A caccia di macerie - Ci vorrebbe un calcione…

Cari amici di "Assergi Racconta", l'amico Raniero Pizzi ha pubblicato sul mensile di informazione: "Citta Magazine" un editoriale che condivido perfettamente...

Ci vorrebbe un calcione…

- di Raniero Pizzi - “I miei lettori vogliono vedere le macerie”, l’interlocutore dall’altro capo del telefono è chiarissimo. Ho appena mandato un certo numero di foto dell’Aquila nel tentativo di far capire come, a 5 anni dal sisma, le cose in città siano evolute. “Altri giornali pubblicano le foto delle macerie dell’Aquila e qui ce ne sono poche”. “Ma guardi”, è stata la mia risposta, “le macerie in strada in centro all’Aquila non ci sono più dal dicembre 2010. Posso andare in qualche frazione, ma all’Aquila la situazione è questa che ho fotografato io”. Vedete, io faccio il fotografo, sono l’occhio del giornale, vado sul posto “al posto” del lettore, io non devo permettermi di sbizzarrirmi in foto artistiche, io devo documentare la situazione in maniera il più possibile asettica. A parte la parte finale del discorso, che è frutto di una mia valutazione successiva e a mente fredda, il resto della conversazione è vera, tra il sottoscritto e l’addetto di una grossa agenzia fotografica. Parole dette in viva voce, dentro la macchina, con mia moglie allibita che ascoltava. Le mie foto resteranno invendute, e non è che non dormirò la notte per questo, tutt’altro. Quello che a me veramente dispiace è che sul terremoto dell’Aquila si sia creato un meccanismo in cui raccontare, o semplicemente provarci, è diventato praticamente impossibile. Agli altri, della situazione dell’Aquila non potrebbe fregare di meno, importa vedere le macerie per scrivere che è tutto fermo e in ritardo. Un caso isolato? Magari lo fosse. Leggendo i vari resoconti dei giornali nazionali, parlando con gli addetti ai lavori, scopro con grande dispiacere che a volte chi è venuto per l’anniversario del terremoto è arrivato con in testa il pezzo già scritto. Non ha bisogno di vedere quello che sta veramente accadendo, qui si viene a cercare le conferme di intuizioni fatte a tavolino, magari a 500 chilometri di distanza. Una cosa che va in direzione opposta, semplicemente, non viene presa in considerazione, troppo complicato rielaborare, troppo difficile calarsi nei panni di gente che da 5 anni affronta con coraggio situazioni che mai avrebbe immaginato di dover affrontare. Due foto di pietre a terra dando le spalle ai cantieri, ben celati, che non si deve vedere gente al lavoro che sennò il pezzo salta, una foto di qualche buco in uno dei 6000 appartamenti realizzati in fretta e furia dopo il sisma, una foto di progetto CASE, rigorosamente deserto in modo da dare l’impressione del “non luogo”, una rapida occhiata a facebook per tastare i sentimenti della popolazione, una telefonata ai soliti contatti presi al tempo del sisma, gente che parla, meglio se è di un comitato. E il pezzo è fatto. “Chi te lo contesta?”, diceva un mio collega. Chi lo contesta?! Nessuno, appunto, qualche post polemico su facebook. Tutto qui. Eppure la ricostruzione dell’Aquila si può spiegare in meno di 20 parole: “per la ricostruzione abbiamo speso 6 miliardi, abbiamo danni per 15 miliardi, se ci date i 9 miliardi che mancano, finiamo subito”. Sono 22 parole, chiedo venia. E’ facile. Per spiegare la situazione io uso la metafora delle 100 stanze andate a fuoco. Immaginate di avere una casa con 100 stanze, e una notte un incendio ve le distrugge tutte. Non ci sono i soldi per ricostruirle tutte insieme, e quindi si comincia dalla stanza 1 per arrivare alla stanza 100. Arriva quel lontano parente promettendo “conta su di me”. Vede, racconta, e va via. E poi torna dopo un anno, e sorprendentemente non va a vedere le stanze dalla 1 alla 10 in cui tu stai lavorando, ma va direttamente alla stanza 11. “Ma qui è tutto fermo!”. Vabbè, effettivamente, potevo fare di più. Poi quel parente sparisce di nuovo, va in ferie, si fa i weekend, lo chiami per chiedergli aiuto e al telefono spesso si fa negare. Strano, pensi tu. Nel frattempo, poiché non sei stato con le mani in mano, con i soldi che ti hanno mandato i parenti hai iniziato a lavorare alle stanze dalla 10 alla 20, e le stanze dalla 1 alla 10 sono di nuovo agibili. E quel parente viene, prende il caffè nella stanza 3, dovrebbe ricordare che anche quella stanza era distrutta dal fuoco. E invece va alla stanza 21 e sentenzia: “ma qui è tutto fermo”. Vabbè, stiamoci buoni, in fondo, magari potrebbe esserci utile, potrebbe raccontare al resto della famiglia la situazione. E poi passa un altro anno, e ti accorgi che ogni volta quello va sempre alla prima stanza in cui i lavori non sono arrivati, ignorando tutto quello che è stato fatto in precedenza. Ma se qui è tutto fermo, ti dice, che fine hanno fatto tutti i soldi che ti abbiamo dato? Te li sei intascati? E allora finisci per fare l’unica cosa logica. Afferri il parente per un orecchio e, con gli scarponi antinfortunio, gli rifili un sonoro calcione nel deretano e lo spedisci fuori di casa. La sua insulsa presenza è perfettamente inutile, se non deleteria. E questo perché, purtroppo, costui non viene per raccontare la tua verità, ma la sua.

 



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