, stampato, il giorno della proiezione. Quell’annuncio equivaleva per i passanti ad una carezza, un prolungamento del sogno e una sospensione dalla vita. Le cartoline d’un tempo salvano perché esse sono come delle stampe del ‘600 dove vi sono piazze di città, facciate di Palazzi, sedi magari del Granduca o del governo dei cosiddetti Saggi. Inoltre facciate del Viceré se si tratta d’ambiente spagnolo, qui da noi. Da citare anche le facciate delle chiese, incise nelle stampe a portale chiuso e con delle persone là davanti – rappresentate piccolissime – la cui identità si può cogliere soltanto nelle regione del sogno, ma forse neanche lì.

Con il collezionare ci sembra meno perduto il tempo che attraversammo ma un manifesto di film non si poteva staccare nell’atrio del cinema e nemmeno nelle vetrine fuori. Ci pensai tante volte. Avrei dovuto fare come l’artista Mimmo Rotella che strappava manifesti sui muri per poi realizzare dei quadri con ritagli e strappi di più manifesti, il cosiddetto nouveau realisme e il décollage. Ma era più facile risolversi alle cartoline che si potevano tranquillamente acquistare dal tabaccaio. Alcune le comprai  a a L’Aquila, a capo Piazza, in quel tabaccaio che c’era un tempo all’inizio del Corso;  altre le ho recuperate a casa, in quel bric à brac che è ormai la mia dimora.

Accade allora che un sostegno lo posso trovare nelle cartoline ma per i manifesti dei film che vidi nei cinema de L’Aquila devo ricorrere ad altro. I cinema de L’Aquila, il “Massimo”, giù, poco prima della Villa; l’Imperiale in via delle Tre Marie, e quindi il “Rex”, sotto il portici, sullo stesso segmento dove stava una volta la CIT e di fronte al bar Eden. Di questi tre cinema solamente il “Massimo”, mi pare, possa rinascere, magari come multisala. Per l’Imperiale ed il Rex, nulla da fare e si potrà contare soltanto su quanto si vide in quei luoghi magici. S’operavano sublimi intrusioni nei citati cinema e il bello (o, se si vuole, il dolore) è ricordarsi delle pellicole alle quali assistetti con mio padre, mia sorella e mio cugino Renzo. Ma citare i film visti non mi basta, si dovrebbe ricreare il “necessario sapore d’epoca” e dunque ricamare i tre cinema con quanto stava ad essi accanto, o nell’intorno. Si citeranno ovviamente le pellicole nelle quali ci tuffammo ma dentro il cinema andava in onda la “finzione” cioè gli immaginati CIAK tra una scena e un’altra mentre fuori c’era la vita con tutta la sua bellezza ma anche con il suo carattere urticante che lasciava poco spazio al tombolo e ai ricami. Dunque la storia era: finire a capofitto nel film, estraniarsi, essere nel Far West o magari in scenari del XVII secolo ed in altri paesaggi epici. Titubare alla fine del primo tempo perché subito dopo sarebbe arrivato il secondo e quindi la FINE, i titoli di coda che nessuno avrebbe letto perché del fonico, dell’aiuto regista, del direttore della fotografia, dello scenografo, dell’addetto al montaggio, della costumista, del direttore di produzione, non interessava niente. Eppure, pur di non uscire dalla “scatola magica” del cinema (fuori c’era la dolorosa faccenda della vita!) si sarebbe anche dedicato del tempo a tutti coloro che avevano contribuito alla realizzazione del film. Addirittura si sarebbero trascritti quei nomi con l’intenzione, poi, di cercarli, scovarli nelle loro abitazioni, sapere qualcosa d’essi, così anonimi eppure così importanti per la realizzazione del film.

Al “Massimo” vedemmo “SUPER SEVEN CHIAMA CAIRO con Roger Browne e Massimo Serato, quasi preistoria a ben dire, infatti non erano ancora caduti tra noi gli anni ’70. La cassa sulla destra, ricordo, e poi la constatazione d’un bel cinema ed io lo paragonai al “Metropolitan” a Roma, in via del Corso. Giungere al “Massimo” non mi metteva il sereno nell’animo, era come finire sull’orlo della città, una meravigliosa periferia a ben intendersi ma era come un congedarsi da L’Aquila e infatti nei pressi si vedevano le indicazioni per ROMA, per la consolare SALARIA. Sempre al cinema “Massimo” vedemmo “I MAGNIFICI SETTE”, con Yul Brynner e Steve Mc Queen, pellicola spettacolare nella quale letteralmente precipitai nel sogno d’essere lì, tra loro. Risollevava un po’ lo spirito, nell’intorno, il negozio di fotografo di Ludovico Carli, uomo d’altri tempi, un signore, un reduce sublime, un notabile del Regno d’Italia. Ma anche Vera lì dentro si muoveva con eleganza e, inoltre, di quell’attività s’occupava anche un certo Mimì che era bravo, giudizioso e meticoloso quando ci consegnava le foto con i rullini che aveva sviluppato. Di fronte a tale negozio c’era la bottega del barbiere Felicetto dove si recavano mio zio Antonio e anche Renzo: famose a quel tempo le sfumature di Felicetto sulla nuca, paragonabili alle “tosature” per giovani militari degli anni ’50. E ancora: sempre di fronte al negozio di Ludovico Carli scintillava quello delle calzature “Mazzitti”.

