ANAGRAFE CELESTE - di Fernando Acitelli

  ANAGRAFE CELESTE

   di      

     FERNANDO ACITELLI

 

Giacinta e Lucrezia avevano residenza in quel vicolo che sta di fronte alla casa dei De Leonardis, un vicolo in cui difficilmente si finiva se non si doveva necessariamente conferire con le due donne per qualche comunicazione, che so, questioni di terre, di misurazioni, di pagliai e così via, e Giacinta e Lucrezia sembravano fatte l’una per l’altra e alla piccola statura della prima faceva da contraltare Lucrezia che era un donnone, una sorta di generalessa nel romanzo Il giocatore di Dostoevskij, o anche, quando ero più ispirato, alla burbera moglie d’un oste nella Roma papalina del Belli, la quale, sortendo dalla cucina, si faceva sentire contro bravacci e avventurieri lì dentro confluiti; pure mi riusciva di immaginarla con addosso una lacera giubba napoleonica.


 

Ancora su Giacinta e Lucrezia: secondo me chi comandava dentro la loro casa era Giacinta, la quale, sebbene piccola, era risolutiva nell’agire e di certo non si risparmiava nel “mandarlo a dire” su come la pensava, e poi in strada procedeva a sguardo diritto senza mai cedere a chiacchiere o smancerie, era dunque tutta d’un pezzo e, in un eventuale diverbio era lei che si faceva sentire mentre il donnone a nome Lucrezia era più bonaria, borbottante e si potrebbe dire “aperta al dialogo” ma Giacinta, se presente, tagliava corto, richiamando all’ordine Lucrezia e il suo romanticismo del profondo, e ai vestitelli indossati da Giacinta corrispondevano giubbe di Lucrezia e scarponi e quando le vedevo discendere – io ero nell’ara di mio nonno Lorenzo – Giacinta comandava.

 

Il mio pensiero va anche a persone da me non conosciute ma che meritano d’essere ricordate e tra queste c’è senz’altro U Calacine, proveniente da Rocca Calascio  di cui mi distese notizie mia madre, valente artista del legno, ebanista con i fiocchi non uso però a fabbricare mobili ma a creare oggetti sublimi primo tra tutti il pomo del suo bastone che con era altro che un uccellino magistralmente realizzato a via di trattare il legno, bene, e costui aveva residenza subito dopo la casa di Battista Pace e prima di Pierina la madre di Pietro Tacca, ecco, quella era la sua residenza, e se si pensa che a breve distanza operava nel legno anche il valentissimo Sor Checco, si poteva definire quel rione come quello degli artisti del legno, i funamboli d’un materiale prezioso, la sua bottega era dopo la Foletta.

 

Grazia la “Camarda” – Dio l’abbia in gloria come tutti quanti - poteva ammirare la valle dalla sua sublime postazione, e se soltanto avesse puntato l’occhio da una finestrella della sua torre inaccessibile, avrebbe spaziato in lungo e in largo ammirando le Cartiche, alla sua sinistra, le Coste del Mulino, arrivando addirittura ad immergersi con le sue iridi nel verde della Casa Latina, un ristoro per lo spirito se avesse conservato un po’ di vigore nell’animo ma principalmente nel corpo, la ricordo discendere proveniente dalla Cimosca e prestare attenzione al più ripido e insidioso tratto in discesa che iniziava dopo Vincenzo Valeri e Ciu Ciu, ecco, giunta a quel punto controllava l’andatura per giungere poi “in piano” poco dopo la fontanella alla Piazzetta del Forno.

