LEGGERE SANT’AGOSTINO NELL’ETÀ DELLA TECNICA - di Fernando Acitelli

LEGGERE SANT’AGOSTINO

NELL’ETÀ DELLA TECNICA

 - di Fernando Acitelli _

 

Un cuore integro è meglio d’una grande testa.

Sant’Agostino
 
E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto

tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà

che un progressivo allontanamento dall’umanità.

Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande,

che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere

un grido di dolore universale…

Bertolt Brecht, Vita di Galileo

 

 

 A Roma la chiesa di Sant’Agostino si trova tra il Pantheon e Piazza Navona. È prevista una scalinata per entrare e quella salita pare un’ascesa verso il cielo. Si tratta d’una chiesa grande con la sagrestia in fondo alla navata di destra e marmi e busti ovunque, di nobiluomini, di giureconsulti, di eccellentissimi homini.

 

Un dipinto del Caravaggio, la Madonna dei Pellegrini, s’avvista subito entrando, sulla sinistra. Per illuminare il dipinto si fa scendere una moneta in un marchingegno munito di feritoia e di colpo il Caravaggio s’illumina. Per molti quella chiesa ha valore soprattutto per la tela del Caravaggio: è una firma, una griffe del XVII secolo, una carezza per gli umani.

Tutto cambia, anche la pericolosità, gli agguati, e dunque adesso all’inizio della scalinata della chiesa c’è una inferriata i cui ferri verticali, acuminati, escludono che si possa eseguire uno scavalco. Dunque, tutto quello che poteva essere semplicità, facile ascesa, tutto alla luce del sole, adesso in quella scalinata c’è un ostacolo, fatto spiacevole.

Un po’ è come se un turista, un individuo anonimo giungendo in piazza Sant’Agostino sentisse subito un intralcio alla fede e quello che fino a qualche anno fa poteva confortare – una scalinata conforta sempre, anche ai poveri di spirito – adesso questi viandanti si sentono in difficoltà anche solo per scattare una foto. La scalinata non si può immortalare nitidamente.

Una scalinata con quella lunga grata, la si chiami intoppo, intralcio o come meglio si desidera non ha fatto altro che alterare non soltanto la facciata della chiesa ma tutta piazza Sant’Agostino. Lo so, lo so, le questioni legate alla sicurezza impongono anche scelte dure e ovunque è così: prima a San Pietro s’entrava spensierati, ora non è più così. Metal detector ovunque e blindati ad alterare lo scenario. Questo bisogna dirlo anche c’è di mezzo la sicurezza.

Fu mio padre a condurmi nella chiesa di Sant’Agostino ed io ero appena un bambino. La domenica – quando non giocava la Roma all’Olimpico – era un’occasione magnifica per mettere in pratica un Grand Tour delle chiese e il centro era uno spettacolo, un’immersione totale non solo nei sacri misteri ma nella storia dell’arte.

La chiesa di San Luigi dei Francesi è a poca distanza da Sant’Agostino, sarà ad un centinaio di metri dal Pantheon e lì dentro ci sono altri tre grandi dipinti (grandi non soltanto per la bravura di Michelangelo Merisi) ma anche per la forma, il cosiddetto ciclo di San Matteo, rispettivamente “La vocazione di San Matteo”, “San Matteo e l’Angelo” e “Il martirio di San Matteo”.

Era tutto un riconoscerci in quei dipinti, d’altra parte la pittura a sfondo religioso era per tutti, facilitava la comprensione, con l’immagine dipinta s’accostava alla fede tutta quell’umanità che non sapeva di teologia e di latino ma capiva “come erano andate le cose” a proposito di Cristo e dei Santi grazie ai dipinti. Opera meritoria dell’Arte.

