L'Orizzonte degli Eventi

Riportiamo un articolo di Magda Tirabassi (di Marsicanews)

(nella foto Valerio Mastrandrea ai Laboratori del Gran Sasso) 

Nel 2005 . Cinema Massimo, L’Aquila. Insolitamente una sala gremita di gente, d’altronde non si trattava di una pellicola commerciale e nemmeno di un colossal americano, ne ero stupita. Un film italiano, il protagonista, Valerio Mastandrea, attore a noi tutti giovani studenti noto per la sua interpretazione in “Velocità Massima”, la mia passione per le pellicole Made in Italy, la complicità di una serata aquilana freddissima e la mia scelta fu condivisa da tutti i miei amici in pochi minuti. “L’orizzonte degli eventi”. Nessuno di noi sapeva nulla di quel film e soprattutto nessuno si aspettava di uscire da quella sala con il nodo in gola e con quel senso di vuoto ma allo stesso tempo di “sapienza”…come spiegarvi…? Qualche giorno dopo, in una casa di studenti, citai ad alta voce il titolo del film e un ragazzo mi disse: “E tu che ne sai di queste cose?”. Si trattava di una definizione di fisica, io non ne avevo davvero idea. Spesso, negli anni, ho ripensato a quella sera, mi sono ritrovata tante volte di fronte a quelle scene di paesaggi infiniti, spesso ho percorso quelle strade aquilane che il regista frosinate Daniele Vicari ha immortalato per sempre nelle sue riprese. “La piazza col pesce per terra!”, esclamò Matteo quando riconoscendo quella piazza, ebbe conferma che si trattava di un film girato a L’Aquila; non l’avevamo capito subito, che piacevole scoperta! In un attimo in quel cinema diventammo un po’ protagonisti anche noi: eravamo in quella città d’altronde! Maria Caterina dopo qualche giorno andò a curiosare in quella stradina: sì, la piazza era proprio quella e quel portone sul quale Max (Valerio Mastandrea) si intratteneva alla fine del film nell’attesa che Anais (la bellissima Gwenaelle Simon) gli riaprisse il cuore e lo riaccogliesse nella sua vita, stavolta in maniera “diversa”, dopo la sua fuga da un mondo che sembrava non volerlo più e, soprattutto, in cui egli stesso non voleva essere più, era, in realtà, l’ingresso di una scuola di inglese.

L’orizzonte degli eventi, «il limite spaziale del centro di massa di un buco nero, dove la velocità della luce è maggiore della velocità di fuga, ed oltre il quale la radiazione luminosa rimane vincolata gravitazionalmente al nucleo»; ancora: «la regione di spazio che circonda la singolarità è limitata da un confine, detto orizzonte degli eventi, che individua la zona oltrepassata la quale non è più possibile tornare indietro. Qualsiasi cosa attraversa l’orizzonte degli eventi non può più uscirne». (Per i più curiosi www.cosmored.it .

Forse è il caso di ripartire da capo, però, altrimenti oltre alla nomea di prolissa mi tocca accettare pure quella di “pazza visionaria”: i miei lettori aspettavano un articolo sulle pecore d’Abruzzo e qui invece si ritrovano a leggere di un film di qualche anno fa e di definizioni di fisica. Tutta la mia vita è sempre stata “tutto al contrario di tutto”, questo film lo è, questo articolo probabilmente lo sarà, ma alla fine anche quando ci troviamo, all’improvviso, in quelle che nella nostra vita pensiamo essere delle zone di non ritorno, quel ritorno alla ragione umana è dato trovarlo, poi sarà il cuore, i sentimenti che gli regaleranno un senso.

Il film è diviso nettamente in due parti. L’intenzione di Daniele Vicari è quella di raccontare due prospettive diametralmente opposte di una regione, l’Abruzzo, raccontando due storie di analoga solitudine. Sotto il Gran Sasso, c’è Max, un fisico che avrà modo di gestire un centro di studi sotto la montagna, ma che perderà l’occasione per la sua eccessiva ricerca di risultati; sui pascoli, in cima alla montagna, c’è Bajram, immigrato clandestino macedone che facendo il pastore cerca di riscattare il suo passato con la malavita albanese. Estromesso dalla comunità scientifica, Max, viene salvato dopo un tentativo di suicidio dal pastore albanese e per qualche tempo rimane con lui in montagna divenendo testimone di un mondo a lui ben lontano fino ad allora.

