Nuovo western girato sul Gran Sasso: "Se il mondo intorno crepa"

Polvere e pallottole. Sangue e miti della frontiera americana. L'accoppiata Jacurti e Ferrera ha scelto di nuovo l'Abruzzo selvaggio per il suo secondo film western, “Se il mondo intorno crepa”, di cui sono terminate da poco le riprese tra Campo Imperatore e Campo Felice. Il film segue a tre anni di distanza l'exploit del low budget “Inferno bianco”, girato quasi completamente tra le montagne e le nevi abruzzesi, portato poi lungo tutto lo Stivale tra festival e rassegne, ottenendo successo e consensi.

Un ritorno in grande stile, dunque, con nel cast nomi importanti come Emanuela Ponzano (nel film Sheila, una prostituta cieca), reduce dal festival di Venezia per il film francese “La Jalousie” con Philippe Garrel; Antonella Salvucci (una moderna cowgirl), presente anche in “Midway”, una delle sette pellicole in corsa per la selezioe italiana agli Oscar; e poi ancora Simone Pieroni, senza dimenticare il duo Stefano Jacurti ed Emiliano Ferrera, il primo nei panni di un poeta di nome Black Burt, chiaro rimando a miti della letteratura di frontiera, e il secondo Bill Carson, citazione del nome da cercare sulla tomba del film leoniano “Il buono, il brutto e il cattivo”. Insomma, un western senza spaghetti, che cita John Ford e guarda alla tradizione del rock folk country di matrice dylaniana.

In attesa di vederlo completo dopo la fase di post-produzione appena partita e che si concluderà con il montaggio finale non prima del nuovo anno, abbiamo intervistato il regista-attore e produttore Stefano Jacurti, ormai anche nella realtà sempre più calato nei panni di un personaggio del west.

Partiamo dalle location. Non poteva mancare l'Abruzzo, giusto?

«Dopo essercene innamorati girando “Inferno bianco”, ovviamente l'Abruzzo doveva essere nel film e abbiamo scelto di ambientarci le scene a cavallo. Altre location sono state Forte Bravo in Almeria, Spagna, e il ranch laziale del Cavallo selvaggio».

L'Almeria, ovvero le origini del western all'italiana.

« Certo, ma mi piace pensare a “Se il mondo intorno crepa” come a un western all'americana, che non ha molto di spaghetti, in cui a dominare è invece una certa cultura d'oltreoceano, a partire dalle musiche country, con un sound alla Bob Dylan, e rimandi nei personaggi alla Pat Garrett e Billy the Kid. Non penso che funzioni sempre come un'equazione, ovvero che un western girato da italiani debba essere automaticamente uno spaghetti western».

Com'è nata l'idea del film?

«Nel concetto di base è stato ispirato da un servizio televisivo in cui ho sentito la seguente frase: “Il cittadino si sente abbandonato, le istituzioni non sono presenti, lo Stato non c'è!”. Ecco se c'è invece un genere cinematografico in cui si può ribadire il senso della giustizia, della legge, quello è il western».

E il titolo invece?

«Vuol dire, sempre in una logica di giustizia, che non si può restare a guardare ciò che ci accade. È una metafora universale, non western, attenzione. Ed è quanto poi accade ai protagonisti del film, ovvero il poeta Black Burt, che uccide declamando versi, e un macellaio sanguinario, i quali dopo una serie di rapine si ritrovano in una ghost town prima di fuggire per il Messico. Ma qualcosa cambierà i loro destini».

Cosa vuol dire oggi girare un western?

«Questo problema, se così possiamo considerarlo, ce lo siamo posti già girando “Inferno bianco” che è costato solo 6mila euro, ma fisicamente è stato un film molto faticoso. Ora ci sono nuove tecniche digitali che agevolano certe spese. Non sappiamo quanto costerà a fine montaggio, ma con un budget di poco superiore al doppio del film precedente ora abbiamo tra le mani un prodotto che non sfigura di fronte a tante altre produzioni italiane sicuramente più costose. Di western poi per ora c'è solo il nostro film.



- da Il Centro -


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