Nella chiesa di Sant’Agostino è sepolta la madre del vescovo d’Ippona, ovvero Santa Monica, morta ad Ostia nel 387 dopo Cristo, e la sua tomba è rappresentata dall’antico sarcofago in marmo bianco, custodito in posizione rialzata e ancora integro, e dalla Tomba odierna, dopo i resti della madre di Agostino furono traslati. Il tutto vive e s’illumina in una piccola cappella accanto all’Altar Maggiore.

Ho sempre notato la geometria di gesti degli agostiniani. Frequentando quella chiesa spesso anche perché essa capitava dinanzi al mio passo, ho potuto osservare veramente la geometria di passi e movimenti degli agostiniani, e anche un nitore nel viso, e mai vidi un fedelissimo di Sant’Agostino con la barba.

Mi domando spesso che senso abbia pensare e leggere Sant’Agostino nell’Età della Tecnica. Nel mondo della Tecnologia a oltranza, dell’efficienza e della distanza dal mondo reale da parte di chi muove i fili di questa nuova ubbidienza, le “Confessioni” del santo nato a Tagaste (l’attuale Algeria) e “La Citta di Dio”, in quale cuore possono fare breccia?

«Ormai la mia adolescenza sciagurata e nefanda era morta, e mi avviavo verso la maturità. Però quanto più crescevo nell’età della vita, tanto più scadevo nella fatuità del pensiero. Non riuscivo a pensare una sostanza diversa da quella che si vede abitualmente con gli occhi».  Eccole le prime schegge di sublime dell’allora Agostino: il vero Dio lo si coglieva con tutta l’anima incorruttibile, inviolabile e immutabile.

La partita dell’esistenza si giocava proprio su questa riflessione.

Momenti che ancora oggi comunicano come la fortificante solitudine schiarisca l’orizzonte. Le confessioni sono principalmente con se stessi. Lo so, per quanto la lettura delle Confessioni sia facile – il primo esempio di filosofo che pone il suo cuore fuori del costato e dica tutto dei suoi tormenti - è tempo oggi per un simile viaggio di lettura? Qualcuno regalerà per Natale questo sublime testo? No, perché nell’osare tanto darà di sé un’immagine non proprio all’altezza, mentre, l’immagine oggi è tutto. In verità con Sant’Agostino la Chiesa ebbe il suo primo filosofo cattolico, colui che ha mediato tra il neoplatonismo e l’Uno di Plotino costituendo non un sistema filosofico ma una vera e intima narrazione del suo cuore. In un gioco di titoli e di suoni cito il poeta Baudelaire e il suo libro “Il mio cuore messo a nudo”,  Mon coeur mis à nu”. Naturalmente il titolo serve soltanto per dare l’immagine. Un cuore allo scoperto, al gelo della vita. Ognuno può confessarsi col suo cuore in modi diversi a seconda di quello che ha attraversato e di come avverta il dolore della vita, il “thauma”, il terrore che l’uomo greco avvertiva con l’esistenza e la sua finitezza.

Come detto, tutto nasce dai ricordi. Un giorno alla lezione di Filosofia della Natura il professore, che era anche un monsignore, citò Sant’Agostino e in particolare portò alla luce questa frase del santo:«Gli eretici se virtuosi sono pericolosi». Appuntai quella frase - essa ancora risplende in quel quaderno - e constatai che essa aveva un contenuto che era anche della nostra quotidianità anche se essere eretico nel 4° secolo dopo Cristo e durante il Medioevo non era la stessa cosa che esserlo oggi. Oggi un eretico è colui che non s’allinea, uno che si distacca dall’ortodossia che non comprende soltanto l’ambito religioso ma anche, ad esempio, quello politico. In quest’ultimo caso si parlerà di colui che non segue più la linea del partito. Ma può farlo anche per una notevole dose di narcisismo.

Ma eretico fu anche l’arcivescovo tradizionalista monsignor Marcel François Lefebvre che continuava a celebrare la sua messa in latino non approvando il Concilio Ecumenico Vaticano II. Ma questo era soltanto uno degli aspetti dei suoi intendimenti di fede. Per questo suo essere “eretico” fu sospeso a divinis da Paolo VI e poi scomunicato da Giovanni Paolo II.

