NON AMO LE PRENOTAZIONI - di Fernando Acitelli

NON AMO LE PRENOTAZIONI

- di Fernando Acitelli -

 

 

 

Se pensi come la maggioranza,

  il tuo pensiero diventa superfluo

Paul Valéry  

Sono rimasto legato a quelle prenotazioni che riguardavano le funzioni per i defunti e per quelle a San Franco, beninteso con don Demetrio Gianfrancesco perfettamente insediato ad Assergi, quanto al dopo, l’incanto in me era finito perché la carica spirituale ed emotiva che don Demetrio sapeva infondere era unica e mai più avvertita pur rispettando io l’officio di chi venne dopo di lui. Oltretutto don Demetrio nel 1955 (l’8 maggio) aveva unito in matrimonio mia madre e mio padre e così un motivo in più per sentirlo affettuosamente accanto. Egli era appena giunto ad Assergi come parroco e i miei genitori lo ricordavano spesso come giovane sacerdote e con un profondo sentimento religioso. Poi con la mia adolescenza e la giovinezza tutto s’è fatto evanescente ma più che la ragione è stato il senso lirico della vita a decretare il mio cammino.

Bene, ma oltre quel mio lontano impegno nel prenotare le sante messe con don Demetrio, non andai.

Non amo le prenotazioni in generale ma soprattutto quelle legate alla ristorazione, men che meno quelle dal parrucchiere o acconciatore che dir si voglia. Il telefono, dunque, è il mezzo con il quale un tavolo in un ristorante o in una pizzeria è fissato per una certa ora. Ormai tutti si sono adeguati a tale “pensiero comune” e si tratta, come è noto, di comportamenti tutti uguali che non possono distinguere la persona perché (riconosco) il non ubbidire a questa nuova normativa globale è soltanto per colui che non ha fretta, per chi non è di nessuno, per chi è un homo pro se per dirla con Erasmo, per chi non è negli ingranaggi del mainstream ed è invece un flâneur, vale a dire un gioioso perdigiorno dell’esistenza, un vero cacciatore d’immagini che può essere in un posto ma anche in un altro secondo l’intuito del proprio sentire, cioè avere chiara in cuore l’idea della libertà nel senso più alto e più puro. Il flâneur non è soltanto colui che osserva il mondo fuori di sé – la vita cittadina, la gente che passeggia, il conversare a modo oppure di corsa - ma anche colui che in quegli stessi istanti si guarda interiormente. Per un tipo simile non cambierebbe nulla con il ristorante pieno e infatti, subito, dopo aver ringraziato, cambierebbe rotta, si metterebbe in cammino all’istante, a scovare altri posti, altri volti, altre parole. È un tipo costui che rispetta le regole ma che rifugge la narrazione che ha invaso tutti e nella quale a dominare è un linguaggio 100% acrilico, termini come skyline, start up, spending review, joint venture, trolley e l’immarcescibile “assolutamente sì” e quest’ultima sintesi ha residenza ovunque, dall’avvocato al parrucchiere all’idraulico all’ecologista al fisioterapista al dentista all’estetista al qualunquista al maratoneta all’atleta all’esteta.

A dir bene, l’assolutamente sì è una sintesi rassicurante e che svela come ci si sente dalla parte giusta, quella dei “vincenti”, cioè immersi nel pensiero dell’opinione pubblica globale. Parlare di “vincenti” nella brevità della vita non mi getta a capofitto nella disperazione ma mi fa ridere, un po’ come in una poesia di Samuel Beckett: “il peggio di fronte fino a che faccia ridere”. E a tutto questo si aggiunge anche la cosiddetta “prenotazione”, un modo sicuro, tramite telefonata, di stare tranquilli e, nell’io profondo, di attenuare il senso dell’angoscia che assedia l’umanità sin dall’alba del mondo. A pensarci bene tutto questo frasario è in connessione e così si hanno delle sintesi precise per ogni luogo, per ogni situazione. Un frasario intercambiabile che dona tranquillità e consente di essere visti dagli altri come persone affidabili e anche d’impegno sociale, lungimiranti, tese al bene comune. Ma è il sentimento capitale dell’angoscia, del nulla che fa attivare ogni persona collocata in alto nella creazione di sempre nuove cose, di “nuovi miti” e dunque qui l’unico vocabolo da scomodare è l’accumulazione. C’è inoltre da dire come la tesaurizzazione crei sublimi illusioni, come un senso di eternità; ma forse quella ristretta cerchia di persone procede per un simile sentiero anche se è cosciente – malgrado ricchezze e privilegi - che siamo tutti “a tempo”, e questa legge riguarda anche chi è inarrivabile, inconoscibile. Checché se ne dica, malgrado si progettino nuovi universi più o meno provvisti di senso, esiste una meta finale che riguarda tutti ed è quella, forse, la forma più vera e compiuta di democrazia.

