ALESSANDRO MANZONI E IL NATALE 1833 : IL PRESEPE E LA CROCE

ALESSANDRO MANZONI E IL NATALE 1833 : IL PRESEPE E LA CROCE

 

 - di Giuseppe Lalli -

 

 

 Sì che Tu sei terribile!

Sì che in quei lini ascoso,

In braccio a quella Vergine,

Sovra quel sen pietoso,

Come da sopra i turbini

Regni, o Fanciul severo!

È fato il tuo pensiero,

È legge il tuo vagir.

 

Vedi le nostre lagrime,

Intendi i nostri gridi;

Il voler nostro interroghi,

E a tuo voler decidi;

Mentre a stornar la folgore

Trepido il prego ascende,

Sorda la folgor scende

Dove tu vuoi ferir.

 

Sono questi i primi versi di una poesia, Natale 1833 – poche e frammentarie strofe – che Alessandro Manzoni (1785–1873) scrisse nel primo anniversario della morte della moglie, Enrichetta Blondel (1791–1833).

Lungi da me che scrivo l’idea di parafrasare questi versi. Rischierei di inserire note stonate in un concerto: la vera poesia è musica sacra, si può solo ascoltare. Rischierei di imbrattare un quadro: l’autentica poesia è tela dipinta con i colori dell’anima, si può solo contemplare. 

Pure, non si può fare a meno di notare che in questi versi non c’è nulla di lezioso, né di ricercato. Non c’è neppure quell’atmosfera di solennità che si respira negli Inni sacri. Il tono stesso della poesia è tutt’altro che distaccato. Diciamo pure che è un grido di dolore appena appena soffocato quello che leggiamo, quasi una recriminazione. Dio, anche nelle forme di un bambino tra le mani pietose di sua madre, appare lontano, in un cielo muto e solcato da tremendi lampi, insensibile alle preghiere e ai lamenti («Sorda la folgor scende dove tu vuoi ferir»). 

Il 25 dicembre 1833 al poeta era venuta a mancare, a soli quarantadue anni, la sua adorata moglie Enrichetta. Dio lo aveva visitato «terribilmente», come aveva scritto al Granduca di Toscana Leopoldo II (1797–1870), che aveva avuto nei confronti del già famoso scrittore parole di delicata partecipazione al suo dolore.

Andata sposa in tenera età – aveva sedici anni –, solerte e silenziosa, religiosissima, madre di numerosa prole, ciò che a lungo andare aveva finito per fiaccare la sua già delicata complessione, Enrichetta era stata il vero nume tutelare della casa, oltre che la musa discreta del marito letterato.

Donna di infinita dolcezza, è stata forse la persona che più di ogni altra ha ispirato all’autore de I Promessi Sposi la figura di Lucia, l’eroina del grande romanzo: come quei pittori che ritraevano nelle loro tele il volto della moglie, di cui non avevano mai smesso di essere innamorati. A questa donna minuta, mite e dai modi apparentemente sottomessi ma a suo modo volitiva, graziosa la sua parte e non priva di un certo fascino, certo diversa dall’ancora avvenente e vivace Giulia, l’altra custode della casa, madre di Alessandro, lo scrittore doveva molto, forse doveva tutto.

Nel frontespizio dell’Adelchi, che è del 1822, si leggeva «Alla diletta e venerata sua moglie...». “Diletta e venerata” e non, semplicemente, amata: parole che da un lato fanno pensare a quel misterioso libro che è Il Cantico dei Cantici («Sorgi diletta mia e vieni»), dall’altro evocano un sentimento che al poeta Manzoni, pur sempre romantico ancorché cattolico, fa apparire la sua donna già oltre il mondo degli umani, in una zona rarefatta dello spirito.

Possiamo solo immaginare la trepidante angoscia che dovette albergare nel cuore del poeta in quei giorni di aggravamento della già malferma salute della sua consorte.

Enrichetta volò in Cielo alle ore otto della sera di quel fatale Natale del 1833. Non ci è dato di conoscere le tempeste interiori di Alessandro in quelle ore e nei giorni che seguirono. Chi può penetrare il mistero di un’anima? E di quell’anima? Al massimo possiamo conoscere noi stessi, come ammonisce il grande vescovo di Ippona, e solo Cristo, rivelando Dio all’uomo, svela l’uomo a sé stesso, come ben sapeva l’agostiniano Manzoni.

Il grande scrittore, che pure cerca di trovare una risposta alla sofferenza («Ti vorrei dir: che festi? / Ti vorrei dir: perché?», dicono due versi del primo abbozzo), di fronte al dilemma intellettuale a cui la ragione sembra condurlo, cioè negare la Provvidenza o accusarla, il che, a fronte della sua fede cristiana, equivarrebbe a due bestemmie, scopre che anche nel silenzio di Dio vi è un disegno provvidenziale. E finisce per scegliere il silenzio. Non a caso le parole con cui si chiude, incerta, la poesia sono «cecidere manus» ("caddero le mani").