Chissà cosa direbbe oggi monsignor Levebvre con questo mondo upside down, cioè sottosopra… È stata forse una fortuna per lui andarsene nel 1991 all’età di ottantasei anni. Sarebbe stato ancora più braccato nella sua Ecône nel Cantone Vallese della Svizzera. E forse le notizie di quanto succedeva fuori quelle mura gli sarebbero giunte filtrate dai suoi seguaci, attenuate per non impressionarlo.

Gli eretici hanno sempre avuto buona accoglienza in me; essi hanno permesso alla Chiesa cattolica di potenziare le sue difese immunitarie che dopo gli scandali, in particolare della vendita delle indulgenze e della simonia e della vicenda (una delle tante) legata alla cortigiana Fiammetta  amante del cardinale Cesare Borgia figlio di Papa Alessandro VI, aveva bisogno d’un vigore nuovo. La Chiesa, dicevo, era scaduta come prestigio e simili comportamenti avevano fatto spuntare al mondo, tra gli altri, i vari Lutero, Calvino e Melantone. E quindi vi fu un pullulare di credenti che si richiamavano alla Chiesa delle origini, cioè incontaminata dalle gerarchie ecclesiastiche, o che, con il cuore, creavano Madonna Povertà. Ebbene, sulle prime, costoro erano considerati “eretici” e il Papa pur ascoltandoli, prendeva prima di tutto visione della Regola da loro stilata, ma si proteggeva con una Bolla, ad esempio quella definitiva per i francescani fu confermata da Papa Onorio III con la Bolla Solet annuere cioè “Suole approvare”: potevano operare, predicare il Verbo di Dio rispettando sempre i vincoli con Santa Madre Chiesa.

La cortigiana Fiammetta, da Firenze, morta nel 1512, era stata sepolta nella chiesa di Sant’Agostino – abitava a breve distanza, vicino via dei Coronari, oggi si chiama piazza Fiammetta - e di questo ne parla anche Pietro l’Aretino che fu a Roma e vide la tomba. Adesso, naturalmente, è tutto scomparso.

Chissà cosa avrebbe detto Agostino avendo a che fare con la Scienza, con Copernico, Tycho Brahe, Galilei e Giordano Bruno!... Che forse erano eretici anche questi, soltanto perché investigavano sulla Natura? E già era una Tecnica quella, il cannocchiale di Galileo era un primitivo telescopio spaziale Hubble. E che avrebbe inoltre detto Agostino dei riformatori?

Di Agostino giravano da tempo in casa due biografie oltre a le “Le Confessioni” e “La Città di Dio” e così avevo attraversato prima l’uomo, il padre (suo figlio si chiamò Adeodato), l’attrazione per il sesso, il suo essere stato manicheo, la successiva conoscenza con Ambrogio a Milano e quindi colui che aveva saputo mediare tra i neoplatonici e il filosofo Plotino tracciando di fatto la sua traiettoria verso Dio: come dire passare dal molteplice all’Uno, difendendosi dai pelagiani e dai donatisti.

Quale differenza tra San Franco di Assergi e Sant’Agostino! Non è soltanto la distanza d’epoca tra i due, Agostino nato a Ippona nel 354 dopo Cristo, San Franco nato a Roio nel 1154. Ma è un altro mondo dopo l’Anno Mille.

Le paure millenaristiche non sorgono soltanto prima dello spuntare del nuovo Millennio, ma continuano perché è il senso del peccato a dettare i comportamenti, e così ogni nuova pestilenza è appunto, secondo moltissime persone, il conto da pagare.

Ma che ogni morbo potesse essere causato dai peccati degli uomini era una paura che nel Medioevo aveva una certa consistenza: si veniva aggrediti (e puniti) dalle pestilenze perché ci si era dimenticati di Dio e vissuto a stretto contatto con il Male.