Il viaggio in macchina, il senso di cupo, le orecchie chiuse, la nausea che dà il senso di ansia…quelle poche immagini terribili, il flash di un cadavere, quello del padre di Max, la morte; la consapevolezza che arriva la fine e tu non puoi farci niente, non puoi dire più quello che hai aspettato una vita intera per trovare il coraggio di dire; tutto in quella macchina, sotto quel traforo lungo 11 km. L’inquietudine sul volto di Mastandrea, la mia, tante volte quando tornando a Celano da Teramo, avrei voluto urlare a mia madre che odiavo Giurisprudenza, la facoltà, le leggi, odiavo tutto quello che era quel “mondo”! Non era quello che faceva per me, io lo sapevo sin da subito, la mia famiglia lo avrebbe capito solo qualche anno dopo. Simile la storia di Max, egli non voleva essere un avvocato e per questo per tutta una vita fu sottoposto al “giudizio universale”, vivendo poi con un’armatura addosso che se da un lato faceva scudo ad “ogni interferenza esterna”, dall’altro, creava una solitudine impenetrabile. Queste due diverse solitudini, di Max e Bajram, nel film confluiscono, “si studiano e si confrontano, diventando necessarie una per l’altra”. Max, uno studioso brillante del laboratorio di fisica del Gran Sasso, incapace, però, di gestire i propri sentimenti, a contatto con il giovane pastore triste cercherà un’occasione di redenzione che, però, costerà la vita del suo stesso “salvatore”. Chiare le parole di Carlo Prevosti nella sua recensione: «Vicari dimostra uno sguardo attento ai problemi sociali, sia quelli legati ai margini nascosti della società, sia a quelli di una “autoeletta” crema che nasconde del marcio nel suo cuore (il padre di Max era stato inquisito durante Tangentopoli).» (La recensione del film e l’intervista a Daniele Vicari di Carlo Prevosti sono su http://www.hideout.it/

All’inizio disorienta un po’ il passaggio da un’area all’altra, dalle “claustrofobiche” scene girate sotto al laboratorio del Gran Sasso a quelle “agorafobiche” degli sterminati pascoli della montagna, ma poi, se ne delinea presto il senso. Vicari motiverà, così, la sua scelta: «l’idea iniziale era quella di montare il film alternando i due momenti. L’omogeneità dei due luoghi, il laboratorio e i pascoli, invece era così forte da richiedere una separazione netta di luogo e di azione. Altrimenti sarebbe diventato un film “a tesi” e non avrei voluto che il mio film potesse dar adito ad una lettura del genere. Ho scelto di lasciare un prologo, che solo alla fine del film viene spiegato allo spettatore in modo da avvertire che, prima o poi, si parlerà di altro che di fisica e neutrini.».

Saranno coincidenze, saranno occasioni che poi motivano altre nostre scelte, altri modi di pensare, ma solo dopo qualche giorno dalla visione di quel film, all’Università, al corso di Geografia Umana, il Prof. Luigi Gaffuri ci propose la visione di un documentario: “Uomini e lupi”. Il regista ancora Vicari, la produzione già di qualche anno prima (1998), le testimonianze lontane nel tempo ma che da allora rimangono scolpite nella mia memoria, indissolubilmente. Nella proiezione Don Claudio Ranieri, che parlava del fenomeno dell’immigrazione a Celano e nelle zone limitrofe. Giovani albanesi, kosovari, portati “chissà da chi”, sulle nostre montagne, divenivano pastori e così tiravano avanti la loro vita, soli, tristi, abbandonati, con le “nostre” pecore, sulle “nostre” montagne. Non tutti ce l’hanno fatta; di molti non solo non si è mai saputa nemmeno l’identità, ma sono morti; dove, quando e in che circostanze, non si sa. Io in quel periodo il fine settimana facevo la cameriera. Quante risate tra di noi quando nel ristorante cercavamo di scambiare qualche parola, con i nostri giovani colleghi kosovari, parole che non fossero “grazie, per favore e scusa”. Loro che guardavano Ilvio, gran comunicatore da sempre, molto più di me, con grandi occhi che brillavano di una luce che volesse in qualche modo riscattare tanta insoddisfazione, sofferenza, dolore; loro che a 20 anni ne dimostravano già quasi 40 e che non mi hanno mai permesso di portare una cassa d’acqua su per le scale perché “fermati, noi, noi!”, loro ci ripetevano sempre: “noi venuti qui in Italia per le ”pegòre”.

