LA SACRESTIA AI TEMPI DI DON DEMETRIO - di Fernando Acitelli

 

«Chi ha coscienza muore povero»

Don Ermanno Morelli, parroco di Assergi

morto all’improvviso nel gennaio 1954

 

- di Fernando Acitelli -

Ero un fanciullo e in più d’una estate mi misi a disposizione di don Demetrio per prenotare le messe a San Franco. Erano i giorni di Ferragosto e ad Assergi confluivano tanti fedeli (amo più il termine “pellegrino” dal latino peregrinus «straniero», cioè chi non è del posto e compie un viaggio più o meno lungo per raggiungere un luogo sacro). Per quella mia opera ero collocato in sacrestia e il piano d’appoggio per scrivere i nomi dei richiedenti la funzione per San Franco era su un mobilio antico, entrando a sinistra, che, nei suoi piani alti e anche laterali, custodiva, dietro cigolanti ante, gli abiti talari e inoltre tutti gli oggetti per il culto riguardanti l’altare ed altri per poter svolgere degnamente le funzioni dei sacramenti. La sagrestia l’avvertivo come il luogo più intimo della chiesa - ma allora l’interno del tabernacolo? - potrebbe obiettare qualcuno. Erano per me due mondi diversi, nella sacrestia ci si preparava alla funzione mentre in chiesa, all’altare e al leggio, tutto doveva svolgersi secondo una rappresentazione precisa, un canone si potrebbe dire, e che proveniva da lontano. Per celebrare i sacri misteri si dovevano rispettare tutti i passaggi del rituale. Durante la messa si diventava altro, s’operava una sospensione dalle faccende quotidiane e tale sensazione la provava ogni fedele che “andava a tempo”, vale a dire rispondeva esemplarmente al Celebrante e contribuiva così a far avanzare la funzione. Nella sagrestia s’era ancora fuori dal rituale e il sacerdote lo si vedeva come figura ancora umana, più “a portata di mano”, aperto all’ascolto dei problemi di tutti, uno alla volta. In sagrestia il parroco era una persona raggiungibile e non ancora chiusa (giustamente) nel rituale. La sacrestia! Luogo dove trovare riparo, ambiente dove ascoltare storie che erano poi la realtà d’ogni persona.

Non ricordo più quanti anni sono che non entro lì dentro e non respiro l’odore intenso della sacrestia. Forse, adesso, entrandovi, rimarrei deluso perché respirerei fragranze nuove, e sarei in ascolto di altri vocaboli, di formule linguistiche che non mi appartengono. Altra cosa, evidentemente, è Dio o l’idea di Dio, quella rimane avvertibile ovunque. La mia visita in sagrestia diverrebbe così un’intrusione in un luogo “sconosciuto” e a quel punto la vertigine avrebbe le sue buone ragioni. Rimane anche un certo romanticismo sui luoghi, come ad esempio visitare una vecchia casa in pietra di Assergi e poi finire in una nuova costruzione con tutte le innovazioni e le comodità che si sono introdotte. Un certo spaesamento, lo avverto.

A quel tempo – fine anni ’60 inizio anni ’70 - io stavo collocato in sacrestia per prenotare le messe a San Franco e i pellegrini provenivano da tutto l’Abruzzo e, per lo più, dai luoghi attorno a Teramo. Spesso non comprendevo bene i nomi ed i cognomi perché il loro era un dialetto stretto e così me li facevo ripetere anche più volte perché sentivo di dover essere esatto nella trascrizione: la messa per quel defunto e per San Franco aveva dunque un committente, chiamiamolo così mi si perdoni il riferimento all’arte: Papa-artista, nobiluomo-artista come nel caso, ad esempio, di Agostino Chigi e Raffaello. E la traiettoria (pensavo) doveva essere giusta come se San Franco potesse individuare sulla Terra (ad Assergi!) quella persona, proprio quella che s’era ricordata di lui e apportare così del Bene e ringraziarla da lontano, da ogni iperuranio possibile, ben oltre le sfere celesti come soltanto lui poteva fare. Ero dunque diligente, rigoroso, quasi un burocrate nella trascrizione dei nomi in quei quaderni dalla copertina nera, lucida, e dai bordi rossi, ma ero nel giusto visto che si stava trattando la materia divina.

Da dire che le file dei pellegrini erano lunghissime e di questo se ne aveva cognizione già vedendo i pullman parcheggiati giù, ai Frati. Era chiaro che quella sorta di folla medievale si sarebbe poi riversata in chiesa e, più precisamente, in sagrestia. In quei due giorni del 14 e 15 agosto divenivo un vero amanuense, posto allo scriptorium, e riempivo quaderni con una disinvoltura tale che ero io il primo a stupirmi per tale scioltezza nell’appuntare esistenze, non tralasciando inoltre di studiare i tipi umani (mia passione da sempre) e così risalire a luoghi della Storia, a dipinti, a situazioni tra guerre di religione, orde di lanzichenecchi e storie di principi, servi e Papi. Insomma, tutta la zazzera del mondo. Ecco, la sacrestia per me diveniva una grande rappresentazione, una sorta di Commedia del’Arte in diretta, in cui io, in incognito, ero il raccoglitore ed il custode di immagini che non avrei potuto cogliere altrove. E il bello era (per me) che i pellegrini non sapessero nulla di questi miei pensieri e così, spesso, per studiarli bene, gli facevo ripetere più volte le loro generalità e così, allungandosi il tempo, avevo modo di studiarli, di penetrarli nell’animo, e fu anche quella una scuola di vita una “educazione sentimentale” verso gli umani, di cui mi sarei giovato in seguito. Ma volevo bene a tutti i pellegrini che s’imbatterono in me, e tale sentimento nasceva dal fatto che erano lì per San Franco e, prenotandogli una messa, era come se lo pregassero d’intercedere non soltanto per la loro anima ma anche d’intervenire (per quelle che erano le sue competenze) e sedare dei conflitti (chi non ne aveva?) non soltanto con gli umani ma anche con il proprio corpo che (forse) stava dando segni di cedimento.

Chissà dove saranno adesso quei quaderni…in quale inaudito ripostiglio riposeranno… A cercarli e trovarli si troverebbero tante esistenze rimaste anonime, proprio come le folle medievali, ma trascritte in quelle righe per la loro devozione a San Franco. Da qualche parte, dunque, quelle vite transitate per Assergi risulteranno.

E don Demetrio, alla fine del mio officio, mi ricompensava (insieme a quei miei compagni che s’erano adoperati nella stessa opera), e le trecento lire che ci donava si poterono considerare il primo, flessibile lavoro, come pure il primo stipendio da noi ricevuto.

 

 



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