LE SERE CHE ERO IN RAI INSIEME A GIULIA - di Fernando Acitelli

LE SERE CHE ERO IN RAI INSIEME A GIULIA

 

- di Fernando Acitelli -

 

 

Sembra passato un secolo e invece era l’inverno tra il 2016 e il 2017. Comunque sette anni decretano un’avanzata incredibile riguardo all’esistenza e adesso quei filmati sono custoditi e dentro ci sono anch’io: piccole gioie impreviste, esultanze private, intermittenze del cuore che non smettono la loro pulsazione.

Un periodo molto bello e di sera partivo con direzione Saxa Rubra giungendo negli studi della RAI dove alle ore 23 sarebbe andato in onda un programma per appassionati di calcio. Vero è che si discuteva anche di altre cose e a me faceva piacere “stupire” i presenti con le mie esagerazioni liriche, cioè esporre il football con gli occhi d’un poeta, dribblando in verità il “già detto” o il “saputo appena”, la notizia logora alla quale prestavo soccorso ossigenandola con metafore ed improvvise accelerazioni. Alla fine la notizia da convalescente lentamente tornava a sorridere ma il risultato era il placarsi in disparte, nell’archivio universale. Era come se in quei momenti stessi allestendo un cortile privato dove accadeva tutto quello che mi passava in mente come sublime. Molti dei presenti rimanevano spiazzati dalle mie folgorazioni e vidi anche direttori di giornali che strabuzzavano gli occhi essendo state, forse, le mie metafore troppo compresse e dunque poco fruibili. Accadeva così che essi tornavano alla tranquillità delle notizie che non creavano problemi d’ermeneutica e consentivano spiegazioni agili, svelte.

Per mio conto tornavo con i piedi per terra quando partiva un filmato. Ero assieme ad ex calciatori che in quelle occasioni potevo osservare dal vivo. Ero contento di stare accanto a loro e ricordo con piacere Sergio Brio della Juventus e Paolo Tramezzani dell’Inter, del Venezia e dell’Atalanta. Con altri ci eravamo già visti in altre trasmissioni e anche a cena.

Quando fuori lo studio e prima d’iniziare vidi per la prima volta Giulia Capocchi, mi parve che il senso lirico della trasmissione dovesse aumentare di molto e questo poteva dipendere da me. Ci sarebbe stata anche un’impennata dell’audience, ovviamente. Mi presentarono Giulia e mi dissero anche che la sua rubrica era raccontare cosa le avevano detto i calciatori dopo la partita. Era indubbiamente una bella idea e il sentire Giulia riferire quando ascoltato da quegli “eroi” era per me fantastico.

Una sera prima di entrare in studio un redattore o un addetto comunque alla trasmissione, mi chiese: «Fernando, chi secondo te può avere nella Roma un volto pasoliniano? Forse Salah?». Gli risposi candidamente: «I volti pasoliniani non ci sono più perché è cambiata Roma, la volgarità s’è imborghesita e non è più quella spontanea di una volta, autentica della borgata. La mutazione antropologica di cui aveva parlato già allora Pasolini s’è compiuta definitivamente. Quei volti non esistono più e oggi la disperazione ha cambiato sguardo, non è più ammaccata e con i grandi occhi malandrini, ma è pur sempre disperazione…».

Dissi la mia ma, in verità, salvai Giulia la quale avrebbe dovuto dire che l’egiziano Salah (pensate un po’!) era ciò che poteva farci pensare nuovamente ad un volto pasoliniano. Protessi Giulia, parlandoci anche prima d’entrare in studio e raccomandandomi di riferire in generale dei calciatori con i quali aveva parlato esponendo le sue sensazioni circa quanto ascoltato.

Durante quella trasmissione pensai alla brutta figura che avrebbe potuto fare Giulia esponendosi in un paragone inconcepibile. Salah volto pasoliniano! Da essere aggrediti da brividi e da freddo al solo sentire un simile paragone. Oltretutto i “ragazzi di vita” di Pasolini non portavano la barba, erano rasati e con gli zigomi gonfi e grandi occhi e magari il naso ammaccato, le mani callose e con chiome sfumate alla nuca e ai lati, come i soldati di leva in un cinema nelle drammatiche domeniche pomeriggio.

Tutto questo non era Salah, il quale aveva alle spalle i minareti e anche le poesie di Costantino Kavafis.

Durante quella trasmissione pensai molto a Giulia  - le ero accanto - avendo timore che s’esponesse in un paragone azzardato e invece le sue narrazioni avvennero con classe e distinzione. Inoltre pensai che tutti dovevamo fare i conti con la Bellezza, ma io la scolpivo ogni giorno e c’ero dunque abituato. Scavare nelle parole, era proprio quella l’arte dove ero finito sin da cucciolo e non si poteva cambiare strada. Uno nasceva per finire nel vicolo cieco della forma, dell’essenza e dunque nella Bellezza.

Era la mia una forma di “eroismo” non esibito ma indubbiamente intenso, penetrante che s’occupava dell’essenza stessa del mondo. I miei amici calciatori non vedevano Giulia con gli stessi miei occhi ma era giusto che così fosse. Era diversa la postazione, la visione del mondo, la transitorietà del tutto: insomma io ero raffigurato in un affresco e vedevo il mondo fuori rimanendo nel mio “rinascimento privato”.

Che un tempo quei calciatori fossero stati “eroi” in un campo di calcio non bastava più. Per la Memoria dei calciatori c’erano i poeti e gli inesausti di nomi e bibliografie: la loro vita (beati loro!) era adesso era racchiusa in filmati e narrazioni. Anche gli eroi mostravano ora gli acciacchi e Giulia, di fronte, nel fiore degli anni e con uno sguardo che lasciava il segno in chi in esso cadeva, sembrava ricordare a tutti il divenire e, involontariamente, gli anni e il senso della vita.

Il suo viso aveva la meglio su tutto, sulle notizie, sui risultati di calcio, sulle interviste, sulle tifoserie, sulle interpretazioni. A me riusciva difficile ascoltare le interviste, quell’annunciare “può partire il servizio”, e mi perdevo nei suoi occhi, nelle sue parole composte perfettamente e in una nitida “libera uscita” dalle sue labbra. C’era lei e anche le cose più sublimi sarebbero passate in secondo ordine. Così io sentivo la vita e una creatura simile doveva essere soltanto ammirata rimanendo in silenzio. Cosa sarebbe valso sottolineare quello che lei già sapeva?

Me la gustai in silenzio e ancora adesso l’eco della sua voce mi raggiunge e l’immagine che si solleva è quella d’una margherita custodita in un libro e tornata alla luce dopo molto tempo.

Dopo quell’esperienza in un programma di calcio, la vidi in televisione altri servizi Rai e con altri scenari e fui contento quando m’apparve in montagna, anche in paesaggi innevati: era felice, sempre sorridente e credetti veramente che avesse trovato la sua dimensione.

Rivederla ad Assergi sul cavallo e con il notevolissimo Agostino, vero magister equitum, a dettare i tempi della passeggiata nella natura non può che avermi accarezzato il cuore.

 



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