Tutto e il contrario di tutto, per lo meno sembrerebbe. Sotto la montagna diventata “la più famosa” in questi mesi, sotto 1400 metri di roccia, protetti dal rumore di fondo costituito dalla pioggia di raggi cosmici cui siamo tutti sottoposti sulla superficie terrestre, con gli esperimenti di circa 750 ricercatori provenienti da tutti i Paesi, si studiano “le particelle neutre e penetranti, difficilissime da catturare, come gli incredibili neutrini, o come le misteriose particelle che compongono la materia oscura”; sopra la montagna, uno dei mestieri più “vecchi al mondo”(si dice così, no?) nelle mani di chi, almeno “dalle mie parti”, amiamo tanto chiamare extra-comunitari, anzi no, meglio, “slavi”, tanto per noi, loro, “gli altri”, sono sempre e solo “slavi”, no?

Da piccola nonno mi faceva bere il latte caldo delle capre appena munte, non lo dimenticherò mai; sono cresciuta con immagini del mondo dei pastori che rimarranno sempre davanti ai miei occhi, molto “bucoliche”, ben lontane, da quelle viste in quel documentario. Ricordo Cesidio “rapone” che tornato stanco alla sera e si addormentava sulle scale di casa; da buon pastore non cercava letti morbidi e lenzuola profumate…che ridere quando mia zia, “cittadina teramana”, lo vide per la prima volta e cominciò a gridare pensando fosse morto. Che buono il suo formaggio appena fatto! Quando Domenica, sua moglie, si avvicinava con uno strofinaccio bianco a casa, era arrivato il formaggio fresco. Che meraviglia! Solo ricordi ormai…la mia paura più grande è quella che si rischia di non vederle più queste cose, di non aver più occasione di viverle. E’ per questo che quando un mio amico del CAI di Celano mi ha chiesto di collaborare ad un progetto ambizioso come quello di cui vi sto per parlare, ho accolto la sua proposta con grande entusiasmo! L’idea nasce da una “passeggiata in montagna” (diciamo che seguire le pecore dalle 5 e mezza di mattina su per la montagna, per me, non è stata proprio una passeggiata, però l’idea era quella), “Sulle orme dei pastori”, alla fine dell’estate. L’iniziativa prevede di ricostruire l’attività di quello che una volta era il mestiere de “I puquràle”, dei pastori, appunto, con la realizzazione di un documentario, la cui produzione finale sarà dell’agenzia MultimediaArt, Immagine e Comunicazione (di Emiliano Alleva e Alessia Santucci) e che sarà curata dall’Associazione Culturale Il Faro di Alessandria (http://www.ilfarodialessandria.org ). Siamo una generazione che, agli occhi dei più adulti, va sempre di fretta, risultiamo poco sensibili a certi aspetti che rappresentano la storia di tutti noi. Quando vedevo mia zia annotare detti, imprecazioni, modi di dire e poi trascriverli in dialetto pensavo che fosse così ”fuori dal tempo”, era sempre lì a registrare anziani che parlavano, che raccontavano, che cantavano…io la trovavo una perdita di tempo, avevo sempre mille cose da fare, da studiare, tanto che quel “recupero” mi sembrava così inutile. Ahimé, quanto sciocca mi sento adesso! Qui, sui suoi appunti, sulle sue pagine di quadernone già un po’ ingiallite, si legge di tradizioni, di usanze, di cultura che sono e saranno sempre denominatore comune di un popolo, di una regione!

Bene, quel 23 agosto, lì in montagna con il CAI di Celano, eravamo in tanti, non tutti esperti di montagna, ma tutti con la consapevolezza che i nostri nonni, i nostri antenati su quelle montagne ci hanno vissuto, ci hanno munto latte, ci hanno ucciso agnelli e se ne sono sfamati, facendo di quella che oggi a noi sembrerebbe una realtà -“surrealtà”, la loro quotidianità, il loro lavoro, la loro vita. L’invito era per una giornata in cui i veri protagonisti sarebbero stati solo “i pastori, le pecore, i cani e sopra ad ogni cosa lei, la Natura”.

