«PAPÀ, SONO TRENT’ANNI CHE NON TI VEDO…» - di Fernando Acitelli

«PAPÀ, SONO TRENT’ANNI CHE NON TI VEDO…»

 

 

 

                                             Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto

          della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.

Luigi Pirandello

 

 - di Fernando Acitelli -

Ecco, papà, e proprio da questo dettaglio che parto, tu incontrasti tante maschere nella tua vita, simulazioni di persone che spesso t’ingannarono, che pensarono di carpire da te quanto non potevano prendere perché la sensibilità e la purezza non si possono acquistare, non si vendono in nessun mercato, nemmeno in quello degli illusionisti e delle fantasmagorie, forse soltanto in qualche superstite Corte dei Miracoli, e dunque, nei tuoi paesaggi (soprattutto interiori) di volti e di sguardi autentici, non ne incontrasti, se non raramente, a parte la mamma (tuo vero amore e puntello esistenziale) e quel manipolo di persone strette e con affetti certificati. Ma, in fondo, anche oggi non è altro che la “Commedia Umana” di Honoré de Balzac.

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Papà mio, non è soltanto Assergi che ci ha unito, che ci riguardò per tanto tempo, ci fu anche Roma e senza le tue eleganze interiori, senza la tua signorilità, sarei stato un’altra persona, ti devo tutto insieme alla mamma.

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Ogni sera rientravi con un libro e m’attaccasti anche questa devozione, leggevi tanto e ti piaceva anche custodire i libri, metterli bene in mostra come volendo avere intorno, e respirarla, tutta la storia universale in cui eravamo anche noi.

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Sto in difficoltà a narrarti, la verità è che non so bene quale possa essere la traiettoria da seguire, quale l’inizio, quale la fase intermedia e quindi la parabola discendente, e tu sempre in silenzio, puro in disparte, tesoro mio.

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Un romanzo tutto per te l’ho pubblicato nel 2011, ho attraversato nuovamente tutti i tuoi luoghi, i tuoi affetti dagli anni ’20 in avanti, non c’è stato un ritaglio di Roma che non fu il tuo durante tutta la tua esistenza.

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Non posso affermare con esattezza quale anno sia quello in cui sei salito a Campo Imperatore e lo si vede dalle foto che ho conservato; è la prima volta che non metti la data in una foto, e comunque osservando il tuo viso e riferendomi alla tua età e alla costruzione della funivia, posso parlare come molto probabile la data del 1935 o, al massimo, 1936. Sono come filmati adatti alle ragioni del cuore quelle cinque fotografie ma mi debbo contentare soltanto di custodirle, senza andare oltre e chiedere aiuto alla fantasia.

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Per scrivere la tua biografia, passai in rassegna tante fotografie e poi le lettere dei tuoi tre anni nei campi di concentramento in America, a Lordsburg (New Mexico) e Hereford (Texas), fatto prigioniero in Africa.

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Albania, Grecia, Africa Settentrionale, fatto prigioniero a Tunisi e poi condotto in treno a Casablanca, quindi, con la nave Liberty Ship fino a New York e da lì, in treno per tre giorni, ad attraversare tutti gli stati del Sud.

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A proposito di Casablanca, il tuo orologio Eberhard te lo tolse, da vero ladro, un ufficiale australiano durante la conta dei prigionieri, un cronografo Eberhard da te acquistato nella gioielleria di Francesco Valentino, via Principe Umberto 31 (negozio ancora esistente e oggi c’è il nipote Bruno), e pagato 800 lire nel 1936, ebbene, non è anche un simile furto da mettere nel capitolo “danni di guerra”?

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Fu per te un danno tutto interiore, come un’aritmia si produsse perché gioiello legato alla tua giovinezza, anche al tuo tragitto di quel giorno per recarti in quella gioielleria ad acquistarlo, per porlo bene in vista al polso, per renderti ancora più elegante non bastasse il tuo sorriso esterno e poi quello del cuore.

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Una volta finita la guerra quell’ufficiale australiano avrà sicuramente venduto quell’orologio, magari facendosi anche grande dicendo che il bottino spettava ai vincitori, un miserabile a dire bene, rubare in tempo di guerra un oggetto ad un prigioniero come se non bastavano i gianduiotti delle bombe in picchiata dal cielo.