 

La Cupella, ovvero Domenica Scarcia, il cui padre aveva una barba lunghissima paragonabile a quella de gliu Frate, cioè del nonno di Agapito Mosca, abitava in quella casa in piano della Piazzetta del Forno prima di svoltare per l’Arco Rutelone e stava sempre a casa dei miei nonni e “se raffiatea”, come si dice, perché lì dentro sentiva affetto e comprensione, e mi ricordo che lei procedeva sempre con gli scarponi anche d’estate e questo mi faceva soffrire pensando che il suo corpo avrebbe potuto risentirne, e quando la sera rimaneva a cena, nella cucina si collocava “cant u foche”, vicina a “gliu callare”, in disparte dunque perché soffriva la presenza ravvicinata degli alti, ne temeva forse il giudizio, e lì se ne stava “in grazia de Dì”: «La potesse revedé», - diceva mia madre.

 

“Scianca Crapa” abitava in quel vicoletto sul quale s’ammirava la porta d’entrata della casa di Battista Lalli e di Laurina, e quella figura misteriosa m’affascinava e come succede sempre nell’animo dei bambini lesti di pensiero, impossibili da tenere a freno, un giorno, avvistandolo che rientrava, m’avventurai in quel vicolo e, giunto in fondo, guardai il soprannominato “Scianca Crapa”: a sinistra era la sua porta, ed io ero ai piedi delle scale proprio quando lui stava aprendo e poco dopo, sentendo sbattere l’uscio, lesto salii quei gradini finendo davanti a quella porta e mi sarei sentito spacciato se lui, d’improvviso, l’avesse aperta: dal foro della toppa occhieggiai e la casa era piena di zeppi messi in verticale e lui transitò con il suo volto puntuto, terribile per me.

 

Palazzone, gran lavoratore, un uomo che faticava tanto per sbarcare il lunario ed era bello secondo i racconti di mia madre vederlo mangiare a casa dei miei nonni, di sera, al caldo, in un tepore buono, quello dell’affetto, si meritava tutto quello che gli veniva servito e se poi poteva portarsi anche un po’ di cibo a casa per la sua famiglia, quasi si commuoveva e a tali scene, rappresentandole a me, anche mia madre era ad un passo dal pianto, e io di seguito e se fossi stato in quella cucina, di sera e con il fuoco acceso, di sicuro le lacrime mi sarebbero sgorgate e magari avrei abbandonato quel luogo per andare in un’altra stanza fintantoché le lacrime non fossero state riassorbire entro l’orlo delle palpebre, voglio bene a Palazzone e alla sua famiglia pure se non l’ho conosciuti.

 

Palazzone si chiamava Antonio e la sua casa era di fronte a quella di Pirame, all’inizio della Cimosca, e spesso da quella casa usciva una bambina, Maria, che giungeva fino alla Piazzetta del Forno e lì, da sola, si guardava intono e si sollevava un lembo del vestitino portandoselo fino alle labbra com’è d’uso fare nei bambini quando devono attenuare un po’ la vergogna (l’universo dei bimbi sarebbe tutto da esplorare, chissà quante immagini splendide si coglierebbero, ma si dovrebbe entrare in quei sublimi labirinti in diretta senza che ci si rifacesse alle interpretazioni di specialisti, e una volta lì dentro non s’uscirebbe più, si starebbe talmente bene che si lascerebbe il mondo fuori, e soltanto lì dentro si potrebbero cogliere in sequenza tutti i sentimenti puri!).

 

Già chiamare in scena gliu scarpareglie può sembrare un uscire fuori dal titolo perché egli un minimo di luminosità in più l’ha avuta, certamente non uno degli uomini illustri narrati da Cornelio Nepote ma, essendo l’artista del cuoio (nativo di Tempera) e sulla bocca di tutti per il modo in cui poneva riparo alle scarpe, ebbene, già per questo un po’ di luce c’è attorno alla sua persona, e per lui, a sentirlo parlare, c’era la possibilità di riparare tutto, stoppava sul nascere le preoccupazioni di chi si recava da lui, nella sua bottega alla Strada Ritta, di fronte a Giacobbe Massimi, ecco, le doti dialettiche in lui erano rilevanti e anche nei “casi più gravi” egli tranquillizzava l’interlocutore ed io sentendolo diverse volte ebbi l’impressione d’un primario che rassicura l’ammalato, d’una cura più che sicura da lui.