Tra le pagine di “Cu stan’a dice?”, a cura della prof.ssa Silvia Carusi, si legge: “’Na vòte le crape calívane abbàlle dalle còste pe’ la vie ‘la Madunníne, i le pèquere stívene pe’ la muntagne i ‘n piane i pe’ i trattùre jívene alle Pujje, l’immérne. Mó n’n so tante cumma prime, ma ce stan’angóre.” (Una volta le capre scendevano, la sera, dalle Coste attraverso la via della Madonnina, e le pecore stavano in montagna e al piano per il tratturo andavano in Puglia d’inverno. Ora non sono più numerose come prima, ma ci sono ancora). E noi, allora, che abbiamo la fortuna di essere ancora testimoni di queste “immagini” antiche, cercheremo con il nostro contributo, di lasciarne memoria a chi, forse, dopo di noi, non avrà più occasione di vederle.

L’idea è quella di seguire ogni fase dell’attività dei pastori di un tempo e per questo ci siamo avvalsi della collaborazione di Sante (conosciuto da tutti come Santuccio) Montagliani, figlio da diverse generazioni, di pastori. Grazie a lui siamo riusciti a ricostruire un quadro generale anche sulla terminologia che ogni buon pastore conosce ma che è ricca di parole ben lontane dall’uso comune. Nella fotogallery allegata troverete le didascalie che, più o meno, vi daranno un’idea di che cosa sto parlando. Una giornata insolita, curiosa, emozionante. Intorno alle sei l’arrivo alla montagna di San Vittorino (quella che a Celano tutti conoscono come la località “sopra alla chiesetta”); arrivati allo stazzo, folgorante, la prima visione: la roulotte in cui il pastore rumeno Sorin (collaboratore e amico del pastore italiano) vive d’estate, sistemazione similissima a quella del pastore Bajram, sul Gran Sasso. A cambiare è la nazionalità dei due pastori. Sorin è rumeno, non albanese. Tutta la sua famiglia è di pastori. Quello di allevare pecore è sempre stato il suo mestiere, suo padre era un pastore, i suoi nonni lo erano. Si inizia con le riprese: le pecore ancora nello stazzo, una alla volta, richiamate dal segnale del pastore, entrano nel “guado” per essere munte una ad una. Il pastore ci spiega che il “guado” (dal latino “vadum”, vado, è un termine antico che indica genericamente un varco, un passaggio) è il luogo di passaggio, è l’area di mezzo, di passaggio tra lo stazzo e le terre limitrofe. Ruolo essenziale, durante tutta la vita di un gregge è quello dei cani. Subito fuori il recinto due enormi pastori abruzzesi ci osservavano ed abbaiavano ad ogni nostro movimento. Imbarazzante la mia paura iniziale, sono cani di stazza molto grande. La loro aggressività è la difesa maggiore per le pecore, sono loro a proteggerle sia nello stazzo sia poi nel pascolo. Nel frattempo Sorin, che ormai parla italiano in maniera corrente, ci mostra “gli attrezzi da lavoro”, insieme a Franco, il fratello di Sante. Prima “i majje”, un bastone lavorato in modo da avere una cima molto grande e arrotondata, utilizzato per fissare nel terreno i paletti che poi saranno il sostegno del recinto dello stazzo, poi “i campanacce”, quello il di cui suono ci fa capire dove sono gli animali, in genere, in montagna; alla fine “j urcale”, il collare, adornato da grossi spuntoni, che indosserà l’altra tipologia di “cane delle pecore”, quello che le segue, che indica loro la direzione durante i passaggi da un’area ad un’altra. Il cane, con questo collare, potrà difendersi dagli altri animali, selvatici, dai lupi primamente, potendo, così, essere sempre una difesa pronta per il gregge. Poco dopo le sei, ormai giorno, le pecore iniziano la salita su per il Monte San Vittorino. Tappa essenziale quella del sale. I pastori spargono il sale su di una roccia e le pecore ci si “buttano su” prontamente per nutrirsene. Il senso del mangiare sale sarebbe quello di dare forza, una marcia in più, agli animali che affronteranno la fatica della salita. Mia nonna, il giorno dopo, spiegandomi questa cosa, per me così curiosa, mi ha detto: “E’ come quando vai dal medico perché hai la pressione bassa e ti dice di mettere il sale ‘alle magnà’, il sale dà nutrimento, forza.”