E da lì, lento pede, si rientrava nel centro storico, il luogo della meraviglia con le belle signore in passeggio, abbigliate con vestiti dai colori confetto, fascinose, vaporose, estrose con la parola, pungenti a volte nel riferire di certi comportamenti che ad esse non erano passati inosservati, magari durante una festa oppure in un incontro per il the in pomeriggi di affascinante conversazione. E le loro fragranze erano a sperdersi nell’aria formando per pochi istanti nuvolette di profumo che stordivano in bello, che lasciavano il segno. Il centro storico de L’Aquila era così, una corporazione di belle donne a passeggio che a me bambino sembravano in gioiosa libera uscita e naturalmente ero felice per questo; e ad agosto non si poteva dire d’avere cognizione delle donne aquilane se non si transitava per il Corso dalle 17 alle 19. Ancora oggi ricordo quelle fragranze che rappresentavano, a L’Aquila, le mie prime esplorazioni liriche nell’universo femminile.

Passarono gli anni e, sempre al “Massimo”, respirai ancora una volta il valore della giovinezza assistendo al film “LA FEBBRE DEL SABATO SERA”, con un John Travolta sorridente ed atletico assieme alla sua allegra compagnia composta da ragazzi il cui sogno era quello d’imitare le gesta del loro amico/idolo Tony Manero. In quell’occasione potei ammirare, con un continuo sorriso d’approvazione, tutte le contorsioni linguistiche e di ballerino del nuovo divo di Hollywood. Mai come in quell’occasione registrai il cinema “Massimo”stracolmo con molti ragazzi che, terminato il film, intesero rivederlo.

Nel centro storico de L’Aquila mi sentivo al sicuro, come se fossi protetto da una cinta muraria e, una volta imboccato il Corso, una ottima occasione per fantasticare era offerta dal cinema Imperiale in via delle Tre Marie. Tale strada m’era cara perché c’era un ristorante con lo stesso nome della strada. I miei genitori, al tempo del loro fidanzamento, vi avevano pranzato diverse volte ed entrambi lo raccontavano spesso. Sognavo di entrarvi e rintracciare il tavolo, proprio quello, e le sedie, proprio quelle, dove s’erano seduti mio padre e mia madre: ingenui tentativi per ricreare un’atmosfera scomparsa e che resisteva soltanto nella mia mente. Uno sguardo lo gettavo all’interno di quel locale sognando i fotogrammi che riguardavano i miei genitori. Non dicevo niente a chi era con me, il sogno doveva essere custodito.

Al cinema Imperiale non mancarono le note positive riguardo ai film: si passò da “Salomone e la regina di Saba” con Yul Brynner e Gina Lollobrigida: doveva essere attorno al 1967; innamorati della storia malgrado fossimo bambini ma mio padre era il nostro Virgilio. Nei primi anni ’70 vedemmo “Fantomas contro Scotland Yard” con un irresistibile Louis De Funès che reggeva da solo il film con la sua alta comicità; e quindi, nel 1976, io e mio cugino Renzo ci entusiasmammo per la vita del fuoriclasse olandese Johan Cruiff, la cui esistenza calcistica fu raccontata nel film “Il profeta del gol”. All’uscita dall’ Imperiale io e Renzo eravamo così eccitati che saltavamo per strada sognando di colpire il pallone di testa o di agganciarne un altro ad un’altezza impossibile proprio come aveva fatto Cruiff su un cross del compagno di squadra Rexach, nel Barcellona.

Un altro luogo emotivo era per me il cinema Rex, ben custodito sotto i portici. Mi pare che adesso, in quello spazio (o in una parte di esso) ci sia il supermercato “Carrefour”. Di recente ci sono entrato e invece di cercare sugli scaffali quello che m’occorreva, tentavo di capire in che punto, ai tempi del Rex, c’era la biglietteria e tutto il resto.

In quel cinema vedemmo due film, rispettivamente “La calda notte dell’ispettore Tibbs” con Sidney Poitier e Rod Steiger (doveva essere il 1968), e “La colonna infame” (l’anno probabilmente il 1973), con Salvo Randone, Helmut Berger, Lucia Bosé e Vittorio Caprioli. Con mio cugino Renzo vedemmo due volte di seguito questo film e, entrati al Rex che era giorno, ne uscimmo che la sera stava soavemente planando sulla città. Tale film era tratto dal saggio di Alessandro Manzoni intitolato “Storia della colonna infame”, appendice ai “I promessi sposi” e scenario storico della peste a Milano. Quando anni dopo lessi che il regista di quel film era il poeta Nelo Risi (fratello di Dino, regista, tra gli altri film de “Il sorpasso”), compresi molti aspetti di quell’opera, primo fra tutti il rigore storico nella ricostruzione dei fatti. Non era un caso, inoltre, che la sceneggiatura Nelo Risi l’avesse scritta assieme allo scrittore Vasco Pratolini.

Da non dimenticare, comunque, che molti film m’attrassero nella Piazza di Assergi il giorno 13 agosto, nei giorni della Festa, e in quel luogo vi fu, negli anni, una lunga sequenza di gioia. Tra gli indimenticabili, naturalmente i film western perché con il freddo della sera – condizione esemplare nella Piazza di Assergi ad Agosto con il freddo che sale dalla valle – l’immedesimazione negli eroi solitari sia sotto le stelle che nei saloon era totale. Grazie cinema, per avermi fatto spostare in un altrove che equivaleva ad una medicazione.

Non è soltanto un inno a L’Aquila e ad Assergi tutta questa narrazione, è piuttosto una celebrazione composta di quel tempo andato.

 

 



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