 

 

Flavio Tacca, di Piazzare, era un uomo intelligente, rigoroso, poco uso alle chiacchiere e fautore solamente della praticità, ovvero delle cose che, dopo averle pensate, si realizzano, e avevo pensato per lui una vita più lunga di quella che gli toccò in sorte e questo perché era dotato di un bel fisico, tosto, una corporatura che potrebbe definirsi “massiccia”, termine non tanto amato da me ma che sa rendere benissimo, ma a volte si ritiene (sbagliando) che colui che possiede simili caratteristiche cioè statura e robustezza sia più in salvo dalle onde della vita, e invece non è così e tante volte i tipi asciutti, corporature esili resistono meglio agli insulti della vita, e comunque Flavio fu un’ottima persona e conoscitore come pochi di terreni sui quali si divincolava con classe soprattutto per gli altri.

 

Ci fu ad Assergi anche il cosiddetto “spettacolo Collonneje”, proprio lui decretava lo spettacolo di se stesso perché era diverso da tutti gli altri con il suo piccolo fisico (ma io lo ricordo soltanto da vecchio ed è dunque probabile che fosse stato anche lui, nell’età favorevole, un bel giovane), con i suoi passi brevi, misurati, lievi, ma che aveva mantenuto uno sguardo da furbastro sul quale, a volte, compariva il sorriso, ed io ero contento quanto lo incrociavo, magari davanti alla sua casa, oppure accanto alla fonte all’Acona, nei pressi della quale doveva possedere delle proprietà ed anche un orticello arrampicato sul quale egli finiva con arditezza, ebbene m’impostavo lì davanti a guardarlo non proferendo parola perché non volevo proprio disturbarlo.

 

Anche la Puciara ricordo con piacere, mi sono assenti per lei nome e cognome ma so che era la madre di Teresa la moglie di Cesare Massimi, i genitori di Antonio, bene, la Puciara se ne stava sempre seduta sul primo gradino, quello più grande, che conduceva alla casa di Angelino Giacobbe e alla sua sinistra c’era la casa di Ercolino de Fiorone, prima d’imboccare il vicolo in discesa che conduceva alla Piazza, e oltre ai silenzi della Puciara e quella sua posa che era un po’ un’istantanea per l’eternità, cioè la mano che accoglieva a mo’ di piedistallo il suo viso, c’era e lo sguardo che, nel complesso, era d’un disincanto certificato, ebbene, la Puciara un giorno elevò se stessa superando veterinari sommi e riuscendo a far mangiare la cavalla di mio nonno: malocchio, sentenziò.

 

Enrico (Ricuccio) de Ferracce, era un uomo di bassa statura, esile, dall’aspetto inoffensivo e sempre sorridente, e ogni tanto compariva al posto NaPorta ma sempre di pomeriggio ed il suo orario eletto era - d’estate quando lo vedevo in quel luogo con panorama sul mondo circostante - dopo le diciassette, dopo il caldo (dopo che l’aria nen ardea chiuù), e il suo aspetto vispo, d’una allegria non d’occasione ma qualità sua naturale, cercava di smuovere spensieratezza anche in quelle persone che lì stazionavano e che si sfogavano su tante cose, si puntellavano l’uno con l’altro secondo quanto era accaduto sia nel loro agire che sul mondo ed era una sorta di confessione laica tenendo sempre a freno “quele che nen se potea dì”, e Ricuccio interveniva ma sempre pacatamente, con la sua signorilità.