Un diverso senso di colpa invece nei secoli che precedettero l’anno Mille, e se l’imperatore Costantino aveva approvato il cristianesimo con l’editto di Milano del 313, resisteva in più punti dell’Impero romano il richiamo agli dèi. Del resto anche Agostino d’Ippona era stato manicheo e l’eco di quella dottrina lo sentì per tutta la sua vita.

Ma pensò al senso di colpa, ad esempio, l’imperatore Marco Aurelio che morì a causa d’una epidemia, forse di vaiolo? Eppure egli morì nel 180 dopo Cristo quindi quasi due secoli dopo la venuta di Gesù. Da stoico si spense in silenzio. Si può dire che il senso di colpa ha minato molte coscienze e alterato tantissime esistenze. Contrasse il vaiolo Marco Aurelio perché, forse, non s’era comportato bene?

Risuonava ancora nelle orecchie di molti la frase di Tertulliano: «Credo perché è assurdo» (Credo quia absurdum). Agostino d’Ippona l’aveva di certo sentita, mentre su San Franco non sarei così sicuro, i non accademici pensano poco ma sono votati all’agire, al riflettere e pregare in modo sincero e profondo.

Una differenza che non mi fa propendere per Agostino nella sua veste di santo e Dottore della Chiesa. Certamente le sue opere decretano il vero e primo e grande snodo dopo i Vangeli e le lettere di San Paolo. Devo però dire che sento ammirazione per San Franco, e mi viene idealmente d’accarezzarlo. Lui intuì le dinamiche che regolano il mondo e lontano si tenne da ogni accademismo.

Manichei, pelagiani, carpocraziani, esicasti, stiliti, arrampicatori, imitatori di questo e di quello, di chi si mostrava con favella fluida, potente: c’era chi non resisteva a tutto questo e anche allora parevano esami di dottorato.

Ognuno aveva la sua ermeneutica ma si doveva ragionare in sé e invece si parlava troppo e a via di imitare Cristo si finiva col creare confusione quando era tutto semplice: chi pensava all’aldilà e chi non si struggeva.

La prova ontologica di Anselmo d’Aosta, l’aristotelismo di Tommaso d’Aquino: ho sempre pensato questo: ma se uno possiede in sé l’idea di Dio come potrebbe comunicarla agli altri? Il segreto è incomunicabile. Per quanto uno possa essere un giocoliere delle parole mai riuscirà a esporre chi è Dio per lui. Le parole non sono sufficienti e si rimane beatamente da soli a comporre quell’idea, quelle atmosfere che sono, ricordiamolo, parto umano. Agostino in epigrafe spiega tanto: «Un cuore integro è meglio d’una grande testa». E il cuore va da solo.

Guardare dietro, verso la dorsale dei secoli: le crociate a spartirsi i luoghi spirituali, i difensori del Tempio, la fine dei Templari, Filippo il Bello, le divisioni, le guerre di religione, gli inserimenti nelle dinastie, Enrico VIII, la notte di San Bartolomeo, Enrico IV: «Parigi val bene una messa!» e da ugonotto che era osò un’inversione a U verso il campo cattolico per diventare Re di Francia; l’editto di Nantes, la chiesa anglicana, i presbiteriani “l’etica protestante e lo spirito del capitalismo” nata di fatto con Oliver Cromwell, e prima di lui con Calvino, la Guerra dei Trent’anni, il Wallenstein che passa disinvoltamente dalla parte cattolica a quella ugonotta. Tutto questo la religione in quel segmento di tempo. Ma si potrebbe continuare… Vi figurate San Franco insieme a tutta questi personaggi? Ve lo immaginate a similitudine di Pietro l’Eremita con il suo «Dio lo vuole!», e che fu uno dei promotori della Prima Crociata? San Franco, per come la vedo, visse a suo modo, senza sbandierare nulla, felice dentro di sé, senza apparire sulla scena del mondo ma vivendo appassionatamente la sua fede, senza sovrastrutture o idee d’ascesi mondana.

