LO SVILUPPO DEL GRAN SASSO COME IO LO VEDO IO - di Enrico Cavalli

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un articolo di Enrico Cavalli. Nostro collaboratore, in risposta allo scritto di Giuseppe Lalli, dal titolo “ASSERGI, LA  FUNIVIA DEL GRAN SASSO E LA ‘GRANDE AQUILA’DI ADELCHI SERENA” (il Passato e il Presente…).


La “storiografia” è una “scienza” per il metodo di ricerca e capacità esplicativa di fatti, uomini, comportamenti passati, ed in senso “popperiano”, non ha “fine temporale” o “fine/scopo ideologico” se non il “dire il vero” secondo il procedimento di “falsificazione” di questa o quella “convenzione”, insostenibile, dinanzi ad un “revisionismo”, (per gli epistemologi, “in re ipsa” il progredimento della “scienza”), poggiante su materiali oggettivi e su un mutato clima culturale.

Parte da queste premesse ideali l’articolo sulla Grande Aquila del 1927, che dal punto di vista amministrativo è  da leggere in chiave prospettica localistica. La domanda centrale di Giuseppe Lalli (in modo dotto e coraggioso, Egli si pone in "argumentum"),  è se mai avrebbe potuto un comune, pur autonomo da oltre un secolo, ma dall’economia agropastorale in declino, quale Camarda, possedere in sé  la capacità di pensare a dotazioni economiche  per uno sviluppo della sua montagna, ovvero, del Gran Sasso, il cui sfruttamento si limitava ai pascoli a loro volta circoscrivibili dagli usi civici ed un escursionismo elitario collegabile all’internazionalismo del Club Alpino Italiano, il tutto, scarsamente foriero di indotti sociali e produttivi.
Fuori dalle valutazioni della cosiddetta “hypotethic history”, dobbiamo dire che ci fu aderenza di podestatura aquilana, all’urbanesimo di un regime fascista dal 1923, agevolante la tendenza a modernizzare le “periferie”, piuttosto, che di ridurre la spesa pubblica del Paese, onde coprire, propagandisticamente, l’opzione contraddittoria del ruralismo pro conservatorismo sociale.
 Il Grande Comune, al netto della sua forzosa annessione ex r.d. n.1564 del 29 luglio 1927, dei limitrofi otto ex comuni delle finitime Arischia, Bagno, Camarda, Lucoli, Paganica, Preturo, Roio, Sassa più San Vittorino frazione di Pizzoli, negli effetti pratici, era in riacquisizione di prestigio regionale, messo in discussione dall’altrettanto artificiosa sottrazione alla antica provincia dell’Abruzzo Ulteriore II Aquilano dell’ex Circondario di Cittaducale e Mandamento di Bussi, Popoli per la creazione delle provincie di Rieti e della quarta abruzzese, quella di Pescara; tale spoliazione territoriale arrecata al formale capoluogo di regione, per causa della duplice volontà governativa, ovvero,  ispessire il controllo prefettizio e porre fine alle dispute campanilistiche fra gerarchi regionali.
Ci furono opposizioni clamorose ed adesioni rassegnate negli ex comuni, al disegno aquilano, in un tardo richiamo al medievale “Comitatus”, secondo il paganichese ed accademico Gioacchino Volpe, in soccorso dei suoi concittadini.
Ne derivava, con l’operazione annessionistica perseguita dalla podestatura di Adelchi Serena,  una  per certi versi traumatica, modificazione dell’equilibrio tra l’”urbe” e la ruralità, a vantaggio dello sviluppo urbanistico, turistico, sportivo della prima, che solo tardivamente comprese gli errori del drenaggio di energie materiali e morali dalle nuove frazioni facenti parte del comune amministrativamente, ma non del “mondo cittadino”, puntandosi “dirigisticamente”  a risolvere in termini autarchici le ataviche problematiche comprensoriali.
 La fine del regime fascista, impedisce di verificare la portata del ripensamento, tramite siffatte dinamiche di sviluppo fra utopie e concretizzazioni, della dialettica fra L’Aquila e i centri annessi, che sarà rimandata alla Repubblica, dipanandosi la matassa con gli “Uffici di Delegazioni-Circoscrizioni Municipali”, isteriliti dalle problematiche degli “Usi Civici”.
Dunque, la ragione del r.d. n. 1564/1927, non può ridursi ad un campanilismo ”tout court” e/o ad una “spending rewiew” (oggi ”esaltabile”…), posta la perdita di autonomia di un centro pregnante come Paganica e per cui l’accademico Gioacchino Volpe si mosse a favore dei suoi “compaesani”; in senso di ”hypothetic history”, senza lo scompaginamento dell’”Ulteriore II”, non vi sarebbe stata la Grande Aquila, e, che, proprio, permise di arginare pure ”demograficamente” le pretese da capoluogo di regione di Pescara nel 1948, al netto che tornò libero il comune di Lucoli due anni avanti per le “influenze” di emigrati Oltreoceano: in quel frangente e nella nascita ex Costituzione art.117 dell’Ente Regione nel 1970, paganichesi ed arischiesi, pur rivendicando per il forte attaccamento identitario, la ”libertà comunale”, parteggeranno, per i “Moti dell’Aquila” del febbraio’71, allora, parendoci, di dover ridimensionare l’idea di un municipalismo ”intra moenia” come la ”tara” alla base di ”fallimenti” delle successive progettualità comprensoriali.
Vi è necessità di un superamento del dualismo città-ruralità, oggi, passante per le “new town”, altrimenti, mancando l’”urbe policentrica”, valorizzante le vocazioni territoriali in grado di interconnettersi al proprio “capoluogo”, che non più agitante l’idea della “Regione Sabina” (?) avrà dinanzi la “Nuova Pescara”.
 Quei fatti di quasi un secolo fa, appaiono una questione storica da affrontare scevri da impostazioni precostituite, specie, quando non suffragabili scientificamente.


Enrico Cavalli



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