 

Micott, vale a dire Domenico Massimi abitava all’arco d’entrata di NaPorta ed era il padre di Daniele, e quest’ultimo aveva quattro figli: Domenica, Giuseppina, Lina e Giulio se non ricordo male ed il rischio è sempre quello di sovrapporre immagini e rappresentare dunque un altro filmato, ebbene, quando morì io forse non arrivavo come età a dieci anni ma comunque andai a dargli il mio estremo saluto - il coraggio dei bambini è qualcosa di spettacolare e commovente – perché lo ricordavo da vivo  occhieggiante sulla porta sotto l’orologio, su quel ritaglio di mondo che lo riguardava, ed era stato sistemato in cucina e la testa era verso la Strada Ritta mentre i piedi verso la Cesela, e intorno il silenzio d’una rassegnazione buona con qualche scatto di pianto, ogni tanto, necessario.

 

Natale Salsieri era il padre di Silvestro, il quale, a sua volta, era marito di Maria di Bebè, va bene, ed il ricordo di Natale Salsieri, nativo di Onna e negli ultimi suoi anni dimorante da suo figlio ad Assergi, è d’una figura mite e sorridente seduto quasi tutti i pomeriggi sotto l’arco degli Zi Giocond, ed era munito di baffi solenni di stampo ottocentesco e non certo adatti per l’epoca che stava attraversando ma lui i conti con l’esistenza doveva averli fatti da tempo perché se ne stava su quel breve sedile dell’arco e mi salutava sempre ma il suo saluto era un sorriso, niente di più bello, un sorriso lieve, quello del cuore e d’un dolcissimo disincanto di fronte a tutto, e se Silvestro era un tipo sempre “a voce alta”, suo padre pareva uscito da un convento dove vigeva il SILENTIUM.

 

Marì, dì ‘n bo, che tradotto in un discorso diretto significa: «Maria, dimmi un po’», abitava in una casa alla fine della costa che parte dalla Piazzetta del Forno, ecco, a quel punto svoltando a destra, di fronte a quell’arco che conduce in Piazza, c’era la sua abitazione, ecco, dunque l’ho collocata nel rione che la riguardò per una vita, e devo confessare che io non la vidi mai in piedi e sempre su una sedia dietro l’uscio di casa, o anche seduta su quel gradino all’entrata e, sarà un caso, ma quando la incrociavo anche lei componeva un sorriso, è questo che me la restituisce ed anche il fatto che non la vidi mai in strada per dirigersi in un posto e quest’ultima faccenda la sento un po’ come una ferita per me stesso, le avrei  volentieri donato tante immagini, valgano queste righe.

 

Mi basta un’immagine per ricordarmi d’una persona, per narrarla anche se di questa persona non so nulla o poco, va bene, sono un formalista nel senso della storia dell’arte, un’amante cioè della forma e dello stile e da ogni film staccherei singoli fotogrammi, cioè a dire quelli che più di tutti mi hanno colpito, me li porto sempre con me, sono il mio catalogo interiore, un mio puntello lirico, lo riconosco, così ad esempio di Sarina Rapiti – Dio l’abbia in gloria! – mi ricordo poche ma significative immagini e quando ad esempio si metteva la mano sul pento anzi le dita, come a significare espressamente che era così, in coscienza quello che aveva narrato era proprio così, a me bastava quella singola immagine per averla sempre con me, per condurla appresso con tutti i suoi colori, le parole.

 

Vincenzo Mosca, in arte Manetta, fu uno degli uomini più di Assergi, almeno per quelli che sono i miei ricordi quando lui era già in età avanzata, e quando lo vedevo sortire con il cavallo dall’arco che conduceva alla sua stalla, ecco che componevo in me delle immagini che avevano il dono di non potere uscire da me stesso e che erano dunque privatissime e così sorgevano considerazioni del tipo: «Che bell’uomo!» e ancora: «Ma se fosse stato a Roma nei primi anni del Ventesimo secolo, non avrebbe potuto studiare da attore e finire dunque in una pellicola di Alessandro Blasetti o di Mario Camerini?», e invece ascoltavo resoconti di sfoltimento di chiome, sfumature, rasature, ma a ben vedere era arte pure quella, si usciva diversi da lì dentro, nitidi, lustri, risanati.