Ma perché Dio doveva apparirgli impassibile di fronte al suo dolore?  Non era stato lui, qualche anno prima, scrivendo il suo romanzo, a mettere in bocca a Padre Cristoforo quelle parole, «Dio vi ha visitate», dirette a Agnese e Lucia minacciate dal sopruso di un potente?

Convivevano in Manzoni due opposte tensioni: il coraggio e la paura, Padre Cristoforo e Don Abbondio, un tenero altruismo della sofferenza e la paura di veder soffrire: le lacrime invendicate di un bambino avrebbero procurato in lui lo stesso tormento che procuravano nell’anima di Dostoevskij.

Alla domanda “Perché, nonostante Dio, il dolore abita il mondo?” la risposta alla fine per lui è Cristo.  Mai come in quel Natale questa risposta, da verità accarezzata solo con la mente, si faceva anima e carne.

Nel sacrario più intimo della sua coscienza dovettero risuonare a lungo le parole di Giobbe di fronte alla sventura: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore». Egli, in quei giorni di atroce pena, tocca con mano un’altra verità, a lungo meditata, cioè che Dio si fa più presente quando chi lo prega si riconosce nudo, impotente, ed è già un miracolo che un uomo o una donna preghi, che chieda a Dio di impolverarsi delle sue piccole o grandi miserie quotidiane.

Del dolore il grande romanziere aveva scritto in pagine memorabili (si pensi alla madre di Cecilia, fiore di poesia cresciuto nella desolazione della sventura collettiva della peste di Milano), ma non aveva ancora frequentato le sue aspre latitudini. Mai, prima di quel Natale, poesia e dolore dovettero apparirgli così profondamente intrecciati. Il presepe e la croce.

Da questo dramma personale del Manzoni emerge la debolezza dell’uomo e della storia nei confronti del dolore. Mentre scrivo di questo episodio, lontano di 190 anni esatti ma vicino come se si svolgesse nell’altra stanza, mentre ci scambiamo con stanco ritualismo gli “auguri di buon Natale” (ma “auguri” di che?... del panettone, del torrone, del cenone da consumare il 24 a sera?), infuriano, in questa «aiuola che ci fa tanto feroci», gli inferni dell’Ucraina e del Medio Oriente, e l’uomo è annientato dall’uomo. Quanti bambini, piccoli Cristi, sono violati e uccisi in questi nostri giorni di violenza dei grandi. 

Ci fu, in un Natale di tanti anni fa, un giovane padre, da sempre appassionato di Manzoni, che augurava ogni bene al suo bambino visitato dalla croce. E ci fu, nel primo Natale, quello vero, una ragazza di Nazareth, della casa di Davide, che partorì in una stalla perché non c’era posto in albergo per lei e per suo marito. E subito dovette fuggire, perché la vita di quel bimbo era minacciata, e a motivo di ciò molti piccoli innocenti furono trucidati. Quella donna ci ricorda che, finché camminiamo sui sentieri della terra, la gioia, per quanto possa apparire intensa, ha sempre le radici a forma di croce.

Manzoni ne fece esperienza in quel Natale del 1833, noi che ci diciamo cristiani non dovremmo dimenticarlo quando ci scambiamo gli auguri di Natale. Altrimenti è il Dies Natalis Solis Invicti, il solstizio d’inverno, il Natale pagano, quello che festeggiamo.

La saggezza del popolo cristiano delle passate stagioni, col suo infallibile sensum fidei, ha sempre visto la croce sullo sfondo del presepe, e chiamava “Pasquetta” quella festa dell’Epifania in cui si baciava il Bambinello.

Alessandro Manzoni capì, perché lo sentì nella sua carne e non solo nella sua anima (appena nove mesi dopo verrà a mancargli, in giovanissima età, anche la primogenita Giulietta), che alla croce di tutti i giorni, a cui ci chiama il Signore della storia, quella storia che vista dal lato dell’uomo è spesso storia di forza bruta, non ci è dato di sfuggire. Altrimenti “Dio” diventa un concetto vuoto, un vizio della mente, una sublime scaramanzia: un Dio a nostra immagine e somiglianza, anzi a nostra misura. E invece:

 

Sì che tu sei terribile

Sì che tu sei pietoso!

 

Indifferente ai preghi

Doni concedi e neghi.

 

Ti vorrei dir: che festi?

Ti vorrei dir: perché?

 

Non perdonasti ai tuoi

Non perdonasti a te. ...



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