Nella sua “semplicità” sento San Franco più vicino, le sue confessioni furono tutte interiori quanto alla “Città di Dio” di Sant’Agostino, San Franco vi era residente già in terra, si muoveva tra quelle mura (una grotta, pensate!) non con disinvoltura ma pieno di felicità.

Ridono, continuano a farlo, per giorni, come nelle trasmissioni quando c’è da donare in beneficenza e dove la lacrima diventa obbligatoria, magari non si sa nulla su Simone di Cirene ma la lacrimuccia è richiesta pure dai direttori di testata.

Il minorita non calcolato credeva più di tutti, nessuno poteva conoscere a fondo il suo macerarsi in preghiera, i sommi prelati in baldacchino e in viaggio credevano a seconda delle alleanze che riuscivano ad allacciare.

Che universo andava a comporsi in materia di fede! Chi voleva distinguersi in qualcosa, chi cercava strade nuove, chi rivalutava i primi cristiani, chi predicava da solo, chi era penitente in proprio, chi si mutava in esicasta. Oh, delle fiction anche allora.

San Franco, come Socrate e Gesù Cristo, non scrisse nulla, seppe sin dall’inizio che doveva rimanere ai “margini” come colui che ha inteso subito l’esilità della vita e che sa di doversi donare alla preghiera. E comunque s’è impegnato ad aiutare tutti coloro che incrociavano le sue pupille: il vero aiuto era in quello scintillio di iridi con l’altro.

Socrate è colui che nei Dialoghi di Platone è attore, regista, colui che introduce i diversi personaggi per una dialettica chiarificatrice sull’argomento da trattare, figure che gli sono necessarie affinché lui svolga la sua funzione maieutica.

Come detto, San Franco non produsse scritti, diede al mondo gli exempla, gli esempi, e fu con essi che avanzò negli anni, da monaco a eremita, già stanco del mondo e delle pestilenze interiori che ogni uomo custodiva dentro di sé.

Il romitorio, scansando tutte le faide di ambulacri e refettori, e pensare che Pietro da Morrone era là da venire. San Franco lo precedette, comprese prima di Celestino V che s’ha da essere soli per bisbigliare la parola Dio.

Eppure all’inizio della sua traiettoria di cuore era stato monaco, aveva vissuto in comunità ma con il tempo e la riflessione più profonda dei confratelli, aveva abbandonato il convento e s’era posto sulle strade del mondo.

Agostino era stato di vita intensa, aveva amato e divenuto padre e la sua sete di vita e l’ansia di conoscenza (anche di sé) lo avevano portato su più versanti: abbracciò la fede dei manichei e apprese tanto anche da essi, il Male, ad esempio.

La religione fu sempre un dissidio tra persone colte, tra chi si sentiva accademico ma non voleva darlo a vedere e tra chi, invece, si sentiva accademico e voleva darlo a vedere ed aspirava a luoghi sommi: c’era da attendere per le Stanze di Raffaello.

La pura fede dei poveri!

Le sacre stanze, scalare gerarchie e mutarsi in altro, cangiarsi in alto. Fuori la vita prometteva maltempo e il nuvolo era un dato quasi fisso e dunque era meglio immergersi nei libri, e, se necessario, osare disputationes adversus

Un cielo che sembra ormai smarrito, un cielo senza senso ed è come se rimanesse soltanto la bellezza della sua azzurrità, i suoi spettacolari passaggi dal blu/violetto dell’alba, al sole, al rosa/arancio/blu al tramonto.

Ma la disperazione non sopraggiunge soltanto per il cielo, la verità è che s’avverte sempre più intorno a noi la mancanza di senso in tutto e sono crollati i fondamenti su ogni aspetto della vita come le colonne d’un tempio.

In un paesaggio del genere si possono trovare a loro agio i manager, i carrieristi, gli affezionati delle convention, dei meeting, coloro che ora se ne vanno in giro in classico blu, zainetto sulle spalle e bici super ecologica.