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A proposito di gianduiotti come bombe, a Tobruck e Tunisi non facevi altro che ripetere: «Questa è la mia!», riferendoti alle bombe sganciate dagli inglesi, dunque la tua vicinanza con la morte fu continua, e credo che anche da lì iniziassero i sussulti al tuo cuore.

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Il viaggio di ritorno nel 1946, con la nave Marine Tiger partita da Long Beach e, attraverso il Canale di Panama, immessasi nell’Oceano  Atlantico, e soltanto cinque chili di bagaglio era consentito portare a bordo, chissà quant’altri oggetti avresti potuto custodire con te, riportare in patria.

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Le lettere che spedivi e che ricevevi da casa erano siglate con il VISTO PER CENSURA, e anche U.S. CENSORSHIP, e le parti che non erano ritenute accettabili, erano cancellate apponendo sopra di esse una striscia nera e  gommata.

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Le lessi per la prima volta che potevo avere una decina d’anni e quello che mi colpì furono proprio quelle “ostruzioni” poste dalla censura, e fu come sentire un’amputazione al senso d’un discorso, una frattura al tuo bene lirico.

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Il sublime spesso sta nel “non detto” ma soprattutto in ciò che non si è potuto leggere perché è stato cancellato ed è proprio lì che l’angoscia s’impenna, e per colui che lavora sulle parole quei frammenti mancanti sono dolore.

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Ma a chi dirlo tutto questo? Forse all’ufficiale australiano, ladro autentico, che non era in nessun modo autorizzato a rubarti quell’orologio Eberhard, acquistato in quella via Principe Eugenio che conosco tanto bene. «L’avessi ora qui davanti quel ladro!…», pensai da ragazzo.

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Non era soltanto il tuo volto a rassicurarci con le sue misure pare, nitide, con il perenne sorriso – il katà métron greco, ma anche il métron, la misura, che era alla base della polis, città stato della Grecia – ma quanto si coglieva dalle profondità del tuo essere, e insomma dall’eleganza interiore si fondava tutto.

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Quando passo dinanzi al tuo liceo classico, il “Nazareno”, non riesco proprio a comporre i tuoi quindici anni lì dentro con accanto Giovenale, Orazio e Cicerone, oggi è mutato tutto e ogni interiorità è tale soltanto dopo il filtro/vaglio della Tecnica.

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Dopo il quarto e quinto ginnasio lì dentro ti capitò d’incontrare – eri insieme a tua madre sulla via Tuscolana – il tuo maestro elementare dal cognome sublime, adatto a te, Del Signore si chiamava, ma costui non approvò la scelta tua di studi classici, e la mia futura nonna Teresa tacque.

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Ti disse che erano studi lunghi, faticosi e in quegli anni ’30 bisognava pensare subito al lavoro e ti consigliò le Scuole Commerciali di modo che più facilmente avresti potuto concludere gli studi e trovare una occupazione.

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Dunque cambio d’orizzonte e la scuola “Armando Diaz”, in via Taranto e poi a Piazza Lodi e un giorno – lo ricordavi sempre – alla lavagna il docente ti chiese d’effettuare l’analisi grammaticale su una frase e tu iniziasti subito, parola per parola col gessetto.

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Tanta era la familiarità con il latino, appena lasciato al Ginnasio, che tu componesti, a lato e sempre sulla lavagna, anche l’analisi logica ma ancora non ti bastò e allora sempre con Cicerone in testa, allineasti accanto ad ogni parola anche i casi che prevedeva la lingua latina.

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E dunque scesero sulla lavagna tutti i casi previsti dalla grammatica latina e dunque il nominativo, il predicato verbale, il genitivo, il dativo, l’accusativo, il vocativo e l’ablativo, bene, e a quel punto il docente ti chiese:«Scusa, ma che studi hai fatto, da dove provieni?».

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Confessasti, fosti obbligato a farlo, rispondendogli con il nitore del vero: «Dal quinto ginnasio…», ma lo dicesti quasi scusandoti, quasi con vergogna, come avendo timore di tracciare un solco, e dunque una distanza, tra te ed i tuoi nuovi compagni di classe.

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Non una parola sul maestro Del Signore che ti aveva consigliato (ma lui era nel giusto, vedeva lungo!) di mutare indirizzo ai tuoi studi perché c’era necessità di un mangiare sicuro tutti i giorni, di vivere a dirla in breve, attraversando quegli anni a dir poco perigliosi.

