ASSERGI, LA FUNIVIA DEL GRAN SASSO E -LA GRANDE AQUILA- DI ADELCHI SERENA il passato e il presente

ASSERGI, LA FUNIVIA DEL GRAN SASSO E "LA GRANDE AQUILA” DI ADELCHI SERENA (il passato e il presente)

 

- di Giuseppe Lalli -

 

Il 29 luglio 1927, quasi un secolo fa, con il regio decreto n. 1564 si annettevano all’Aquila ben otto comuni limitrofi: Arischia, Bagno, Camarda, Paganica, Preturo, Roio, Lucoli, Sassa e la frazione di San Vittorino (quest’ultima sottratta al comune di Pizzoli).

Le predette municipalità venivano così sacrificate al progetto della “Grande Aquila”, voluto dal gruppo dirigente fascista locale e segnatamente dal gerarca avvocato Adelchi Serena (1895–1970), che del capoluogo abruzzese fu podestà dal 1926 al 1934. Fu inoltre consigliere nazionale e deputato, per poi ricoprire per breve tempo, negli ultimi anni del regime, prima la carica di ministro dei Lavori Pubblici e poi quella di segretario del Partito Nazionale Fascista.

Si trattava in totale di ventottomila abitanti che si aggiungevano ad una popolazione aquilana di sole ventiquattromila persone. La grande operazione amministrativa veniva motivata con la necessità di limitare le spese dei piccoli comuni a carico del pubblico erario (ciò che non poteva valere per uno dei comuni accorpati, Paganica, che poteva, al contrario, vantare un bilancio attivo e una secolare e oculata gestione amministrativa) e con l’esigenza di razionalizzare le risorse del territorio nella prospettiva di uno sviluppo economico della città dell’Aquila e del suo circondario. Sullo sfondo dell’operazione si poteva leggere un confronto, che coinvolgeva lo stesso gruppo dirigente regionale del partito al potere, con una città abruzzese come Pescara che, essendo nel giro di pochi decenni assurta ad un ruolo economico predominante negli Abruzzi, aveva chiesto ed ottenuto di diventare la quarta provincia, assommando parte del territorio di Teramo e Chieti (ciò avrebbe dovuto essere compensato con una parte del Sangrino aquilano, ma questo non avvenne) e i territori aquilani dei comuni di Bussi sul Tirino e Popoli.

La provincia dell’Aquila, che al tempo era seconda per ampiezza territoriale solo a quella di Milano, si era vista altresì menomata del territorio corrispondente al Circondario di Cittaducale, ceduto alla nascente provincia di Rieti.

È soprattutto in riferimento a quest’ultima perdita che L’Aquila reclamava, per iniziativa di Adelchi Serena, che nello scontro interno al gruppo dirigente provinciale del partito era uscito vincitore, la creazione di un ragguardevole comune territoriale, che è rimasto tale fino ai nostri giorni, con la sola perdita del territorio del comune di Lucoli, che nell’immediato dopoguerra, in circostanze eccezionali, avrebbe recuperato la sua autonomia municipale.

A distanza di molto tempo (ciò che consente, o dovrebbe consentire, un giudizio non inficiato dallo spirito di parte), non si può non riconoscere che il progetto della “Grande Aquila” fu l’espressione, certo per tanti aspetti discutibile, di una visione politica che ebbe una sua dignità e coerenza.

La grande politica è sempre il risultato di un riuscito matrimonio di valori e interessi, di istanze “particulari” – per dirla con il Guicciardini – che si sposano ad una visione che va al di là della mera contingenza: una sorta di “armonia prestabilita”. Tale fu per tanta parte il ruolo svolto dalla Democrazia Cristiana nel secondo dopoguerra, e tali furono – bisogna riconoscerlo – alcuni provvedimenti adottati durante il fascismo.

Non si tratta di “storicizzare”, cioè di giustificare ciò che è avvenuto per il fatto stesso che è avvenuto, né, nel caso specifico, di assolvere un regime  dittatoriale (in dittatura è molto più facile far valere quello che si ritiene l’interesse generale al di sopra di tutto e di tutti), ma di riconoscere realisticamente alle forze effettive che si agitano in un determinato periodo storico tutto il loro peso, e di cogliere lucidamente quanto ci può essere di buono in processi che si affermano al di sopra delle stesse volontà individuali.

Nel caso della “Grande Aquila”, l’esigenza del gruppo dirigente del fascismo locale di difendere il primato aquilano nel rapporto con la strabordante realtà pescarese si sposò magnificamente con l’altra esigenza, che corrispondeva alla vocazione centralizzatrice del regime, di razionalizzare le risorse del territorio, anche a danno di consolidate istanze locali (vecchie realtà comunali e antichi “usi civici”): il tutto al fine di avviare uno sviluppo economico che facesse leva sulla naturale vocazione turistica di un territorio tra i più suggestivi della nazione.

Si trattò di una scelta cui concorsero “visione” e volontà politica. La scelta potrebbe oggi apparire sbagliata in quanto mortificò le autonomie locali, ma si rivelò lungimirante in relazione ai risultati che ne vennero per la città dell’Aquila e soprattutto per la popolazione locale. Non bisogna dimenticare che attorno alla funivia del Gran Sasso cominciò a ruotare il benessere di molte famiglie assergesi, di un paese che fino ad allora aveva conosciuto solo il turismo “artigianale” di poche guide alpine, tra le quali la mitica figura di Giovanni Acitelli (1854–1928).