Ma il mio interrogativo continuo è: «Perché devo prenotare per un posto in un ristorante e non gioire per il cosiddetto imprevisto»? È tanto bello l’imprevisto, solleva tante fantasie e allenta un po’ gli agguati della vita: per alcuni istanti l’esistenza si fa spensierata. E inoltre è bello anche, a volte, coprirsi di ridicolo, non sapere che era necessaria la prenotazione e che dunque si è un perdigiorno autentico, un tipo fuori del mondo che fa sorridere i benpensanti lì radunati, i rispettosi dell’ortodossia quotidiana, i devoti alle innovazioni, insomma gli “allineati e coperti”. Ma in quei momenti colui che non sapeva nulla delle prenotazioni, in verità si svela, dona la parte più bella di sé, mostra tutta la sua fragilità, la parte più nascosta e più pura del suo essere.

Vorrei giungere in un ristorante e non trovare un tavolo libero e a quel punto me ne andrei, senza addolorarmi, anzi, con il sorriso; quindi mi porrei in cammino e, rivolgendomi altrove, troverei un tavolo, magari in un cantuccio nei pressi del bagno; lo troverei comunque, probabilmente anche in una bettola dimenticata ai confini della città, del paese, della frazione, di lato ad una casa cantoniera abbandonata. Altrimenti mi metterei di nuovo in cammino verso un altro luogo, ancora, per affrescare la mia serata di una libertà vera e non quella ormai svuotata di significato. La libertà autentica e non quella sbandierata per non essere, lo ripeto, dalla parte dei sapienti, dei lungimiranti. Trovato quel posto inimmaginabile, forse in una periferia, un locale senza controsoffitti e neppure luci al neon ed invece (oh sublime!) con l’oste panciuto, borbottante sotto l’arco della cucina, ne starei quieto e sereno: in simili ritagli di realtà s’innalzerebbe subito il silenzio.

Un altro ristorante, un’altra pizzeria, un’altra storia in cui immergersi, finirvi a capofitto, e il senso della casualità ad ergersi senza che la collocazione era stata precedentemente studiata. Meraviglioso il non preordinare nulla ed essere sempre sulla soglia, accolti o gentilmente respinti è lo stesso. E a tutto questo aggiungo – qualora non trovassi un posto da nessuna parte - anche un bussare notturno ad un convento con il frate guardiano che mi scruta dalla grata di ferro ed è a chiedermi che cosa desidero a quell’ora di notte. Gli risponderei: «Padre, non ho la prenotazione e neppure il fastidio del trolley il cui rumore, lo so bene, provoca fastidio e ho con me soltanto una bisaccia con le mie poche cose. Sono a chiederle se c’è la possibilità d’un pasto caldo e poi d’una branda per valicare la notte…». Egli forse mi chiederebbe le credenziali ed io, prima di mostrargliele, non gli risponderei: «Assolutamente sì!» e neppure: «Lo sa padre che avventurandomi fin qui ho ammirato al tramonto un bellissimo skyline!?...». In verità gli parlerei da umanista, magari fuori tempo massimo, ma sicuramente da filologo lirico. E ottimo sarebbe il pasto caldo in un refettorio vuoto con assenza dunque di quella diavoleria del “viva voce” e di persone tutte in mostra, sfilanti, osannanti in proprio, esorbitanti, estenuanti, shampate, profumate, acchittate, tutte ad annunciarsi per chissà quale progetto. Un’altra sintesi da capogiro è il cosiddetto LAVORO A PROGETTO, cioè il rimandare di continuo l’appuntamento serio con la vita grazie ad una normativa fatta a pennello per creare dei vaganti del lavoro, degli oranti in cerca poi di altre occupazioni.

Confortevole sarebbe nel convento anche la branda con coperte di lana vera, paragonabili a quelle della “Fara” in uso fantastico, un tempo, ad Assergi e poi il bacile e la brocca piena d’acqua per le abluzioni allo spuntare del nuovo giorno. Tutto questo pensare (e sognare) riguarda soltanto me (lo ripeto) mentre invece, come si sa bene, esiste un’estetica nel prenotare che prevede tutt’altri comportamenti, tutt’altre parole, un modo diverso di porgersi, vale a dire la rappresentazione d’un rituale consolidato; e ognuno rispetta un codice per presentarsi, per annunciarsi e questo è vero anche per una semplice cena. E al termine della stessa vi sarà anche il commento da parte di chi ha prenotato ottenendo un tavolo nel punto migliore della sala grazie alla telefonata con largo anticipo. Un bell’ambiente, sufficiente il servizio ma in verità qualche riserva emerge e il commento finale sulla scelta fatta e su come s’è mangiato non risulta del tutto benevolo e dunque lui a dire: «Questo ristorante era segnalato dal “Gambero Rosso” ma per me non ci siamo…Ed è obbligatoria anche la prenotazione…». E subito dopo la voce di lei, più conciliante: «Va bene, vorrà dire che la prossima volta ci orienteremo verso la nouvelle cuisine oppure ce ne andremo al ristorante vietnamita…». E una loro amica presente nello stesso tavolo: «Dai! Il ristorante vietnamita! Fantastico!». E la sera prende lentamente congedo da se stessa e s’inoltra nella notte.