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La storia finì con quel breve colloquio ma tu ci riferivi spesso che il professore provò disappunto per quanto da te riferito, come se lui, al tuo posto, avrebbe continuato, sarebbe stato un irriducibile della perifrastica passiva e di ut e il congiuntivo, e delle locande del poeta Orazio.

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È ancora in vita la costruzione, cioè la scuola che fu chiamata “Armando Diaz”, non mi avvicino mai, temo che abbiano cambiato nome all’istituto e poi non sfilano più volti almeno lievemente avvicinabili a quelli degli anni ’30, e così mi tengo distante da una simile mutazione antropologica.

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In quello che non era stato possibile leggere nelle tue lettere a casa o in quelle di tua madre da Roma, ci poteva essere qualcosa di puro, di elegante, qualcosa che seppure poteva rimandare ad un fatto e ad un luogo era di contenuto innocente per te, oh sì per te ma non per la U.S.CENSORSHIP.

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E comunque, a parte le accortezze che si dovevano prendere nello scrivere a casa, le sensazioni, lo stato emotivo, le speranze sempre più lacerate, si sentivano e la tua scrittura era fluente, nitida, e con gli anni pensai a te come ad uno degli scrittori della rivista “La Voce”.

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“La Voce”, certamente, e dunque Papini, Soffici, Prezzolini, Slataper, Sbarbaro, insomma chi “aveva veramente qualcosa da dire” in quei primi anni del Ventesimo Secolo, scrittori e poeti a trattare con nitore le parole, e proprio tale rivista smise le pubblicazioni nel dicembre del 1916, quando tu stavi per nascere.

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In una cartolina postale siglata PRISONER OF WAR POST CARD indirizzata a tua madre Teresa Lalli e recante data 4-9-43 (quattro giorni prima dell’otto settembre, snodo storico) dal WAR CAMP PRISONER OF WAR CAMP LORDSBURG - NEW MEXICO, e che riporto in una fotografia, tu ad un certo punto del tuo scritto chiedi a tua madre: «…Cerca di interessarti per la spedizione di qualche libro, possibilmente una grammatica inglese e una francese e uno di novelle…».  Mi pare una incredibile dichiarazione di poetica!...La tua visione del mondo era quella, i libri e la “tranquillità dell’animo” per dirla con Seneca. Altro che pastrano e moschetto Càrcano modello 91!

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Tra i tanti amici, nel campo di concentramento di Hereford, fosti insieme a Alberto Burri, vale a dire colui che divenne poi uno dei più grandi artisti del Ventesimo Secolo: lui era medico e stava nel settore riservato agli Ufficiali.

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Per scrivere la biografia su di te mi posi in viaggio e, da amante del Grand Tour, anche se romano, papalino, dovevo vedere nuovamente gli angoli di Roma che ti avevano riguardato e osservare come erano mutati da quando il tuo cuore e il tuo sorriso non erano più tra noi.

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La traiettoria che all’inizio mi riguardò fu quella delle chiese di Roma, che tu m’avevi fatto conoscere sin da bambino, praticamente tutto il centro storico: quei luoghi non erano altro che una lunga narrazione sulla storia dell’arte e sul mistero.

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La chiesa della Maddalena, poco prima del Pantheon, poi Santa Maria sopra Minerva subito dopo il Pantheon (dove m’indicasti la tomba del pittore Beato Angelico), e quindi Sant’Agostino poco prima di Corso Rinascimento, Sant’Agnese a Piazza Navona, San Carlo al Corso, la chiesetta dei santi Benedetto e Scolastica in via di Torre Argentina, così tanto per citarne qualche luogo sacro.

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E perché, San Carlino alle Quattro Fontane con quel capolavoro del chiostro interno del Borromini? E le chiesa di Santa Brigida a Piazza Farnese, e quella di Santa Maria dell’Orazione e Morte in via Giulia? Oh, via Giulia! Parallela da Ponte Sisto fino al Lungotevere del Sangallo, vale a dire il meraviglioso in strada, a portata di mano! E perché Santa Barbara in largo dei Librai, chiesetta da sembrare uno scrigno in quello slargo lungo via dei Giubbonari? Eravamo a breve distanza da Campo de’ Fiori e dalla statua di Giordano Bruno, arso sul rogo il 17 febbraio 1600.

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Ecco, tutto questo e tanto altro grazie a te, e così al Foro romano, sui marmi dell’Appia Antica, alle Terme di Diocleziano, a Palazzo Altemps, si trattava veramente di vertigini che si mutavano subito in conoscenza, in una ricognizione esemplare sui secoli dissolti.

