QUEL SORRISO GENTILE DI NANDINO SARÀ PER SEMPRE TRA NOI

QUEL SORRISO GENTILE DI NANDINO SARÀ PER SEMPRE TRA NOI

- di Fernando Acitelli -

 

 

                    “No. È il grande inganno, la saggezza dei vecchi.
                    Non diventano saggi. Diventano attenti.”
                                        ***
                    “Amo ascoltare. Ho imparato un gran numero
                    di cose ascoltando attentamente. Molte persone
                    non ascoltano mai.”
                               Ernest  Hemingway

Arrivederci Costanzo Alloggia – per noi tutti Nandino - ti ho voluto bene per tanti motivi ma uno adesso, ricordandoti, s’eleva su tutti: ti mostravi sempre con il sorriso e con una lieta disposizione a conversare. Erano dei doni che provenivano senz’altro dai tuoi genitori e poi da quel clima famigliare che era un sunto di compostezza e buone maniere. Facevi così con tutti, non eccellevi soltanto con colui che stava bene eretto nella vita, che si poteva definire “benestante” ma dedicavi tempo anche ai cosiddetti “ultimi”, agli “umiliati e offesi” per dirla con Dostoevskij, e dunque il  tuo sentimento non prevedeva oscillazioni ma era sempre in armonia. Tale disposizione d’animo rendeva i tuoi giorni ordinati, limpidi, con una quiete interiore nella quale le cose terrene avevano certamente grande valore ma non tralasciavano uno sguardo al cielo, che non era soltanto il mirare verso l’azzurro della natura limpida ma aveva implicazioni profonde, d’interrogazione sull’Assoluto e poi lievi ma continue riflessioni diremmo celesti, cioè organizzate verso il trascendente.

Il sorriso, per l’appunto, e poi l’educazione, quel voler ascoltare l’interlocutore privilegiando, appunto, l’ascolto prima d’impostare nel colloquio il tuo pensiero. Ascoltavi gli altri prima di parlare, nota d’eleganza e di limpidezza d’animo. Chi t’incontrava prendeva da te un vigore nuovo e la speranza non era soltanto un modo di dire ma un piccolo affresco di serenità. Comunicavi, appunto, serenità. Era come se colui che ti incrociava per strada desiderasse macchiarsi con il tuo stesso polline  e dunque gioire, magari lievemente. Se dovessi stilare di te un profilo esistenziale poggerei le mie argomentazioni proprio su quanto appena detto. Tu, Nandino caro, eri soprattutto questo e se ti volgevi verso gli altri in questo modo, posso immaginare con quanta cura, amore e dedizione ti sei occupato della tua famiglia.

In simili occasioni di congedo, si fa largo un pensiero – peraltro rispettabilissimo – secondo il quale per un individuo, una volta giunto a quella stagione di confine che suole chiamarsi una “bella età”, il sentimento del distacco che provano i famigliari è certamente di dolore ma la rassegnazione deve (dovrebbe) venire facilmente. Dunque secondo questo pensiero si tratterebbe d’un dolore diverso, più assorbibile. In verità un distacco non è mai accettabile e si pensa all’evento finale già quando s’è in età spensierata, magari di sera quando s’è visto un genitore triste e reclinato in sé. Procediamo nella vita dandoci degli obiettivi, formando una famiglia, comportandoci bene, spandendo intorno il sereno (per quello che è possibile), vedendo svanire uno dopo l’altro gli anni eppure mai perdendo la speranza che non è riposta soltanto nella fede – parola quest’ultima che oggi è divenuta una carezza per pochi inesausti d’Assoluto – ma nella vita che vediamo nei nostri cari figli che rappresentano il vero prolungamento di noi stessi.

Per come la penso io, il dolore è fortissimo anche quando un centenario (il nostro caro Nandino, ora) esce di scena, abbandona questo mondo, avventurandosi per il luogo già raggiunto da altri. Dal giorno dopo mancherà quel respiro in casa, si ascolterà ancora la voce (magari un po’ attenuata) di chi se ne è andato. Per ricomporre una sequenza intima di scene piene di sentimento, ci si volterà in un angolo della casa dove spesso vedevamo agire o riflettere il nostro famigliare. Il sublime della memoria ci consentirà di “vederlo ancora là” dove lo vedemmo e lo respirammo per decenni.

A questo punto rifletto sulle ultime parole di Nandino ai suoi cari (sussurrate quando?), e poi penso anche ad un lieve suo tremore delle labbra per comunicare qualcosa (da amarla per sempre una simile scena!), e inoltre ad un bisbiglio che ci smuove tenerezza e che, intercettato, ci appare come un gioiello da custodire nello scrigno della mente. A quel punto si vorrebbe trascrivere una simile scena accaduta magari in penombra, ricordarla in un foglietto perché capitata poco prima del distacco. Bello sognare, ma forse è accaduto anche questo tra Nandino e Checchina.

Quale sentimento profondo avvistare il mutamento del corpo, l’affievolirsi del sorriso, l’appannarsi di quelle iridi che penetrarono ogni istante della realtà. La forza di questo suo corpo che ha attraversato più d’un secolo – per la precisione cento anni più otto mesi; la forza del suo cuore che ha pompato il sangue – pulsando – in ogni più remota periferia del corpo; la forza delle corde vocali che hanno modellato quella voce morbida, pacata, mai componendo, in un discorso, una parola in più.

Ma essere giunti a cent’anni non è mica una colpa! E però con questo mondo basato sull’efficienza, sull’affermazione, sullo scavalco dell’altro senza esclusione di colpi, un uomo di cento anni che se ne va così in silenzio è un affresco per pochi intimi, per coloro che lo amarono profondamente e per tutti quelli che s’entusiasmano davanti ad un giorno in più vissuto, in un nido fatto di bontà e silenzio, e protetto dai propri cari.

Arrivederci Nandino, ti ricorderò sempre, salutavi sempre per primo, anzi, anticipavi il saluto, eri una distinzione ad ogni tuo apparire.

FERNANDO ACITELLI

 



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