I borghi del cratere, un’idea-progetto (pronti 15 milioni) per dare un futuro a paesi oggi a rischi

All’Aquila quando si parla di ricostruzione si pensa fondamentalmente alla ricostruzione delle case. L’idea è che una volta rifatti gli edifici (nuovi o seminuovi) possa ripartire quell’economia della rendita parassitaria che fino al giorno prima del terremoto garantiva il “tirare a campare” in una città già piegata sotto il peso di una crisi economica causata dalla perdita in pochi anni di migliaia di posti di lavoro e di una mala amministrazione che aveva trasformato il capoluogo in un “paesone” di provincia. Ma c’è anche un’altra ricostruzione, quella che riguarda i paesi del cosiddetto cratere sismico. Si tratta di una cinquantina di borghi nei quali ricostruire le case non solo non basta ma sarebbe persino inutile se allo stesso tempo non si progetta una nuova visione dello sviluppo non più basata su illusorie megafabbriche ma su attività e produzioni che affondano nella storia e nella memoria degli abitanti di quegli stessi borghi. I sindaci dei Comuni “minori” hanno forte la consapevolezza che la risposta da dare alle generazioni future deve essere di tipo concreto. I giovani oggi restano se vedono spiragli, che significa fondamentalmente possibilità di avere un reddito dignitoso. Pochi giorni fa, al ministero della coesione territoriale – presenti fra gli altri uno dei collaboratori più stretti del ministro Fabrizio Barca, Aldo Mancurti e il coordinatore delle aree omogenee (e quindi dei piccoli Comuni) Emilio Nusca– si è svolta una riunione per discutere del rilancio economico dei centri più piccoli. Tutto nasce dai 100 milioni di euro che il Cipe ha stanziato per le attività produttive. Quei 100 milioni sono il 5 per cento degli oltre due miliardi che lo stesso Cipe ha deliberato nel mese di dicembre per la ricostruzione privata e pubblica e che a dire il vero sono ancora fermi nei meandri della burocrazia romana. In un vertice precedente, presente Barca, fu stabilito come ripartire quei 100 milioni. Fu deciso che più di 40 milioni dovevano andare a sostegno del polo farmaceutico dell’Aquila con la promessa da parte delle aziende di assumere personale. Dodici milioni il Comune dell’Aquila intende spenderli per il Gran Sasso risanando i debiti del centro turistico, migliorando gli impianti in base anche al piano d’area pronto da anni e poi offrendo la stazione sciistica a un privato (pare già individuato anche se ci sarà bisogno di una serie di passaggi formali) che a quel punto avrebbe interesse a comprare tutto o a entrare con una quota importante nella spa oggi a totale controllo comunale. Alle aree omogenee toccheranno 15 milioni di euro che saranno assegnati in base a progetti finalizzati alla crescita economica e sociale del territorio. I sindaci si sono messi al lavoro e hanno tirato fuori, per adesso, una serie di idee che presto potranno trasformarsi in atti concreti. I percorsi individuati sono la filiera agroalimentare, la ricettività diffusa e la valorizzazione turistica di un territorio le cui bellezze sono sconosciute ai più e forse poco apprezzate anche da chi ci abita. In soldoni filiera agroalimentare non significa produzioni intensive ma produzione di qualità. Ad esempio, la piana di Navelli, i suoi borghi e i suoi abitanti potrebbero avere un futuro tornando a coltivare lo zafferano – nel 1910 se ne producevano 3200 chili, oggi appena 20 nonostante il prezzo sia intorno ai 9.000 euro al chilo – non solo come hobby ma come possibilità di avere un reddito vero su cui si può contare per sostenere una famiglia. Oggi sembra utopia ma i sindaci considerano l’idea- progetto non solo fattibile ma molto concreta grazie a fondi che saranno disponibili a breve. Se lo zafferano potrebbe fare da traino alla piana di Navelli, la neve intesa come impianti per lo sci potrebbe fare ancora di più di quello che fa già adesso per Ovindoli , Campo Felice e l’altopiano delle Rocche. E poi l’allevamento ovino, con le implicazioni legate al “mito” della transumanza, potrebbe essere il fulcro dell’economia di centri come Castel del Monte, Santo Stefano di Sessanio, Calascio. La valle Subequana ha dalla sua la risorsa tartufo . Infine l’alta Valle dell’Aterno che viene definita – nello studio preliminare che è alla base dell’idea progetto – come la terra delle mele. Detta così e con le inevitabili semplificazioni che l’elaborazione giornalistica richiede sembra di essere più nel mondo di Heidi che nella concretezza giornaliera fatta di problemi a volte insuperabili e di una crisi che ormai tocca ogni famiglia a qualunque latitudine. La domanda però è: che cosa si può immaginare di alternativo a tutto questo? Nulla se non l’ulteriore spopolamento dei borghi e quindi il progressivo abbandono dei centri storici. Il terremoto con la sua violenza distruttrice ha fatto sì che quei paesi che avevano la loro forza in un ambiente che sposava natura, storia e arte si sono ritrovati “nudi” e spesso soli. Oggi ci sono Comuni che non sono in grado nemmeno di fare una delibera perché manca persino il segretario generale. Questo i primi cittadini lo hanno capito e mettendo un po’ da parte sterili campanilismi stanno cercando di unirsi pur nelle diversità, perché sanno che è l’unico modo per dare delle risposte a chi chiede fatti e non più proclami.
 



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