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Era anche il sentimento del mistero ad attrarci, a finire all’interno di chiese e musei d’antichità romane, che ci faceva finire a capofitto nelle navate ed era anche quell’escludersi momentaneo dal mondo, dal chiasso feriale fuori del portale, a donarci ristoro grazie ad un raccoglimento autentico, nell’esteso silenzio.

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Quell’odore d’incenso da te descrittomi a me bambino smuoveva intimità celesti e il sentimento dell’Assoluto, ora posso scriverne ma questi termini, a quel tempo, non li possedevo, ma era però l’interiorità a farmeli cogliere.

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L’istinto, l’interiorità, si possono chiamare in scena tutte le parole ma era anche il tuo sorriso e le tue parole dalla forma levigata, para tutt’intorno, a far sì che io approvassi ogni tua sensazione, ogni emozione che erano sempre in te e non sorte all’improvviso.

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Ai romantici il cuore scoppia, l’agguato non può che riservare un attacco proprio alle camere cardiache, forse hai sbagliato secolo, papà, dovevi nascere al tempo di Shelley, Keats, Novalis, Kleist, allora aveva un senso disperarsi per amore, un animo troppo sensibile il tuo, collocabile all’inizio dell’Ottocento, quando il carteggio era una delle prove d’arte più sublimi.

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Parlando di carteggi si può smuovere di tutto ma non qualcosa come Les liaisons dangereouses, romanzo epistolare pubblicato verso la fine del ‘700 dallo scrittore François Choderlos de Laclos; ma il carteggio, ad esempio, tra Gabriele D’Annunzio e Elvira Fraternali in Leoni, detta “Barbarella”, la donna che più di tutte il D’Annunzio amò.

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Custodisco il tuo carteggio con la mamma, è un meraviglioso florilegio di sentimenti, un livello d’armonia e intensità che ho riletto spesso come cercando un approdo sicuro, un porto non di questo mondo e custodito dagli dèi.

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Hai pensato soltanto alla mamma e a noi, e l’unico divertimento, oltre i libri, era la tua amatissima Roma, sia l’Urbe che la squadra di calcio, sin dal 1927 anno di fondazione, quando il campo della Roma era a breve distanza dalla tua casa.

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Vedesti in diretta i primi campioni della Roma quando già avevano l’aria da divi e giungevano in automobile e sembravano irraggiungibili come attori sul modello di Vittorio De Sica e Amedeo Nazzari, e tu a studiarli, a  respirarli tutti da vicino.

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Era una passeggiata dalla tua casa raggiungere il “Motovelodromo Appio”, il primo campo della Roma e lì allestire una spensieratezza che si ingigantiva anche a ragione dei tuoi dieci anni, chioma dorata, ondulata, purezza d’animo ad avvistarla già dal sorriso.

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A chi avrei potuto chiedere delle fotografie di te fanciullo? Sempre tu a pensare a te stesso e, una volta adolescente, finire in uno Studio Fotografico dove, già l’attesa d’andare a ritirare quelle “istantanee” sublimi dopo qualche giorno, allestiva gioia.

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Pensai spesso dopo la tua scomparsa a chi avrei potuto rivolgermi tra i tuoi amici che erano ancora in vita ma erano delle mie fragilità il pensare tanto, imbattermi in un album fotografico dove, ogni tanto, saresti apparso tu.

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La verità è che non me la sono sentita di venirti a trovare al cimitero di Assergi prima d’un anno dalla tua scomparsa ed ogni mio tentativo falliva, non arrivavo neppure al cancello, mi fermavo molto prima e già all’altezza della fonte all’Acona tornavo in dietro.

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Alla mamma, molti anni prima avevi detto - non so quale argomento stavate trattando – che volevi un giorno essere sepolto ad Assergi, e infatti alla mamma dicesti: «Ora te l’ho detto…», e lì saresti stato vicino all’anima di tuo padre Alfonso, nato nel 1883 e morto a Roma nel 1924.

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Adesso sei lì, “al sicuro” e forse hai sentito anche il terremoto ed i continui sussulti delle profondità, la mamma ti è accanto ma io sono a chiedermi dove sarete entrambi adesso, visto che gli universi sono infiniti come aveva intuito Giordano Bruno e anche per simile illuminazione finì sul rogo? (Ed oggi la scienza s’è resa conto che aveva ragione il frate domenicano di Nola, di professione “eretico”).

 



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