Sono costoro a stare dalla parte della verità, dei “vincenti” vedendo soltanto la pienezza della vita nel riempire ogni giorno di opportunità, acquisizioni, join venture, weekend a Manhattan, e affascinati dal minimalismo americano.

Gli epigrammisti solitari sono gioiosi perdigiorno, coloro che stanno ad un passo da vagabondi e barboni. E comunque queste tre  corporazioni – parrà strano – vivono meglio di tutti avendo scansato il mondo sin dall’adolescenza.

Confesso che quando li vedo girovagare di lato alle arcate della Stazione Termini lungo via Giolitti, a sconfinare in via Marsala, ritengo che essi soffrano di meno, che non siano raggiunti da nessuna lettera raccomandata.

Rintracciati da nessuno, senza fissa dimora, accatastati sotto le stelle, imprecanti per l’essere venuti al mondo, fautori del silenzio a oltranza con la possibilità d’uno schiamazzo ogni tanto, null’altro che un rigurgito della coscienza.

Da nessun imbroglio raggiunti, né cartaceo né (figurarsi!) via mail, o da lettere il cui senso ha bisogno dell’ermeneutica perché l’interpretazione è, in verità, nascosta tra le righe, e si deve essere degli esperti in controluce o in filigrana.

Cosa non fanno i dormienti sotto le arcate della Stazione Termini per un caffè!... Occorrono pochi spiccioli rimediabili nell’arco della giornata ma, per il caffè, non si risolvono al bar bensì alla macchinetta che lo fa discendere.

Pare un miracolo ai loro occhi quella discesa da cunicoli inimmaginabili, è proprio il caffè il sollievo d’un paio di minuti, l’estasi senza visione, una felicità tutta interiore che può durare al massimo un paio di minuti, non di più.

«Ma cosa ho fatto io per dormire sotto le arcate della stazione e, quando va bene, all’interno d’un lungo cartone di frigorifero marca Whirlpool?», questo si ripete più d’un barbone e Dio gli sfugge specie con il maltempo.

E può forse mancare Dio a quel barbone, a quel fuori di casa da almeno trent’anni? No, ma non si ha tempo per la religione, per mischiarsi con gli altri, con il rituale, l’odore d’incenso e il senso della morte, meglio il sole.

Finora abbiamo esposto di volo quelle che furono le azioni umane, i pensieri che furono orali ma tramandati – la cosiddetta “tradizione orale” -oppure trascritti in testi voluminosi. Malgrado tutto quello che abbiamo detto fino a questo punto, malgrado le cadute e le ascesi, le molteplici volontà di potenza degli umani, malgrado tutte le possibili nefandezze umane s’è parlato soltanto dell’umanità. E tutto ci sembra tranquillo proprio perché si è narrata, brevemente, la storia umana con la sua natura oscillante tra il Bene e il Male. Si tratta dunque di figure riconoscibili, hanno un volto, una storia, da esse si può imparare tanto o starsene a debita distanza: dalle grandi opere alle cadute, dalla crudeltà alla misericordia, dalla ricchezza alla miseria e la pietà. Ma adesso c’è un altro mondo che sta apparendo e per esso è intervenuto qualche giorno fa anche il presidente Mattarella, sottolineando i pericoli che l’intelligenza artificiale potrà arrecare all’Uomo. Ora il presidente si è soffermato per lo più sul pericolo della perdita dei posti di lavoro ma non è andato oltre non sollevando per il momento questioni di natura etica e della possibilità della fine dell’umanità. Quando un’epoca è, come si dice, ai saluti, s’afferma tutt’intorno uno schiamazzo che il Bene è in arrivo. Frasi già ascoltate al tempo del crollo del muro di Berlino e della globalizzazione. Ahimè, non è stato così. E visto che la Tecnica non è un mezzo ma un fine e divora se stessa per progredire all’infinito, cosa aspettarci se non catastrofi dall’intelligenza artificiale?