Dunque parliamo d’una disposizione secondo la quale io dichiaro per telefono che ad una certa ora sarò in quel posto per il pranzo o per la cena. Non è forse un limitare il mio agire? E se all’improvviso avessi un appuntamento non in programma? Ma in quel luogo mi attendono e se per un caso fortuito alla fine non mi presentassi, quali parole mi rivolgerebbero contro soprattutto con me assente? Perderei anche la mia credibilità e ne uscirebbe malmenata la mia persona. Con quell’attitudine del prenotare anche la mia interiorità dunque si esporrebbe, metterebbe fuori molto di me, ed io mi esproprierei da solo già con le parole e con il dire per telefono il mio nome e cognome che potrebbero anche essere immaginari ma non ho mai dato false generalità neanche soltanto con il nome: simili azioni io non le riconosco come miei comportamenti. Sono troppo sensibile per queste cose e se lo scelgono di fare gli altri è una soluzione che non approvo ma che rispetto. Alla fine, a quel benedetto tavolo che troverò saltando da un ristorante ad un altro, sarò solennemente anonimo, uno della folla in un corteo tutto sfilacciato. Nessuno saprà qualcosa di me.

Considero la prenotazione qualcosa di estremamente pettinato. E così lui che interiormente – davanti allo specchio o in macchina - ripete in sequenza le sue perfette azioni: «Ecco ci vediamo stasera, ho prenotato, come no, tutto perfetto, alle 20 in punto mio caro, siamo in perfetta forma grazie alla palestra, oh, sapessi che belle pupe ci sono ultimamente; poi sono stato dall’avvocato e quindi dal commercialista e tutto è a posto e ho pagato le bollette, inoltre ieri ho provveduto alla revisione della macchina, poi mi sono recato all’autosalone e ho chiesto dei chiarimenti a proposito dell’auto elettrica, sai il green è in fase di decollo e non voglio farmi trovare impreparato; quindi ho preso il ticket per il parcheggio, mi sono sistemato per bene, e poco dopo mi sono diretto dall’acconciatore e poi mi sono speso in acquisti e ho capito che devo cambiare profumazione e, da ACQUA DI GIÒ, dovrò migrare verso le nuove fragranze di PACO RABANNE. Quindi mi sono sentito cadere il mondo addosso per le ingiustizie della vita che ascolto di continuo, eccetera, eccetera». Il finale è una esposizione ipocrita ma è necessaria perché con il benessere consolidato le si devono pure sfiorare le ingiustizie del mondo.

Pensate un po’ se dal mio amico Franco Scarcia, Franchino per tutti noi, mi dovessi mettere in contatto telefonico con lui per prenotare un tavolo nella sublime sua locanda “FUORI LE MURA”. Ma io non ho mai voluto scavalcare gli altri e se da lui il locale fosse al completo, accetterei anche un tavolo isolato, dislocato al di là del sottostante arco, magari nei pressi di quella che un tempo era chiamata l’Ara di zio Cavallino, più nota in dialetto di Assergi come “l’ara de Siii Cavalline…”. Lì starei benissimo, a breve distanza dalla casa che fu di Lucia de Cechine e dai pagliai di Bebè e con la Terra della Baronessa di fronte. Con una bel candelabro a due bracci sul tavolo, guarnito di candele, sarei perfetto. Potrei veramente essere scambiato come un cospiratore borbonico dei primi anni dell’800, un fuggitivo con in mente l’avventurosa impresa di raggiungere il Granducato di Toscana. La luna darebbe il meglio di sé per rischiarare la valle ed io mangerei di gusto e, qualora dovessi chiamare Franchino, gli manderei un grido composto: «Oste, siete pregato di raggiungere il mio tavolo perché il vino scarseggia e l’abbacchio da voi promessomi non è ancora arrivato…». E lui in tutta risposta: «Avete ragione mio signore, sarete servito al più presto!». Altro che prenotazione!

 



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