Sicuramente uno dei momenti più suggestivi della giornata è stato quello della visione dell’affresco di San Giorgio. «Poco prima di raggiungere la sommità dell’ampio gradone roccioso, su una parete di roccia posta vicino a “scalelle” ricavate nella roccia, è presente un frammento di affresco duecentesco incorniciato raffigurante S. Giorgio aureolato a cavallo ed armato di lancia nell’atto di uccidere il demonio sotto forma di drago: sul lato sinistro si legge la frase + bea(tus) Ge [orgi]i, mentre sotto le zampe del cavallo bianco, simbolo di purezza, le lettere as.» (Giuseppe Grossi, Celano, 1998). Qui, in compagnia degli escursionisti guidati dal CAI, una volta salite “le scalelle”, su per la via medievale, arriviamo, a quota 1250 m., ad una valle. «La valletta che si estende sul gradone roccioso fu descritta fu descritta per la prima volta dal Febonio nel ‘600 con osservazioni che non si discostano molto dalla situazione attuale: trad. ital. = “Qui, sulla sommità, si apre un vasto pianoro, cinto da ogni parte, da rupi, nel quale verdeggiano ricchi prati fecondati da sorgenti di limpidissima acqua, ove, senza pastori, si muove una grossa mandria di cavalli, giacché le rupi fungono da recinti. Per di più rimane chiuso come da spranga, per cui lì sopra, in estate, si aggirano oltre duecento cavalli.” (Phoeb., III, 238).»

Non sono mancati momenti di ilarità regalatici dal simpatico Sante: non saprei dirvi se si è incuriosito più lui per l’interesse dimostrato da noi al suo mestiere o se eravamo noi più smaniosi di sapere più cose possibili dai suoi ricordi, dalle sue descrizioni. “Nenné che mi facéte diventà attore? No?” (Non é che mi fate diventare attore?), ha esclamato appena Emiliano Alleva ha acceso la telecamera per riprendere la sua prima intervista. Prima di ogni nostra domanda, Sante ha esordito con il motivo che lo spinge ancora oggi a fare il mestiere di suo padre: l’amore, la passione per questo lavoro, per gli animali e la natura…e poi: “Addù ce stà guste ‘nce sta perdenza (Quando si prova piacere nel fare qualcosa vale la pena farlo, non ci si perde mai)! No?”

“Santuccio, qual è il primo ricordo che hai della montagna?”
“La prima vote che so jite alla mundagne m’ene misse ‘ncime alla mule de Custantine Battocchie, i fijje de Luigge, a i Sirente. M’ene ditte de nen tuccà la mule; seme pijjate la vie che va a Ajelle i seme fatte tutta la Defenze. I pò ateva ta ji a Macerala, ai prate de Popoli; sarrà che teneve 14 anne. Sta mule tireve i so cummenzate a sentì ne poche i rumore della campane. Quande sò viste la campane, sò capite che ere arrivate. Pàtreme me dicétte:’nte mette paure i nne dice nende che la mule te porte jesse addù t’adà purtà. I queste succedette.” (La prima volta che sono andato in montagna mio padre mi fece salire sul mulo di Costantino –Battocchie è il soprannome di famiglia- il figlio di Luigi, sul Sirente. Mi dissero che non avrei mai dovuto toccare o comandare il mulo; ci siamo diretti verso Aielli e abbiamo percorso la strada della Difenze. Saremmo dovuti arrivare ai prati di Popoli; io avrò avuto intorno ai 14 anni. Il mulo andava avanti da solo, quando sentii il suono delle campane, capii che ero arrivato a destinazione, nonostante io non avessi fatto nulla. Mio padre, d’altronde mi disse: ”Non avere paura e non dire niente perché il mulo ti porterà dove ti deve portare. E così successe.”

Tanti gli aneddoti, i racconti, le impressioni, dalla descrizione della “bbardèlle” (che si lascia sui reni delle pecore più giovani per proteggerle dal freddo), a quella della funzione della “pequere passiggera”, quella che guida il gregge, che è sempre la stessa (quella che “porta la bandiera”!). Alla domanda se avesse mai avuto particolare paura dei lupi Sante risponde: “No, i lupi non mi hanno mai spaventato tantissimo. Ho sempre l’immagine di San Franco, ad Assergi, al quale la mia famiglia è sempre stata devota. Quel lupo, con il bambino in bocca mi fece tanta paura quando lo vidi la prima volta, poi però mi spiegarono che con la protezione del Santo, il bambino si salvò ed è come se la figura del lupo si fosse fatta, per me, più familiare.” (Per l’iconografia del Santo e per tutte le informazioni vi segnalo la scheda di Pasquale Ottaviani sul sito “Santi e Beati”: http://www.santiebeati.it/dettaglio/90280 . 



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