Ma tornando per un attimo a Passato della Storia, al minorita, al fraticello, agli ordini mendicanti l’idea di giungere in alto non interessava – salvo casi rari - né si poteva misurare la fede a seconda delle opere e delle dispute pubbliche in materia di fede. Ora invece la Tecnica scoprirà chi crede veramente e chi no. Alla fine s’arriverà a questo e dilatate questo pensiero per ogni affare della nostra mente. Ma a favore di chi parlerà l’intelligenza artificiale?

Armi affilatissime s’avvistano all’orizzonte, sembrano i nuovi cavalieri teutonici contro cui nulla si può nelle brume della Téchne. S’indagherà nella coscienza, i falsi credenti saranno smascherati. «Una foto, prego!», per Sky Tg 24…

Da quei laboratori di diagnostica segnalati da lontano ma con recinzioni altissime munite di telecamere spaventose già come forma, usciranno all’imbrunire uomini snelli, emaciati, ossuti forse per il grande studio, pettinati, pallidi, astenici, stretti nei loro abiti.

Gli scienziati usciranno dai laboratori ed entreranno in automobili lunghe, nere e con i vetri antiproiettile, scuri, impenetrabili, e il conducente, già schedato, non potrà conferire con colui che è appena salito a bordo, semplicemente lo condurrà fino ad un deposito da cui inizierà un labirinto, e da quel mistero di cunicoli, alla fine salirà su una sorta di montacarichi super tecnologico finendo in un altro punto della città dove sarà prelevato da un’altra automobile nera, con i vetri scuri e da quel punto si raggiungerà un altro luogo dove lo scienziato scenderà e proseguirà a piedi soltanto dopo aver visto quell’automobile allontanarsi e poi sparire in un orizzonte notturno dei dimenticati Keats, Byron, Kleist, Novalis…nomi che già sarebbe una fortuna immensa se qualche oscura entità li bisbigliasse tra i buchi neri e sulle piattaforme astrali intraviste in poesia da Montale.

Sono costoro gli scienziati, i fabbricanti delle ultime tecnologie, le più spaventose, quelle che faranno dichiarare l’uomo come il vero schiavo del pianeta, e a quel punto sarà troppo tardi, sarà una corsa alla diavoleria più trendy con più optional e chi non avrà capito dove si è finiti veramente chiederà anche gli optional come ancora oggi per le automobili. Oltretutto quei materiali saranno tutti ecosostenibili, non inquinanti e dunque ci sarà spazio per la speranza. La speranza per “un mondo migliore”. Ma si ignora cosa accadrà alla mente umana: i protocolli sono approvati da chi ha già le mani in pasta. Capito?

Ridono tutt’intorno, li sento ridere fragorosamente, trattano bene i nuovi venuti, ormai sono quasi persone, fanno tutto loro e poi non hanno esigenze d’abbigliamento e neppure di cibo, di versamento dei contributi, una fortuna averli accanto, i comfort delle persone sono decuplicati e il loro sarà soltanto un dare ordini ma non sapranno pienamente chi avranno come ospite inquietante, per dirla con il filosofo Galimberti, sintesi ripresa da Nietzsche sul nichilismo. Non si tratterà più di cambiare un tablet oppure un telefonino e poi ad uno di quegli umanoidi non si potrà mai fare causa, si difenderebbero da soli e metterebbero in difficoltà qualsiasi principe del Foro e anche il giudice, e così i sindacati sparirebbero, come i caf, l’inps, ma si continuerà a pagare l’IMU, la TARI, e se giungeranno cartelle esattoriali il nostro ospite inquietante avrà la meglio anche con gli impiegati dell’Agenzia delle Entrate.

Adesso vorrei avere accanto Sant’Agostino, sono certo che alcune nuove “Confessioni”, aggiornate all’Età della Tecnica, me le leggerebbe in anteprima.

 



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