 

Emidio Giacobbe era il fratello di Teresa, moglie di Domenico Giampaoli, e fu un uomo onesto, riservato, gran lavoratore e pure lui, proprio come la sorella Teresa, ogni volta che mi vedeva aveva subito pronto il saluto, me lo ricordo sempre sulle scale della casa, in quel ripiano sopraelevato prima della porta e la sua vita deve essere ricordata per il modo in cui mai ebbe contrasti con alcuno, e lo si ammirò per lo più in silenzio, riflessivo, ad approfondire forse più di altri il perché dell’esistenza e tutto questo era visibile se lui era da solo e lo sguardo allora si concentrava in più punti dello spazio antistante ed era proprio in quello spazio privato nella mente che le riflessioni spiccavano il volo, e in diverse occasioni gli fui accanto e appresi di lui tanto grazie al suo puro silenzio.

 

Ebbi la fortuna da bambino – mia nonna Teresa era morta da poco a Roma – di parlare nientemeno che con la Giganta, al momento le sue generalità mi sfuggono, non ho cercato di saperlo perché mai incontrai l’interlocutore giusto, ma l’essenziale è che io l’abbia vista e che, una volta qualificatomi: «Sono il figlio di Domenica di Lorenzo Giusti», vi abbia parlato, e, detto questo, ecco che la ricognizione in lei fu puntuale e dunque io ero un bambino affidabile, non un girandolone qualsiasi, e le raccontai delle varie fasi che accompagnarono la dipartita di mia nonna materna Teresa e quando lei disse che la conosceva diventai ai suoi occhi ancora più affidabile, e fui contento per questo e ci mancò poco che non l’abbracciai in quella piazzetta tra le più belle di Assergi.

 

L’ultima volta che incontrai Bacocc, il cui nome era Berardino, il padre di Concetta tanto per definire un minimo di storia, fu nell’agosto del 1974 (che la memoria m’assista anche in questo caso) e ciò avvenne di fronte alla casa di Pipird poco prima dell’Arco Rutelone e lui si recava di certo al pagliaio perché (come seppi) lo aveva dalle parti dei Frati, sul lato della statale, va bene, e mi salutò come sempre faceva quando s’imbatteva in me ed io in lui e indossava una camicia bianca  legata sotto la pancia da un nodo, e portava un secchio di plastica verde e ci furono momenti che io pensai d’operare uno studio su di lui, vale a dire quando era nato e chi erano stati i suoi genitori, e questo nasceva dal fatto che provavo tenerezza per lui e ogni volta che passo lì non faccio che pensarlo.

 

 

Angela Giannangeli, meglio nota come “Rischiarata” era la seconda moglie di Franco Mosca, il cui soprannome ad Assergi era “Pirame”, valente ricognitore di terreni, geometra sul campo più che con i libri e compagno di scuola di mio nonno Lorenzo, va bene, detto questo parlerò di “Rischiarata”, donna borbottante a prima vista ma poi buona e affabile, e costei tenne anche il forno e pure in quell’attività si vide il suo buon fare. L’episodio che vale la pena raccontare si riferisce proprio all’epoca in cui resse il forno. Visto che suo marito, dopo tanto lavoro serio e geometrico svolto, riceveva sempre con ritardo i compensi, un giorno “Rischiarata” incontrando un po’ di persone, chiese: «Le teneta fà lo pa’ domà? Sennò ha ditt Franc bo gli dete quele che gli deta dà», e fu splendida!

