Il piazzale del cimitero, noi bambini, il gioco delle torce e la vittoria sul buio

Cari amici di "Assergi Racconta", con grande piacere vi proponiamo una riflessione di Marco Ippoliti. Leggendo la notizia del piazzale del cimitero ripulito, ha ricordato la sua infanzia vissuta insieme a tanti amici ad Assergi.

Marco (figlio di Pino di Cellare) è un carissimo amico, vive a Roma, ha trascorso l’infanzia ad Assergi, dove nei periodi estivi viveva insieme alla famiglia. La nonna (Adele) gestiva la “Trattoria la Rustica” che si trovava dove attualmentec’è il “Ristorante Vulìa”. Marco è diventato uno stimato professionista della grafica computerizzata, ricordiamo che ha creato la grafica del logo di "Assergi Racconta". Anche per lui, il nostro sito è diventato il cordone ombelicale che lo ha ricollegato al paese di origine.

Il piazzale del cimitero, noi bambini, il gioco delle torce e la vittoria sul buio

- di Marco Ippoliti - A cavallo dei primi anni ‘70, in un tempo in cui Italia che si dice sia stata abbagliata dal “boom economico”, salvo poi svegliarsi con la nebbia dell’Austerity, le vacanze per noi bambini non finivano mai.
Si andava a scuola come Remigini e il primo ottobre era quindi oltremodo lontano. Fino alla legge n. 517 del 4 agosto 1977, quella era la data di inizio di tutte le scuole e, poiché in questo giorno veniva celebrato San Remigio, i bambini di prima elementare (oggi scuola primaria) erano appunto detti "Remigini".
Per noi romani di nascita, ma Assergesi di adozione (delle cui vicende vorrei parlarne in un prossimo intervento), la villeggiatura era finita da poco e già si aspettava con desiderio l’estate di San Martino e la ricorrenza dei morti. Già, i defunti, chi non ne aveva uno in famiglia.
Per noi piccoli il nonno, magari non conosciuto o poco ricordato affianco al camino con la coperta sulle gambe, era solo il racconto sentito alla sera dagli altri componenti della casa.
Dalla grande città si poteva ancora raggiungere il paese per qualche giorno di gioco e poco importava se le giornate erano climaticamente meno apprezzabili, avare di sole e soprattutto di luce.
La scusa per i genitori era quella di tornare a prendere le bottiglie di pomodoro fatte per l’inverno nelle ultime giornate di ferie, sul callare, davanti casa, con le alzataccie trascorse a “passare”, “ripassare”, “imbottigliare”, “tappare” e “posizionare” il prezioso prodotto nel pentolone facendo attenzione alle turbolenze della successiva bollitura e quindi rottura dei delicati involucri di vetro.
Come per le feste di San Franco, con l’immancabile bicicletta si passava la giornata al cimitero.
Ma differenza di quelle torride di agosto non eravamo più soli, in compagnia di qualche malcapitata lucertola, a cercare di far trascorrere il tempo, vincendo noia e solitudine, spruzzando acqua sulle vespe o mangiando mais crudo e acerbo con il risultato di punture e dissenteria.
Eravamo in compagnia di quasi tutto il paese che rendeva quel posto colmo di un caldo tepore, pieno di suffuso ed educato cicaleccio.
Le candele che irroravano di rassicurante luce quel santo luogo erano vendute, da Antonietta, sfuse e avvolte in una carta blu. E qui nasceva il più bel gioco del momento.
Si accendeva un fuocherello appena fuori il cimitero, si raccoglieva della cera in terra, senza recare danno a niente di sapientemente sistemato dalle pie donnine sulle lapidi, si squagliava con un vecchio pentolino abbandonato e avendo precedentemente fatto con quella carta un bel cono lo si riempiva di cera dando vita ad una nuova ed efficiente torcia.
Lasciatele raffreddare le si potevano accendere nel tardo pomeriggio ormai sopraggiunto con la sua oscurità e ci avrebbero guidato nel ritorno a casa come valorosi cavalieri.

Gli anziani non osteggiavano questo innocente gioco, anzi.
Ricordo quelle ricorrenze non come periodo di sconforto ma come momento se non di gioia almeno di serentità, e chissà se noi bambini nel alzare quelle lucciole al cielo del Gran Sasso contribuivamo a vincere la notte.

Marco Ippoliti

 



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