L’EREMITA DEL GRAN SASSO - di Mario Narducci

L’EREMITA DEL GRAN SASSO

 

- di Mario Narducci -


Lo videro per la prima volta una mattina d’aprile, quasi nascosto dietro una colonna della chiesa parrocchiale di Assergi dove si celebrava la messa della domenica. La panca su cui sedeva era avvolta dall’ombra che le scarse luci della navata e dell’altare non riuscivano a diradare. I fedeli erano entrati in chiesa segnandosi di croce dopo aver sfiorato con le dita l’acquasantiera in pietra antica, mentre un ginocchio si piegava appena, frettolosamente. Lui se ne stava raccolto, quasi ingobbito, il volto chiuso tra le mani, avvolto in un giaccone nero stinto, senza quasi emettere respiri. La gente ogni tanto si voltava, come a vedere se desse segni di vita. Fino a che parve rassicurarsi allorché lo sconosciuto andò verso l’altare per prendere l’ostia. E quando tornò al proprio posto, ne indagarono il volto e videro che il forestiero era assai più giovane di quanto avessero immaginato. Il suo passo era lento ma robusto. Aveva capelli neri e lunghi, niente affatto arruffati, e una barba da cappuccino di una volta, lunga almeno una spanna. Il volto era bianchissimo da apparire pallido. Non videro gli occhi, perché tenendoli bassi sulle mani giunte, egli raggiunse la panca da dove era emerso, per riprendere il suo colloquio con Dio.
La curiosità delle gente, nei giorni successivi, riuscì a schiarire il mistero, anche se non a pieno. Si seppe così che il giovane altri non era che un eremita, proveniente dalle vicine Marche, che dopo una laurea in lettere aveva stravolto la propria vita abbandonando ogni cosa per darsi alla contemplazione solitaria.
Aveva scelto, per eremo, una grotta scavata tra i macigni del Gran Sasso, abitata da un penitente del tredicesimo secolo, fino alla morte, dopo aver risuscitato greggi, ammansito lupi, fatta scaturire acqua viva dalla roccia colpita con un bastone da pastore. Quell’uomo di Dio altri non era che San Franco di Roio, diventato benedettino in un monastero di Lucoli, che invachitosi della vita solitaria vagò per anni di grotta in grotta fino a fermarsi in un antro poco lontano da Pizzo Cefalone, dove morì. La sua fama di taumaturgo aveva raggiunto anche la vicina Marca, fino a toccare le orecchie del giovane pallido sotto i capelli e la barba neri, che volle visitarne il luogo oramai sistemato in celletta con interventi murari, e vi si stabilì.
Il nuovo eremita vi stava rinchiuso, per pregare il salterio e prendere i pochi pasti di magro che la pietà della gente gli portava. Se usciva, al tempo dei fiori e quando sereno era il cielo, era per coltivare il fazzoletto di terra arida che gli stava intorno, per poi raccogliere erbe e fragole da usare con parsimonia onde la gola non ne fosse pienamente appagata.
La sua solitudine, con il tempo, incominciò ad essere rotta dai paesani che si recavano sempre più spesso a trovarlo, per godere della sua presenza e delle sue parole. L’eremita non si tirava indietro, non si negava a nessuno. Il suo cuore era diventato come un’otre che si riempiva degli assilli della gente e si svuotava quando ne sgorgavano consigli e sorrisi che toccavano gli animi fin nel profondo più cavo. Incominciarono ad accorrere anche i più giovani, che lungo l’erta rocciosa si facevano agili come caprioli, alcuni con la chitarra in mano. Giunti alla grotta l’incontro diventava colloquio ed agape, musica che accompagnava la salmodia dell’ora, quiete silenziosa e distacco da ogni assillo.
“Il tempo è lo spazio che diamo al respiro dell’anima”, disse un giorno l’eremita ad un liceale che gli aveva chiesto che cosa fosse. Ma che intendi per respiro dell’anima, insistette il giovane. “Tutto ciò che la realizza nella purità dei sentimenti e delle passioni”, rispose l’eremita. E un’altro, appoggiandosi alla chitarra come al bastone di un pastore: “Sentimenti e passioni, come è possibile riconoscerne la purità? “Non dalla aderenza alla legge, ma dalla pace interiore, rispose ancora l’eremita, che non è sensazione inerte, ma disposizione all’agire, perché Dio non è amore immobile, ma dinamismo sempre in divenire”.
Le stagioni si susseguivano tra torpore e speranza. Al tempo della neve il pellegrinaggio diventava più rado fino ad arrestarsi del tutto. Gli incontri allora accadevano al piano, quando l’eremita scendeva per la messa della domenica. E quando la vecchiezza incominciò ad incanutirlo fino a diventare una sola cosa con il pallore del volto, incominciarono a rarefarsi come l’aria nelle cime più alte di vette mai ascese.
Una primavera, all’apparire di un male invisibile che sconvolse la terra e sparse dolore nelle case, e desertificò le piazze e le vie, ma senza smorzare il sole e le stelle, un giovane salì alla grotta, solitario. L’eremita era steso sul giaciglio di pietra, coperto da pelli di pecora, come uno zampognaro colto nell’attimo del riposo. “Il mondo sta dissolvendosi, disse il giovane preso da inesausta trepidazione. Cosa può dire agli uomini, perché rinsaviscano, in questo tempo di incertezza”? “No, disse l’eremita insieme all’ultimo fiato, non è un tempo di incertezza, ma di verità”.
Quando il giovane scese a valle, la trovò fiorita in ogni dove. La verità stava tra i petali di una margherita che raccolse mentre gli si allietava l’anima. E staccandoli ad uno ad uno, come da ragazzo quando giocava a “m’ama e non m’ama”, ebbe certezza di non essere stato abbandonato da Dio. E con lui l’universo intero.



Condividi

    



Commenta L'Articolo