 

Con quella frase Angela Giannangeli si storicizzò, era come un poeta che non ha più nulla di sublime da donare perché ha compiuto egregiamente il suo percorso, e quella sua sortita spettacolare fu una specie di “recupero crediti poetico”, disse a quelle persone che incontrò e che erano in evidente difetto col marito, che sarebbe stata buona cosa se si fossero presentate a pagare, evidentemente non era in uso, a quei tempi, il cosiddetto “SOLLECITO DI PAGAMENTO” e poi Franco Mosca era un tipo talmente riservato che, pur essendo nella ragione per tutte le perizie svolte, non si sarebbe mai avviato per quel sentiero, e i due ebbero una figlia mi sembra di ricordare, la quale, dopo la morte del padre e l’età avanzata della madre Angela, se la portò in Francia e “Rischiarata” finì oltralpe.

 

Faciana, non so altro delle sue generalità, e questo suono più che nome mi risuona dentro ed è un peccato che io non possa restituirle l’identità, ma nella storia di Assergi questa donna fu chiamata Faciana, e mi viene quasi da chiederle scusa per questa “mancanza di dati certi”, e comunque un giorno irrintracciabile tra tutti gli altri in fila nell’universo dei giorni dissolti, Faciana apparve in un locale in basso della casa di mia nonna Maria e le chiese se aveva il lievito (u levete), e mia nonna le rispose che lo aveva già dato a una persona che era passata prima, e a quelle parole Faciana se ne andò via borbottando, ecco, e mentre si stava procedendo a tingere una coperta nella cottora con tutti gli accorgimenti del caso, dopo il borbottio di Faciana quel capo non volle cambiare colore.

 

Passò un po’ di tempo e sebbene i composti adatti alla tintura erano già stati calati nella cottora, la coperta non cambiava colore e mia nonna non riusciva a capire dove poteva aver sbagliato ma in quei momenti transitò lì, davanti alle cosiddette “Fornelle”, un locale al piano stradale sotto la casa dove si eseguivano tanti lavori, sopraggiunse Mariuccia la “Falalana” e costei fu subito messa al corrente da mia nonna di quello che stava accadendo e Mariuccia (che aveva una chioma spettacolare, tutta pieghettata, lo ricordo bene) chiese subito a mia nonna chi era passato lì e mia nonna rispose che Faciana era venuta a chiedere il lievito che mia nonna però aveva già dato ad un’altra donna:«Se nnà ita borbottenne» e allora Mariuccia: «T’ha fatt u malocchie».

 

Giurzella era il nome alterato di Gelsomina ed aveva come marito un uomo noto come “U Raciare” il cui significato è sconosciuto, ebbene, costoro abitavano nella casa di fronte a Lenì, quella dove abitò Angela la madre di Marco il dentista, ecco, e a breve distanza, anche, dalla casa di Domenica di “Buttiglia”, insomma questo il “catasto poetico” dove collocare persone che vissero ad  Assergi, va bene, e si narra – ma bisogno battere sentieri dove i racconti sono rari oltreché rarefatti – come la detta Giurzella, nomignolo splendido, medievale come lo era anche Gelsomina, all’atto di partire per l’America lasciò il figlioletto a giocare alla Piazzetta del Forno senza preoccuparsi di cosa il bambino avrebbe poi pensato con l’assenza della madre: ebbi vertigini a sentire tutto questo.

 

Lo scenario di Assergi era screpolato assai, le strade non trattate ancora con i sampietrini geometrici, c’erano ancora i sassi, più sicurezza per gli asini che avevano il carico di patate – due ballette laterali a bilanciarsi e con il basto che un poco soffriva, almeno io questo vedevo, naturalmente chi avvertiva di più la fatica era il somaro che però su quel terreno ricamato di sassi non scivolava, aveva più presa dunque sul terreno e poteva dunque portare il carico alla “vota” come si chiamava quell’ambiente che non era la cantina ma che garantiva la giusta umidità per le patate, e quando mio nonno Lorenzo e mio zio Antonio liberavano l’asino da quel fardello, io gioivo, mi veniva d’accarezzare al collo il somaro dove si già vedevano copiosi rivoli di sangue creati dalle mosche.

 



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