Pompei-L’Aquila, viaggio nel silenzio

All’ingresso di via Roio un cartello è stato completato con una bomboletta spray. Hanno aggiunto «Pompei». E per chi ritorna all’Aquila come me, che ci venni da cronista all’indomani del sisma, quella frase è come un pugno e un avvertimento. Perché partendo dalle macerie della Casa dello Studente e salendo lungo viale Persichetti, in un silenzio ininterrotto, si entra nello scheletro puntellato della città, dove non c’è l’ombra di un aquilano. Superati i condomini anni ’70 che paiono bombardati, ecco il «cantiere»: tubi e giunti con incroci di viti che sembrano un’opera bizantina sovrapposta ai palazzi del Settecento. E poi strade deserte, mute di dolore, palazzi che s’appoggiano alle transenne come sull’orlo del collasso. È una città spettrale che ti avvolge. Dove si respira l’abbandono, dove ti assale il sospetto che la rinascita sia solo un desiderio. Una città vietata. Dimenticata. Questa è L’Aquila ma gli aquilani sono altrove. Dentro qualche palazzo si muove qualche casco d’operaio. Ma accade in pochissimi palazzi. La città morta tiene gli occhi aperti grazie ai pali conficcati. E quelli di legno cominciano a marcire. Ma la città fantasma ha un sussulto. All’improvviso si rianima nella notte del giovedì. Il giovedì degli studenti. L’altra notte, intorno all’una, c’era qualche migliaio di ragazzi che gremiva corso Vittorio Emanuele. Quasi non si passava: folla da stadio. Uno “struscio” in piena regola, ma uno struscio fra puntelli e transenne, tra segnali di pericolo e cartelli di divieto. Nessuno controlla. Ci sono alcuni pub aperti (anche un vecchio cinema trasformato in pub, l’Olympia), birra a volontà e tanta musica “a palla” che sembra di stare in una discoteca nella galleria della paura. Sì, la paura. Meglio non farsela venire, perché anche il minimo allarme potrebbe scatenare l’ansia lì dentro, tra puntelli e transenne, cornicioni salvati e vicoli bui. Se scatta il panico o il fuggi fuggi, non si sa come va a finire. Ma i ragazzi sono ragazzi, la gioventù è gioventù, la voglia di vivere e di sentirsi vivi batte anche la tanto odiata burocrazia. Ecco. Questa città, addormentata di giorno e pullulante di “giovani-clandestini” la notte, non è più una città. È un cumulo di macerie (ce ne sono ancora tante, tantissime) e un groviglio di tubi. Un corpo allo stato vegetativo, attaccato alla macchina. Dicono sia il più grande cantiere d’Europa ma non lo è. Devono ancora iniziare i lavori per i sottoservizi. Per le fogne. Se non fai quelli, non fai nulla. E chiunque entri a “Pompei-L’Aquila” rimane senza fiato: quei palazzi, uno sull’altro, semi-sventrati e semi-puntellati, come si riuscirà a rimetterli a nuovo? Sembra un’opera impossibile. Se poi davvero si ferma, se davvero si incaglia nelle parole che puzzano di eterne promesse, allora quel senso di impotenza che ti sorprende mentre ti inoltri dentro “L’Aquila-Pompei” diventa un’intuizione spaventosa. E poi, basta guardarsi nelle palle degli occhi. Quale città esiste adesso? E’ una città diffusa, allungata, dove la curia - che era in piazza Duomo, nel centro del centro - sta ora a Pile, e dove il tribunale - che era in via XX settembre - adesso è a Bazzano. Solo per dirne due. E gli aquilani dove stanno? Nei Map, nelle C.a.s.e. di Berlusconi, e in macchina, in coda, da un ufficio a un altro. Non c’è più la città. E non c’è nemmeno un’altra città. C’è la dispersione attorno a Pompei. Dopo il terremoto che porta la morte e ti scassa la vita, dopo il sisma che continua a tremare dentro il cuore, qui, all’Aquila, si sta verificando il terremoto dell’orientamento: i punti di riferimento non ci sono più, troppi anni già ora senza un centro vero. Perché le case antisismiche ammucchiano gli aquilani e insieme li disperdono. E anche la vita si disorienta, perde la bussola. La città perde “coesione” senza centri di incontro: perde se stessa, si disperde. Ecco perché il ministro Barca è già sotto esame. È stato delegato da Monti alla ricostruzione ed è il ministro alla “coesione territoriale”: è questa la sua missione, deve riuscire ad avviare una “coesione territoriale” di una città e di una cittadinanza. Che non è “solo” una ricostruzione. È un’operazione lunghissima e che proprio per questo richiede subito dei segnali concreti. Sì, è vero, alcune gru cominciano a roteare sopra i tetti sfasciati, ma sono aghi nel pagliaio. Nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio ieri un gruppo di tecnici col caschetto, accompagnato da una guida della Sovrintendenza, ammirava la “meraviglia” dell’incerottamento del gioiello. Restaurare Collemaggio quanto costerà? «Secondo la stima del professor Giorgio Croci dell’ Università La Sapienza ci vorranno una dozzina di milioni di euro» ribadisce il rettore di Collemaggio, don Nunzio Spinelli. E poi? Dovranno ricostruire ogni palazzo, uno per uno? «Sì, uno per uno» dice Spinelli «Qui tutti vogliono che si ricostruisca tutta la città». E così togliere i pali e ritrovare L’Aquila è un’operazione talmente lunga che forse la vedranno completata i giovani che ora s’infilano nella movida puntellata. Adesso c’è Pompei. E il ministro Barca deve offrire segnali concreti. Alle promesse naufragate nelle “Case” non crede più nessuno.

(da Il Centro)



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