Del resto, in quel tempo sempre si raccomandava agli amministratori, in occasione di lavori pubblici, di avere un occhio di riguardo per gli abitanti del posto: una sorta di compensazione, nella dimensione locale, del metodo accentratore proprio del regime.

Ci si deve chiedere: avrebbe mai potuto il comune di Camarda o un autonomo comune di Assergi disporre delle risorse necessarie ad un’impresa così rilevante?

Lo scrivente, nato e cresciuto ad Assergi, ricorda che quando nei pubblici ritrovi si accennava alla “Grande Aquila” di Adelchi Serena in relazione alla funivia del Gran Sasso, sempre c’era qualcuno che chiudeva la discussione con la seguente brutale frase: “Quello che fu fatto allora ci sta adesso”, come a dire che si trattò, nel bene e nel male, di una irripetibile stagione di attivismo in favore di un territorio che era vissuto ai margini della storia nazionale e che in passato aveva conosciuto un alto tasso di emigrazione. Si trattava di un sentimento molto diffuso tra la gente, non affetta da “intellettualismo” e abituata a giudicare dai fatti e non attraverso la lente deformante dell’ideologia.

La contropartita fu però l’inizio dell’assistenzialismo di Stato, che ha compromesso ogni serio progetto di sviluppo affidato alle iniziative dei privati, e che continuerà nel dopoguerra con l’egemonia dei partiti, ma in questo caso con un approccio più finalizzato più alle esigenze del consenso elettorale che rispondente ad un’idea di sviluppo della montagna.

Si è sostenuto, su questo tema, che alla luce del mancato decollo industriale dell’Aquila, testimoniato, tra l’altro, dal drastico ridimensionamento del polo elettronico, le esigenze del grande comune territoriale sarebbero venute meno, e pertanto la mancata autonomia comunale peserebbe su realtà rilevanti come Paganica.

Un ritorno all’articolazione amministrativa preesistente all’epocale decisione del 1927, certamente auspicabile in un’ottica democratica, appare irrealistico, tanto sul piano politico quanto su quello strettamente giuridico: troppo acqua è passata sotto i ponti.

La vicenda del Gran Sasso è emblematica di una politica che nel dopoguerra, in un contesto certamente diverso e più complesso, caratterizzato dalla concorrenza e dal passaggio da un turismo di élite ad un turismo di massa, non ha saputo gestire al meglio una grande risorsa naturale, affidandosi al debito pubblico e alle ragioni del consenso ad esso collegate e assolvendo al ruolo di una sostanziale gestione dell’esistente.

Si tratta cioè, al di là di singoli interventi che di tanto in tanto vengono ipotizzati magari solo per impiegare finanziamenti messi a disposizione dalla Comunità Europea che rischierebbero di essere “cattedrali nel deserto”, di porre in essere un progetto di sviluppo del territorio aquilano e segnatamente della sua montagna che veda l’azione convergente dei vari enti che operano sul territorio stesso, quali la Regione Abruzzo, i Comuni del bacino del Gran Sasso e in primo luogo quello aquilano, le Comunità montane, il Parco Nazionale del Gran Sasso, le  Amministrazioni separate per i beni di uso civico e le stesse associazioni culturali: un’azione coordinata che prepari le condizioni per un decisivo intervento degli investimenti privati, rispettosi dell’ambiente ma non proni all’ideologia ambientalista. 

Che cosa ne è stato di quel “piano d’area” di cui si sente parlare da oltre vent’anni? Perché nessuna amministrazione vi ha posto ancora mano?

Insomma: che cosa si vuol fare di questa magnifica montagna? Affidare la sua valenza economica alle alterne vicende climatiche della stagione invernale, o farne la meta ambita di un turismo riferito a tutto l’anno e che alimenti una struttura ricettiva articolata, modesta nelle dimensioni ma diffusa, come avviene in altre zone dell’Italia e dello stesso Abruzzo, non più suggestive del Gran Sasso?

È mai possibile – se è permesso allo scrivente di lanciare un piccolo “grido di dolore”  – che una realtà pedemontana come Assergi, con un passato illustre (ne è testimonianza ciò che resta delle antiche mura di cinta del castello e, soprattutto,  la sua stupenda chiesa–santuario), e che poteva vantare già a partire dalla fine del ‘700 e fino ai primi decenni del secolo scorso una struttura ricettiva piccola ma accogliente, si debba rassegnare ad una decadenza che ne fa una negletta frazione dell’Aquila ?

Al di là dei sentimentalismi, sarebbe auspicabile che su questo importante tema potesse aprirsi, a partire dal confronto tra le forze politiche nell’incipiente campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale abruzzese, un dibattito finalizzato ad una migliore comprensione del passato in vista – ciò che più deve importare – di iniziative e progetti per il futuro di un territorio, quello del versante meridionale del Gran Sasso, che è tra i più significativi dell’intera area appenninica.

Se non è da rimpiangere la stagione politica a cui il progetto della “Grande Aquila” è legato, nulla vieta che si possa attingere allo spirito migliore di quell’iniziativa amministrativa, vale a dire una efficace progettualità al servizio di un interesse generale del territorio.

Conoscere il passato in riferimento ad un determinato problema per meglio poter scegliere nel presente è il miglior contributo che la storiografia possa offrire ai contemporanei.

La cultura può fare la sua parte, una politica seria e lungimirante è chiamata ad assumersi le sue responsabilità.

 

 



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